Diario di un soldato morto sul Carso
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Segnalato
Diario di un soldato morto sul Carso
di Monica Zuccato - Treviso
“...06 dicembre 1916...”
Il gelo non regna soltanto nell'aria, ma anche nei cuori di noi soldati: è tempo di guerra qui sul Carso.
Ora è notte e la notte non fa paura a noi soldati; lei scende come una coperta nera a coprire le cicatrici della terra devastata dalle bombe del giorno, come un unguento pietoso sulle rocce concimate di morti e sulle acque dei torrenti ingrossate e rosse del sangue dei caduti.
Noi soldati ci stringiamo nei mantelli laceri dentro le buche, con il fango fino alle ascelle, e ci sentiamo fratelli nell'orrore che ci avvince e scaldiamo i nostri cuori di ghiaccio con brevi frase amiche che il vento, ingolfatosi lungo le trincee, cerca di rubare.
Neppure ci capiamo fra di noi... parliamo tanti dialetti incomprensibili e solo i nostri occhi sono capaci di dire la nostra paura.
Domani sarà grande battaglia; già so che all'alba mille e mille di noi fanti si alzeranno in un unico slancio trascinando il proprio corpo carico di stracci ed ossa attraverso la terra di nessuno, sotto un diluvio di bombe e pallottole.
Noi veterani sappiamo che sarà così perché stasera, dai camion e dai carri, sono state scaricate decine e decine di fusti colmi di acquavite: è la paga di noi soldati che corriamo incontro alla morte.
Perché noi siamo uomini, non eroi.
A noi poveri cani il crepitio dei colpi ci fa tremare come foglie e il fischio delle pallottole fa sbiancare il volto e battere il cuore a mille; a noi ignoranti le strategie militari dicono poco e l'importanza del nostro sacrificio non risulta chiara.
Per questo i Signori Ufficiali, la sera prima della battaglia, distribuiscono bottiglie e quando il liquido rovente brucia la gola spazza via le nostre paure di vigliacchi e annega le nostre coscienze nell'oblio dell'alcool, regalandoci il coraggio dei libri di storia e le gloriose visioni della Patria.
Perché per noi - da sobri - la Patria è la nostra terra, quella terra su cui siamo nati e dove volevamo finire i nostri giorni e, anzi, neppure sappiamo cosa sia la Patria e chi sia il Re.
Il Re … i più fortunati di noi che sono andati a scuola hanno visto la sua figura nel quadro dietro la cattedra della maestra, ma non so perché dobbiamo morire per quest'uomo che ci guarda con occhi severi e non ci dice se darà lui da mangiare alle nostre mogli e ai nostri figli quando noi non ci saremo più.
Io mai prima d'ora m'ero mosso dai quattro campi in cui ho vissuto e dove ha vissuto mio padre e suo padre prima di lui.
Forse è quella la Patria che sto difendendo... ma è tanto lontana da qua e qui la terra è marcia e senza frutto e l'amico che dorme accanto a me, avvolto nel pastrano nero e sporco, parla un dialetto che neppure conosco ed ha la pelle scura come quella dei diavoli dell'inferno.
O forse la Patria sono le urla degli ufficiali e la bottiglia che stringo tra le mani e che ogni tanto tracanno, e la divisa e il moschetto sporco di terra e sangue che ho buttato di traverso al fosso.
Per questa Patria, dunque, a me o a qualche altro all'alba toccherà di morire.
Ma l'idea non è brutta se hai lo stomaco pieno di grappa e la mente confusa.
Lungo la fossa scorrono i nostri volti immobili, gli occhi lucidi e fissi che si animano solo quand'è il momento di un nuovo sorso dalla bottiglia.
Forse le guerre le vincono i Generali che hanno più acquavite da dare ai loro soldati.
Mi chiamo Carlo e a casa ho lasciato una moglie e quattro figli: l'ultimo ancora non l'ho visto e talvolta temo che non mi riuscirà mai di vederlo; ma ora che sono ubriaco vedo le cose in una luce più bella e più buona e sogno che il liquore dentro di me mi renda invulnerabile alle palle di cannone ed ai proiettili dei fucili.
