Cosa resta della notte
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”X EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2005
Secondo classificato
Cosa resta della notte
di Angelo Francesco Paloschi - Mestre (VE)
La sera ha liberato le stelle e le vette si sono cristallizzate nel gelo. Fioche lanterne di spiriti notturni rischiarano il manto delle nevi perenni. A quota quattromila, in una notte serena, la natura produce il silenzio perfetto. Non servono suoni, quassù, come in fondo alle grotte non serve il colore. La pietra, altero calcare, la pietra delle pareti non è in grado di udire, né potrebbe sentire il ghiaccio, nel suo stato fisico d’acqua privata dell’anima. Neppure il cielo, puntellato di mondi remoti, può dare ascolto al lamento che da quel solco scavato nella neve continua a levarsi inutile e solo.
Giuseppe è rannicchiato nel solco come un bimbo in castigo, preme le ginocchia sul petto e infila le dita negli scarponi. Vuole accertare che i piedi siano ancora là, attaccati alle caviglie, ma trema tutto e non riesce a capire. Non può più fidarsi delle sue stesse mani. I denti gli battono senza controllo, masticano un grumo di muco ghiacciato. Sotto la stoffa indurita dal gelo, gambe e braccia sono percorse da brividi. Gli ufficiali stanno al caldo giù alle terme di Bormio. “A ciàpar fià par le fadìghe, ‘sti can (1)”, dice Giuseppe allo spazio stellato reclinando la testa all’indietro. La guerra, tra gli alti ufficiali, è un foglio passato di mano in mano, è un dito su una mappa, un discorso sicuro. Quassù in cima all’Ortles è il gemito di un contadino, e un silenzio immenso di ritorno.
Ha quel rantolo asmatico che gli veniva da bambino, quando si svegliava nel buio e si metteva a sedere sul letto. Aspettava che gli passasse senza chiamare nessuno. Il ricordo di casa fa inumidire gli occhi e un alpino, “ostia!”, mica è una donnetta. S’è abituato a scacciarli, i ricordi, a rispedirli al diavolo prendendo a calci la neve. Adesso che con la febbre le gambe non rispondono, può solo pressare la fronte contro le ginocchia. “Via, via, via…” geme e ringhia come una bestia ferita, “chi se avvicina ghe sparo un colpo in bocca.” Vorrebbe ripeterlo, farlo udire più forte, che a qualche crucco balordo non venga in mente di provarci. Ma una nuova convulsione gli ricaccia in gola la voce.
Gli hanno tolto la pala e messo in mano il fucile, a lui come agli altri uomini abili della sua valle. Le donne sono rimaste sole, coi bambini e i vecchi sulle spalle e la speranza di una lettera a farle tirare avanti. Mentre le famiglie cadono in rovina, le reclute seguono il corso accelerato per la guerra, posizioni di sparo, combattimenti all’arma bianca e l’esercizio virile della disciplina. Poi, siccome vengono dalla provincia di Belluno e lavorano i campi ma sotto le montagne, li spediscono sul fronte più elevato d’Italia, dove il nemico peggiore non porta divisa ma veste di ghiaccio e si arma di bufera. Giuseppe sale con quaranta chili sulla schiena, gli scarponi già fradici alla prima neve, la scorta di gallette, la paglia per dormire, la forza incosciente dei diciotto anni. Gli austriaci hanno le teleferiche e più di un cannone posizionato in vetta. Si sta là sopra a tenersi d’occhio, ci si sparacchia di quando in quando e per la gran parte del tempo si aspetta. Non è altitudine da grandi scontri quella del fronte sull’Ortles-Cevedale, la battaglia consiste nel conquistare i presidi e nel salvare la pelle sfidando la montagna. Quattro cani infreddoliti a farsi la guardia, a tenere in pugno il proprio buco nella neve.
