Come dita di una mano
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXVII EDIZIONE Arcade, 8 gennaio 2022
Segnalato
Come dita di una mano
di Loreta Chenetti - Belluno
Che
male alle gambe, mi pare di avere i muscoli in fiamme. Gli scarponi mi stanno
stritolando i piedi e i talloni bruciano. Forse mi verranno le vesciche. Sento
bruciare anche le spalle, dove le cinghie di cuoio dello zaino mi segano la
pelle. Cosa non darei per potermi fermare, togliere di dosso tutti i pesi,
inarcare la schiena, riprendermi il respiro! Cosa non darei per ritrovarmi sul
marciapiede che porta all’università, con una sigaretta in mano e i libri
sottobraccio invece che su questo sentiero di montagna diretto alla cima, al
fronte, contro il nemico.
Ansimo, sono in carenza d’ossigeno. Ho il
cuore che martella, rimbomba nelle orecchie. Non oso alzare lo sguardo per non
dover affrontare la realtà della salita. Davanti e dietro di me, il suono
cadenzato di decine di piedi non mi è di conforto. Mi irritano questi uomini
che pare non sentano la fatica, che camminano a testa china, carichi come muli,
senza fiatare, senza rantolare come sto facendo io in questo momento. Mi spiano
di sottecchi. “Guarda il tenentino – staranno di certo pensando con sarcasmo –
Tutto tirato, con la divisa stirata dalla mammina e le fasce sui polpacci bianche
come latte, la penna dritta sul cappello, le unghie corte e pulite. Guarda il
tenentino che, appena partito, ha già gli occhi di fuori ed è a un passo dallo
stramazzare!”
Maledetti!
Lo so, lo so! Li ho ben guardati
stamattina all’alba, prima della partenza, forti, dritti e duri. Sicuramente
ridono di me, del mio colorito pallido, delle mie mani affusolate e senza
calli, della piega impeccabile dei calzoni.
Stamane, quando gli alpini hanno raccolto
i loro zaini e si sono inquadrati, mi hanno guardato, in attesa, come se
stessero aspettando qualcosa. Il sergente Ferro, tra i baffi, mi ha sibilato
sottovoce: “Dica loro che torneremo tutti a casa!” L’ho fatto, ma le parole
sono risuonate false anche a me. Parole come aria, senza peso.
Che fatica, ma come fanno questi a
camminare senza ansimare?
Stiamo trasportando sul Costabella un
fusto di cannone da 65 mm con diverse casse di munizioni. “Una volta giunti in
cima - ci ha detto il capitano - dovete completare la sistemazione difensiva
allestendo un minimo avamposto e predisponendo un sentiero di collegamento con
le retrovie sul quale potranno transitare sia gli uomini che i muli, per la
sopravvivenza in quota. Per oggi però i muli sarete voi!”
Quattro uomini, dopo queste parole, senza
emettere alcun suono e senza che glielo ordinassi, autonomamente si sono fatti
avanti, hanno legato il pezzo da 65 con grossi canapi e si sono incamminati
trascinandolo a terra. Altri hanno raccolto le casse di legno con i proiettili,
issandole sulle spalle ed hanno seguito i primi. Io mi sono accodato, uno degli
ultimi. L’escluso.
Il plotone cammina. Li guardo. Sono
vestiti di un panno scolorito dal tempo e dalle intemperie che racconta delle
loro sofferenze. Questi alpini non parlano, hanno il viso segnato, occhi duri
che ti guardano dentro. Bestemmiano forte e sputano a terra con violenza, a
chiudere le secche frasi pronunciate in un dialetto che non capisco. Mi sento
estraneo a loro. Mi sento alieno a questa terra. Che ne è della guerra che
avevo sognato?
Vedo un alpino che cammina sbatacchiando
un pentolone agganciato ad un corposo involucro legato con lo spago, appoggiato
sulla nuca, come son soliti fare i contadini quando devono trasportare i fasci
di fieno. Un altro ha sulle spalle una cassetta di metallo con dipinta una grossa
croce rossa. Ne intuisco la pesantezza per il gesto con cui, ogni tanto, le
spalle si scuotono per assestarne il carico.