E, giacendo in questo stato, mi pare che il calore che sento dentro provenga dal focolare della mia casa lontana e che questi uomini buttati attorno, avvolti nei loro cenci, siano compagni d'osteria in una serata amica.
Sta quasi sorgendo l'alba... ecco, giungono gli Ufficiali che con grida secche ci ordinano come bestie al macello.
Gli uomini si alzano, molti con ancora le labbra attaccate alla bottiglia, e con bestemmie roche si rassettano i cappotti dal fango e alzano i moschetti.
L'orizzonte lontano comincia ad impallidire, muto.
E' l'ora! Il nostro drappello capeggiato dal tenente scivola arrancando fuori dalla trincea, lanciando un grido che vuole essere di sfida ma suona solo di beffa e di follia da ubriachi.
La corsa è violenta e disperata tra i massi, i greti e le buche dei cannoni, tra i rovi stecchiti e i ruderi e i campi spinati disseminati dei resti delle trascorse, recenti battaglie di cui si è già smarrito il ricordo.
Il fuoco nemico comincia a crepitare come un'eco lontana... già i primi di noi cadono schiantati mentre le pallottole fischiano e mordono l'aria.
Anche noi spariamo come impazziti alle ultime stelle che accompagnano la notte morente e corriamo incespicando, in un vortice di ebbrezza ed esaltazione, nel tanfo di sudore, alcool e salnitro bruciato.
Il tenente avanti a noi vacilla e poi cade, pesantemente, nel duro abbraccio della terra. lo e qualche altro ci chiniamo per soccorrerlo e rivoltiamo quel corpo d'uomo con la faccia al cielo e scopriamo sorpresi il suo russare d'ubriaco: non una pallottola, non una scheggia l'hanno piegato, ma un sorso di troppo di grappa traditrice l'ha vinto.
Ci rialziamo e riprendiamo la corsa perché lo scontro s'infittisce, si fa più violento e nessun posto per noi ormai è più sicuro; il rombo della battaglia copre ogni altro suono, anche le urla di paura di quelli di noi che stanotte non hanno bevuto abbastanza per non essere ora vigliacchi.
Uno, due, tanti attorno a me cadono per non rialzarsi, poi giunge il mio turno: la sento arrivare la granata, fischiando, vomitata dalla gola dei cannoni nemici sembra quasi cercarmi per un oscuro destino, sembra quasi che abbia occhi per scovarmi e bocca per gridarmi in faccia la morte.
Atterra a pochi passi da me e lo scoppio mi solleva nell'aria e mi precipita in un fosso, lasciandomi in una posa scomposta, come un pupazzo rotto dalle mani di un bimbo crudele.
Sento delle fitte al petto, ma sorde, lontane, quasi estranee a me che fatico a respirare e tossisco e sento le mie forze abbandonarmi velocemente come le acque che hanno rotto la diga e si precipitano in basso.
Quasi non provo dolore ma ho sangue in bocca e lo sputo, e non sento più le gambe e non oso (né potrei) abbassare il capo per guardare; la morte mi sta vicina (lo so, lo sento!) ma non mi è nemica.
Penso che non vedrò mai il mio ultimo figlio e la mia sposa, nella mia terra lontana, stavolta non ho bevuto abbastanza per essere invulnerabile e…
... Riprendo coscienza e mi accorgo che il sole è ormai alto; sento rumori di guerra lontani ed ovattati; nulla di tutto questo mi interessa ormai.
Anche il mio corpo rotto non mi appartiene: non sento più dolore e voglio solo dormire, sognare.
Sognare mia moglie, i miei figli e la terra che il Re ha voluto togliermi per darmi in cambio una morte assurda.
Sognare di tornare da coloro che amo e rivederli per l'ultima volta prima di partire per non fare più ritorno.
Ora una nebbia rossastra cala a chiudermi gli occhi e il flusso dei miei pensieri vacilla e trema come una candela morente. E' il mio turno, devo andare, addio...
Al diavolo il Re!