Chiusa la porta
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2012
Secondo classificato
Chiusa la porta
di Rita Mazzon - Padova
Si era proposto che non sarebbe ritornato. Era stato un taglio netto, senza sbavature. Un ramo secco che non può più germogliare.
Era partito con la valigia colma di vestiti lisi, ma ricca di sogni. Era convinto che avrebbe dimostrato a quell'uomo duro di non avere più bisogno del suono degli schiaffi, che sembravano crepitii nel camino acceso.
Lui non si sarebbe fatto bruciare da quella mano possente, che sbatteva il pugno. Si inquietava per un nonnulla. Lo scrollava fino ad estirpargli tutti i guizzi della gioventù.
Chiusa la porta. Tutto spazzato.
Suo padre non poteva tramutarlo in cenere.
Aveva desiderio di pianure lisce, compatte. Aveva voglia di strade larghe, asfaltate.
Là in montagna la fatica spegneva il passo in una salita che affannava il respiro.
Lui voleva una linea orizzontale. Un filo lungo, sottile, dove stendere la sua vita.
Aveva ereditato la sete di scoperte da quel padre, che aveva la passione di scalare montagne.
Lui, al contrario, voleva spaziare con lo sguardo nell’infinito.
Non più contorni di vette aguzze che squarciano il cielo.
Non più peregrinazioni assurde da un rifugio all’altro.
Aveva passato, ripassato un tragitto continuo avanti ed indietro, senza progredire nella trama della sua vita.
Sua madre si era chiusa in un dolore strano. In una malinconia che odorava di autunno. Sapeva di castagno, di foglie cadute, rinsecchite all’aria.
Poi un giorno il vento aveva fatto scivolare la sua anima dentro un pertugio secco. Lei allora si era incartapecorita in un fievole sorriso.
Come una stella alpina cerca di emergere dalla pelle raggrinzita di una roccia, ma si svilisce perché, per quanto si trovi in alto, non potrà mai raggiungere il cielo, così sua madre era spirata per troppa voglia di azzurro, quando lui era ancora un ragazzo.
La fragilità della donna si era trasferita in lui. Si acuiva ogni giorno di più quello sdoppiarsi in lei.
Nel lago di montagna lui si specchiava nell’acqua profonda, limpida, scorgendo il viso ondeggiante, che richiamava i lineamenti della madre. Girava intorno il lago, ritornando al suo punto di domanda, sempre lo stesso. “Che cosa ci faceva là?”.
Suo padre coltivava patate ed orzo, possedeva diverse mucche. Faceva il formaggio. Spesso scambiava la notte di luna piena per un’altra alba. Il lavoro era continuo, costante. C’era sempre un nuova faccenda da portare a termine.
Suo padre gridava.”Dai, muoviti. Allora? Dove sei?”.
Una piccola ombra fluttuava sui muri della stalla, sui prati di erba rasata. Ondeggiava portando fascine al sicuro. Tirava la mucca sotto la tettoia, al riparo.
Quell’ombra era Marco.
Lui si sentiva una falena ingabbiata dentro una lampada accesa. Più scalpitava contro il padre, più con i suoi svolazzi inconcludenti si bruciava.
Suo padre gli parlava della roccia, che vuol essere conquistata. Gli parlava del piccone che pungeva, picchiava forte l’anima del sasso fino a sbriciolarlo. Un amore incontrollabile, viscerale contaminava la sua pelle, che diventava ogni giorno più spessa. Ma mentre il padre era montagna dura, compatta, Marco si diluiva in un’acqua sempre più trasparente. Benché si sforzasse di scorgere il mistero della vita nelle alte vette, andava sempre a sbattere contro un muro freddo senza carezze.
Nella notte, dai frusci del vento riconosceva solo il viscido sibilo della serpe. Gli uccelli notturni venivano a risvegliare le sue ansie con le loro grida. Il quel luogo non stava in pace. Si sentiva fuori posto.
Il padre lo inaspriva con le sue prediche. Lui scrollava le spalle, ma invece di essere addomesticato, Marco aveva un mugugno stabile disegnato sul suo viso.
Fu un secchio colmo di latte a dare una svolta.
Marco era stanco. Non aveva dormito.
Il temporale aveva gracchiato tutta la notte. Dalle fessure degli scuri luci ad intermittenza mandavano bagliori.
La cima della montagna si sbiancava, riluceva un poco, come un dito proteso verso il cielo in tono minaccioso.
Il buio colava in gocce scure, sferzanti, entrando nelle viscere in una melassa di inquietudine che ingigantiva le ombre, le faceva diventare mostri pronti a spalancare la finestra fino a scorticargli il cuore.
Come quando era bambino, si era tirato su il lenzuolo sugli occhi per sentire l’odore caldo del giaciglio sicuro.
La sicurezza, la certezza però erano svanite da molto tempo. Solo lo sfioramento della mano della mamma, il sussurro delle sue parole avevano il potere di calmare ogni paura.
Ora la prepotenza di suo padre aveva ucciso tutti i dolci momenti d’amore materni.
All’alba la porta della camera era stata aperta con impeto.
“Alzati! Buono a nulla!”. La voce aveva attenuto solo sgomento e lui si era inabissato ancora di più in un sogno caldo.
“Alzati! Sei sordo?”.
Dentro l’onda del sonno lui deglutì piano. Si alzò. Batté il piede sul pavimento di legno.
Quando spalancò la finestra, si spaccò tutto il buio intorno.