Il mio zaino è stato predisposto con cura
dal mio attendente, tolto il superfluo, limato all’essenziale così che, a parte
il fucile, non sono costretto a trasportare altro che una coperta di lana
pesante, arrotolata, che mi graffia il collo. Non ho alcun diritto di provare
fatica ma la sento, mi opprime, mi schiaccia. Siamo ancora lontani dalla meta
ma vorrei buttarmi per terra, spogliarmi di questa divisa ruvida che mi arrossa
la pelle, gettare il fucile, abbandonare tutto e tutti al loro destino, tornare
a casa.
Voglio tornare a casa, voglio tornare alla
mia vita di prima!
Frequento, anzi, frequentavo fino a pochi
mesi fa il quarto anno di università, lettere e filosofia di Bologna. La guerra
ci è venuta incontro insieme ai nostri vent’anni e ci ha travolto con
entusiasmo. Parole come Patria, Onore, Gloria, hanno segnato le nostre menti e
le nostre azioni. Non ci bastava scendere in piazza contro chi la guerra non la
voleva. Sentivamo la necessità di riportare all’Italia sia Trento che Trieste,
di ripetere le gesta che nel Risorgimento hanno fatto grande questo Paese, così
mi sono arruolato come molti dei miei compagni di studi. Mia madre ha pianto,
mio padre ha stretto i denti sbiancando le labbra. Il mio fratellino è stato
l’unico che mi ha detto: “Spero che la guerra duri almeno tre o quattro anni
così partirò anch’io”. “Finirà in un lampo – gli avevo risposto – ma se così
non fosse, ti auguro di partire al più presto, per poter vivere questa
magnifica avventura e dare alla Patria il massimo di te”.
Da quel giorno sono passate solo un pugno
di settimane trascorse in caserma per l’addestramento che ho trovato sommario e
superficiale. Il mio status di studente universitario, arruolato come
volontario, mi ha fatto guadagnare fin da subito le stellette di tenente ed ora
eccomi qui, al comando di un plotone, ai piedi di questa cima che dovremmo
occupare, agli ordini di ufficiali che pare abbiano le idee confuse come le mie
e che giocano a spostare bandierine colorate su mappe militari.
Noi della 206a Compagnia
dobbiamo salire a quota 2759 sul Costabella. Ho udito molti mugugnare. Quando
ho chiesto spiegazioni al sergente, mi sono sentito rispondere che i nostri
Alpini sono per la maggior parte della zona, agordini o bellunesi e il nemico,
i coriacei Kaiserschűtzen di Moena, sono stati loro amici fino a poco prima
della guerra. “Alcuni di loro hanno familiari e parenti che combattono per l’Impero
Asburgico e ce li troveremo di fronte molto presto, boia di una guerra!” aveva
aggiunto sputando un grosso grumo di tabacco masticato.
Qualche goccia di sudore che tracima dal
bordo del cappello mi scende negli occhi che bruciano. Un’arsura mi strazia la
bocca, che sento ulcerata. Il mio corpo non è abituato a queste fatiche. Mi
fermo per prendere fiato, voglio bere. Cerco la borraccia agganciata alla cinta
ma un soldato mi intercetta. “Non sprechi l’acqua, signor Tenente! Ecco!
Mastichi queste.” Mi mette in mano delle foglie affusolate che gli avevo visto
raccogliere poco prima. Le annuso, sanno di terra e sudore. Il soldato, un uomo
che potrebbe essere mio padre, mi guarda con occhi vecchi. Mastico le foglie
che sprigionano un succo acidulo, come di limone. La saliva mi riempie la bocca
e sento il frescore che esplode tra la lingua e il palato. Devo aver sbarrato
gli occhi, con meraviglia, perché il soldato adesso sorride. “Noi la chiamiamo
lippia. La mastichiamo quando siamo al pascolo con le mucche e non abbiamo
acqua. Disseta e rinfresca. Si ricordi di raccoglierne un po', se vede qualche
pianta, perché più su è solo roccia.”