“Te me scòlti, Dio? Te te scònde drio le stéle? (2)” Non è vero che sei in cielo, Dio, altrimenti da qua sopra ti vedrei. Sei lontano, fai bene, farei lo stesso anch’io: me ne starei seduto al caldo in una bella chiesa piena di santi e di madonne, certo, magari dietro un grosso cero acceso… Giuseppe non ha più da accendersi neanche una sigaretta, sai, le ha finite proprio stamattina. “’Sta guera l’è persa, se no gh’è più na sigaretta (3)”. Ma tanto… non potrei fumarla, adesso, di notte gli austriaci la vedrebbero brillare. Di notte, in cima a “’sto porco de ghiacciaio, dentro ‘ste buse, no gh’è altro da far che mirar ai punti rossi de le ciche: che maravéia ‘sta guera! (4)” Forza, “forza crucchi de l’ostia, feve avanti! Ah, mamma, vardàme qua (5)”, non mi sono mai sentito così in forma. “No ste pensàr podér farla franca co mi, bastardi de crucchi, feve avanti. (6)”
Un alpino non trema, tiene tutto sotto controllo. Ma il corpo di Giuseppe non è più il suo, risponde ai comandi della febbre e del gelo. Onore e autocontrollo funzionano a temperature normali e lui è un grumo bollente di muscoli e ossa infilato nel centro di una plaga ghiacciata. La mano cede piano il fucile alla neve, poi racimola le forze per tirare il telo tenda, lo sistema sulle spalle e lungo la schiena. Il capo è un macigno, le palpebre si ostinano a cadere sugli occhi. Dalla gola esce un “no” con una voce alterata e gli occhi si sgranano puntando le stelle. Il sonno va cacciato indietro come si scaccia la morte. La morte nel freddo è un’ombra silenziosa che viene a proporsi come una calda signora. Di notte sopraggiunge la miseria della guerra: non appare mentre si spara ma nel silenzio della montagna, quando a un uomo viene dato il tempo di pensare. In questa notte la testa si è affollata di pensieri. Poi se ne sono andati, e sotto il cappello con la penna è rimasto il vuoto. Nel buio si sono disperse parole senza senso, un lamento incongruente si è frantumato nel gelo. Per un tempo che avrebbe potuto essere eterno le cime hanno atteso inerti e indifferenti. Ora che il crepuscolo si accende ad oriente, Giuseppe, dentro il solco, sembra essersi calmato.
Una sagoma viene a stagliarsi contro il chiarore dell’alba. Manda un’ombra che si allunga nella buca e si posa sul telo tenda irrigidito. Il piccolo occhio circolare di un fucile esplora lentamente l’interno della trincea. Il respiro di Giuseppe è un sibilo ritmico e impotente. Com’è scivolata dentro, così l’ombra si ritira. Uno scricchiolio di passi si allontana nella neve.
La vivida luce di Venere s’indugia nel cielo svuotato di stelle. Nella nascita del giorno senza canto d’uccelli torna a farsi sentire un affondare di scarponi. Di nuovo la sagoma s’affaccia sullo scavo. Questa volta regge in mano una gavetta, sulla spalla tiene appoggiata una coperta. Cautamente, facendo attenzione a non versare il liquido fumante, scende nella buca e si china sul malato.
Giuseppe assume il liquido a piccoli sorsi. Sospira, ha gli occhi chiusi, non dice niente. Si sente levare il telo diaccio dal collo e accoglie con sollievo il tepore della coperta di lana. L’uomo lo avvolge come si avvolge un figlio, gli sistema gambe e braccia, gli friziona le mani. Quel corpo febbricitante non ha voce per parlare eppure con una mano sembra indicare qualcosa. Posata per terra accanto al fucile giace una lettera indirizzata a casa. E’ l’ultimo desiderio prima di morire, che possa essere spedita, recapitata a sua madre. La busta viene raccolta, infilata in una tasca. Poi due braccia vigorose afferrano l’alpino, lo sollevano, lo caricano come un sacco sulla spalla. Pochi passi piantati scalinando la neve e i due uomini sono fuori, inondati dal sole.
L’esercito minerale delle vette si dispiega infinito nel mattino, i suoi profili ondulati svaporano all’orizzonte. Nella natura immobile e strabiliante c’è un punto miserabile in lento movimento. Due umani, uno sull’altro, ciascuno caricato di un peso insostenibile, s’illudono di tentare la discesa dell’Ortles. Occhi nascosti e stanchi li osservano dalle trincee. Nel silenzio si provvede alla pulizia inutile delle armi, dita svogliate accendono un’altra sigaretta.
L’aria rarefatta accresce la fatica, affannosamente il sangue racimola quel poco ossigeno che trova e lo distribuisce ai muscoli assetati d’energia. Ogni metro avanzato nella neve è una conquista e uno sprone per continuare. Sotto il carico che grava sulla schiena le gambe tendono a cedere di frequente. Quando il corpo riesce nell’impresa di tornare eretto, la mente si sentirebbe di sfidare un plotone. Così avanti, fino a un prossimo crollo. Intanto, sulla schiena, Giuseppe fa sapere che è vivo col suo fischio penoso, coi colpi di tosse che scuotono la coperta.
Scendono. La temperatura sale col giorno che avanza e con la perdita graduale di quota. Sono un corpo unico. Quando cadono si staccano, piombano nel manto soffice e per qualche momento stanno riversi sotto il sole. Due macchie ansimanti impresse nel bianco. Una macchia si anima e raccoglie l’altra. Si ricompongono e vanno, coi cristalli che si liquefanno dentro la divisa. Lentamente attraversano le grandi distese nevose, percorrono i gradini scavati nel ghiaccio e le vie attrezzate con le corde fisse, opera dei cadaveri incastrati in fondo agli strapiombi, trascinati giù come insetti dalle valanghe. Raggiungono le morene, dove il ghiacciaio restituisce ciò che ha eroso alla montagna. La neve mescolata al detrito diventa marcia e infida, le caviglie tremano sulla pietra viscida sottoposte al carico del peso raddoppiato. Più in basso compaiono i pascoli verdi, spuntano chiazze di fiori minuti. Cessa la monotonia in bianco e nero delle cime e i colori si confondono sotto gli occhi gonfiati dal riverbero.