Mi supera e si affianca ad uno di quelli
che stanno trascinando il cannone. Si scambiano poche parole, più un’intesa di
sguardi che un discorso e la corda viene passata di mano. Pochi istanti per
agganciarla sulla spalla ed attorno alla vita e il quartetto riprendere il
ritmo.
Avanti, sempre più su.
Ho paura. La stanchezza mi costringe a
rivedere i miei convincimenti. Oggi ho promesso che li avrei riportai a casa ma
ce la farò? Ce la farò a tornarmene anch’io dalla mia mamma?
Porca vacca, se muoio… non ho ancora mai
fatto all’amore!
Stiamo camminando da ore, sempre in
salita. Il bosco grigioverde di abeti, larici e pini sta lasciando il posto ad
ampi pascoli costellati da una miriade di piccoli fiori colorati. I mugugni
degli alpini risuonano e fanno da sottofondo al tonfo che gli scarponi
producono quando battono il suolo. Sottovoce interrogo il sergente che, masticando
un filo d’erba, altrettanto sottovoce mi risponde: “Questi sono gli alpeggi di
mezzo. Prima della guerra molti dei nostri portavano qua le mucche al pascolo,
così come facevano quelli di là, i “nemici”
– sputa un grumo verdastro in direzione dell’altro versante del passo – Tra
poco l’erba ingiallirà sotto il sole dell’estate, inutile e inutilizzata.
Quest’inverno i fienili resteranno vuoti, le bestie avranno fame e si faranno
magre e stente. Molte famiglie saranno costrette a macellarle e finita quella
carne, non ci sarà più cibo, né latte, né formaggio, né salami. Boia di una
guerra!”
Facciamo una breve pausa e mi tolgo lo
zaino come se togliessi una pesante armatura. Mi lascio cadere sull’erba, tra
questi profumi verdi che mi sono estranei, tra il ronzio di insetti che
inseguono il nostro sudore. Vedo che gli alpini stanno facendo girare una
borraccia. Ho sempre sete! Quando arriva a me faccio un bel sorso e lo
inghiotto. Una palla di fuoco mi ustiona la lingua il palato lo stomaco e mi
rimbalza in testa! Annaspo in cerca di ossigeno! questa non è acqua, è una
miscela incendiaria che incenerisce i pensieri! Ho le gote in fiamme, le
orecchie sibilano, la tosse mi scuote. Che mi hanno dato da bere, fuoco
liquido?
Sento qualcuno che ride. Il sergente ringhia
e le risate si spengono mentre cerco di riprendere il controllo di me stesso.
Ho gli occhi piedi di lacrime. Che magra figura. Ma chi mi credo di essere? Un
tenente? e che significa? Come posso pensare di guidare gli uomini in
battaglia, vincere la guerra, ridare dignità alla Patria se non riesco nemmeno
a stare al loro passo. Le lacrime, create dall’effluvio dell’alcol, si
mescolano a quelle prodotte della mia umiliazione. Mangiamo in un silenzio
imbarazzato un po’ di pane e formaggio che ci avevano distribuito stamattina.
Quando decido che è ora di riprendere il
cammino mi si avvicina un alpino. “Signor Tenente, metta queste sotto le
cinghie dello zaino – mi dice ficcandomi in mano due pezze ripiegate a
cuscinetto – fino a che non si farà il callo, altrimenti le verranno le
vesciche”.
Lo ringrazio, commentando che comunque le
vesciche mi erano già venute sui calcagni perché ne avvertivo chiaramente il
bruciore. Questo ha causato un piccolo terremoto tra gli alpini. Mi hanno
costretto a rimettermi seduto mentre quello che portava la cassetta dei
medicinali, un bellunese baffuto e chiacchierone, mi ha sgridato bonariamente.
“Eh no! signor Tenente! Ai piedi bisogna fare attenzione, le vesciche son
malandrine, se si infettano son guai! E chi ci arriva in cima al Costabella?
Non si cammina più, non si riesce più ad andare avanti e neanche a scappare
indietro!” - ha concluso ridendo mentre con un ago disinfettato sulla fiamma di
un accendino, ha scoppiato le bolle gonfie di liquido, una ad una. So che dovrei
redarguirlo per quest’ultima osservazione disfattista: gli Alpini non scappano,
non voltano le spalle al nemico! però non l’ho fatto perché nel frattempo mi
spalma sul tallone una grassa pomata arancione che mi ha attutito il dolore. Ho
infilato le calze umide di siero facendo fatica a chiudere gli scarponi tanto i
piedi mi si erano gonfiati.
Il bocia ci sta correndo incontro. Il
bocia è l’alpino più giovane, a vederlo non pare avere più di diciott’anni.
Magro e secco, corre come un capriolo, tanto che l’avevo mandato in
avanscoperta per vedere com’era il sentiero, su, verso le rocce. Ci avvisa che
dopo la curva si apre uno strapiombo e che si è costretti a camminare su una
cengia lunga forse una decina di metri ma larga solo poche spanne. Gli occhi
del sergente corrono verso il quartetto che trascina il fusto di cannone ed
immagino il suo pensiero: un passo falso, il piede che slitta sui sassi, il
cannone che scivola verso il vuoto e trascina gli uomini con sé. Dopo pochi
istanti siamo tutti fermi all’imbocco del baratro. Che faccio? L’alpino Fenti,
un gigante dalle braccia grosse come le mie cosce, mi raggiunge e mi supera e,
senza dire una parola lega una nuova cima al fusto. Con cautela ma anche con
passo deciso cammina lungo la cengia srotolando la corda. Quando arriva
dall’altra parte alza un braccio e subito dalle mie spalle si staccano altri
due ragazzi e poi un terzo che a loro volta agganciano le loro corde al cannone
e oltrepassano lo strapiombo. Quattro per lato che ad un ordine del Fenti tendono
i legacci e poi un, due, tre, tira … un due tre, tira, i primi quattro tirano e
quelli a fianco a me lasciano scorrere qualche palmo di corda. Il sudore
impregna le schiene, le mani si arrossano, i muscoli fremono. Dopo minuti che
mi sembrano ore il cannone è dall’altra parte. Le cassette di munizioni passano
con lo stesso sistema ma con molta meno fatica. Quando è il mio turno, pressato
da chi mi sta dietro, cammino cercando l’appoggio del piede, senza guardare a
sinistra, verso il vuoto che mi chiama. Mi rendo conto che sono arrivato
sull’altro versante della cengia perché vedo gli alpini sorridere e scambiarsi
botte di compiacimento sulle spalle.
Ci accampiamo mentre la sera arrossa le
cime, è l’enrosadira. Nel pentolone sta cuocendo la polenta, tra le rocce sono
stati tirati i teli, per stanotte basteranno, domani dovremmo iniziare a
scavare per costruirci un rifugio, le trincee, l’infermeria. Seduto su un
grosso masso guardo le vette che delimitano l’orizzonte. Mi sento solo.
Un Alpino si siede al mio fianco e mi
offre una sigaretta rollata a mano che fumiamo in silenzio.
“Lo sa, signor Tenente?” – mi dice
improvvisamente sollevando le mani davanti al viso - “Noi alpini siamo come le
dita di una mano: uno da solo fa quel che può ma tutti assieme diventiamo
invincibili.”
Guardo le mani dell’alpino, grosse,
callose, segnate, che adesso sta stringendo a pugno.
“Noi, se ci aiutiamo, se ci stringiamo
insieme come le dita di una mano, ce la faremo a tornare a casa!” – e sorride
guardandomi.
E in quel momento, proprio in quell’attimo, io mi
sento finalmente un alpino, come loro. Con loro. Come dita di una mano.