Quando giungono all’altezza dei primi mughi, le due schiene sono piegate con la stessa curvatura. La schiena malata di Giuseppe, avvolta nella coperta, abbandonata su quella esausta del suo portatore, che più che camminare ormai si trascina. Procedere come le vipere comporta un vantaggio, si rimane al riparo dalle sentinelle. Una mente annebbiata è povera di strategie, provvede l’istinto alle decisioni. Impone a mani e ginocchia di sacrificarsi sul terreno, mentre sangue e fango intridono la pelle e la stoffa. La metà passiva di questo malconcio intreccio umano produce piccoli singulti e un sommesso delirio. Quando il tramonto si stende dietro la vicina fortezza, i due giacciono immobili in mezzo alla boscaglia. Una decina di metri e pochi arbusti spinosi li separano dalla carrareccia che porta alla base italiana.
Tra non molto si potrà uscire allo scoperto. La notte qualche volta è una valente alleata. Il respiro di Giuseppe si è quasi normalizzato, anzi adesso appare perfino troppo lento. Resta privo di sensi, la febbre non è scesa. La mano sulla fronte ne misura il fermento. La stessa mano lo scuote cercando un cenno di risveglio. Con l’effetto di suscitare un gemito pericoloso. La ronda cammina avanti e indietro sulla strada e adesso sta passando troppo vicina. Per un colpo di fortuna non si accorge di nulla.
Trascorrono le ore e scende il freddo, un freddo meno aggressivo che duemila metri più sopra. L’oscurità è compatta, il cielo è stellato. Da poco la sentinella ha effettuato il cambio, la si vede fiancheggiare il forte immerso nel sonno. Un vento leggero agita le sommità dei mughi e confonde il fruscio dell’ombra in movimento. Sono usciti dalla boscaglia, non si può tergiversare: bisogna posare Giuseppe in un punto adeguato e dissolversi nel buio senza fare rumore. Cautamente i passi muovono in direzione del forte. Dopo il riposo, l’involto sulla schiena sembra più leggero. E’ necessario che lo trovino al più presto, ancora qualche ora e sarà troppo tardi. Più avanti viene lasciato e più possibilità ci sono. Ripetutamente la ronda ha superato un dosso sul sentiero: è la sopra, di traverso, che il pacco può essere posizionato. Anche non lo vedessero, andranno a sbatterci contro.
Il punto prescelto è sventatamente prossimo al forte, tra breve la sentinella l’avrà raggiunto. Giuseppe scivola giù da quella schiena per l’ultima volta. Conclude per terra, supino, il suo lungo e inconsapevole viaggio in discesa. Trema. Rapidamente le mani gli rimboccano la coperta, lo mettono comodo, puliscono il viso. Infine si staccano e spariscono nell’ombra. La sagoma si muove tentoni sul sentiero, quasi impacciata dall’assenza di peso. Ondeggia, è malsicura, un piede sfinito fa rotolare dei sassi.
- Chi va là - si sente da lontano.
I passi legati aumentano il ritmo, vorrebbero diventare corsa, diventano confusione. Si bloccano, riprendono. Il cervello valuta la possibilità di fermarsi. Si potrebbe alzare le braccia, tentare di spiegare. Dal forte accorrono altri soldati. Avanzano armi puntate lungo i fianchi della strada.
- Chi va là: fermo o sparo!
Si accende una fiammata, poi altri colpi in successione esplodono nel buio e rimbombano nella valle. La sagoma sussulta, si accascia sullo sterrato. Scende il silenzio. Gli inseguitori procedono piano interrogandosi sottovoce. La figura rimane immobile al suolo. Non appare in grado di reagire. Il drappello l’avvicina e viene accesa una lanterna. E’ stato centrato. L’austriaco è stecchito.
Qualcuno chiama cinquanta metri più indietro. C’è qualcosa in mezzo alla strada. Con prudenza si raccolgono attorno all’oggetto. Pare un sacco, una coperta. Lo smuovono con la suola della scarpa e lo illuminano meglio. Compare il viso di un uomo, una divisa d’alpino. Sembra più morto che altro. Bisogna portarlo immediatamente dentro. Lo caricano in quattro. Guidati dalla lanterna si avviano verso il forte. Giuseppe non lo sa ma questa notte è salvo.
Giuseppe questa notte è vivo.
Note
(1) A riprendersi dalle fatiche, questi cani.
(2) Mi ascolti, Dio? Ti nascondi dietro le stelle?
(3) Questa guerra è persa, se non c’è più una sigaretta.
(4) Questo porco di ghiacciaio, dentro queste buche, non c’è altro da fare che mirare ai punti rossi delle sigarette: che meraviglia questa guerra!
(5) Mamma, guardami.
(6) Non pensate di farla franca con me, bastardi austriaci, fatevi avanti