Il monte lavato si ricuciva le ferite. Si ergeva possente. Tracotante.
“Tu non mi spezzerai! Per quanto tu mi voglia rendere docile, per quanto mi sfidi con i tuoi lampi, io non mi inginocchierò. Non abbasserò la testa. Io sono forte!”.
Lui però non aveva la tempra del monte. Lui era fluido come acqua che non ha forma. Così quando la mano di suo padre batté forte sul viso la sua frusta, invece di raccogliere schegge di energia, evaporò nell’aria.
Era inciampato con il secchio ricolmo di latte. Il latte aveva sbiancato il terreno, che ne aveva trattenuto per un attimo il candore. Poi il suolo l’aveva bevuto, avido, assetato.
Lo schiaffo era partito all’improvviso, facendogli perdere l’equilibrio. Mettendo a dura prova le gambe già in posizione precaria.
Il resto del latte liberato dal secchio, si era sovrapposto al liquido già assorbito, formando una piccola pozzanghera che si godeva l’ultimo attimo di vita.
Suo padre lo prese per i capelli. Lo scaraventò a terra.
“Bevi! Adesso bevi! Questa è la tua cena! Madonna…”.
La bestemmia arrivò feroce. Ammutolirono per una frazione di secondo le vacche chiuse nella stalla. Il latte si fece di un colore nocciola e le mosche ronzarono nervose. Svolazzavano in cerca di rubare alla terra, a Marco quel liquido prezioso.
Mentre la mano del padre premeva sulla testa, la voce grattava, si arrugginiva in un’ira già esplosa a causa di quel comando ripetuto più volte. “Bevi!”.
La rabbia paterna non avendo poi una contro risposta si era già sgonfiata, delusa da quel figlio senza nerbo.
Marco aprì la bocca, leccò fango, sterco ed un riflesso di monte che anche
lì si specchiava.
“Via! Via!”. Una parola piccola sibilava tra i denti. Uno spruzzo di pensiero gli faceva scivolare dalle labbra il compatimento per se stesso, lasciando l’amaro di una fuga già sognata, già preventivata.
“Via! Via!”.
Partì all’alba del giorno dopo con la furia bollente nel petto. Febbricitante.
La montagna si era già svegliata. Avrebbe voluto trattenerlo nel suo grembo di madre premurosa, ma invece lasciò scivolare una nuvola sul sole, in modo che Marco fosse nascosto e diventasse ombra.
Gli anni passarono, lasciando impronte di vittorie e di sconfitte.
Marco si era ripromesso più volte di non ritornare. Aveva studiato. Trovato un discreto lavoro. Si era sposato ed aveva avuto un figlio.
Non nominava mai il nome di suo padre. Era stato sepolto sotto un cumulo di neve. Era caduto in un dirupo. Era sprofondato in un burrone. Ogni volta che la vista si posava su di un monte il pensiero fantasticava sulla fine di quell’uomo. Marco era diventato un’isola circondata dall’abbraccio dei suoi cari. Non aveva bisogno di altro.
Quando aprì la lettera, rimase in sospeso. Non aveva fatto caso che provenisse dal suo paese.
Era una lettera di poche righe inviatagli dal parroco, in cui scriveva della difficoltà che aveva avuto di trovare il suo indirizzo. Solamente alla fine diceva che suo padre lo voleva vedere, prima di morire.
Marco lesse, rilesse. Accartocciò lo smarrimento e poi dispiegò la carta per rendersi conto se effettivamente erano reali quelle parole.
“Cosa voleva? Farlo sentire in colpa? Calpestarlo?”.
Porse la lettera alla moglie senza parlare.
Lei proferì una sola parola. “Andiamo.”.
L’auto percorse la strada a ritroso. Quella strada che aveva una volta fatto a piedi, o sopra un carretto di fortuna.
Gli alberi in fila gli chiudevano la vista. Sembravano monaci silenziosi, che sussurravano tra i rami una preghiera. Un verde paravento si frapponeva tra quello che era diventato adesso e quello che aveva lasciato.
Aveva paura che in quel ritorno si celasse la sua vulnerabilità.
La sua vita aveva racimolato tanto amore e nessuno, neanche suo padre avrebbero potuto togliergli quello che aveva provato fino a quel momento.
Pensando a ciò, si rassicurò.
Era strano però ripercorrere un involutivo viaggio all’indietro.
Era come se Marco ringiovanisse. Non avesse più rughe sulla fronte.
Guardava i paesaggi. Non aveva il tempo di focalizzarli in un punto ben determinato. Gli orizzonti cambiavano di continuo.
Campi assolati, dove il colore del grano illuminava gli occhi. Prati verdi, dove si assopiva l’incertezza…
All’improvviso, avvolta in un cappotto di nuvole, apparve lei, la montagna. Infagottata, sembrava una vecchia con uno scialle in testa. Brontolava, sommessa, grave, a causa di un temporale che si stava sciogliendo in una pioggerella sottile, che sapeva di terra umida.
Una patina tessuta con perle opache di luce riflessa scivolava dolcemente dalla roccia, da una foglia, dagli aghi dei pini.
Lo struggimento, la melanconia per una gioia sacrificata per troppo tempo ad una rabbia pietrificata, si sgelò.
In quel paesaggio nostalgico lui in fin dei conti si sentiva bene.
Dietro la curva della strada sbucò la casa di suo padre. Era uguale, come l’aveva lasciata.
Marco spinse la porta scura. Si guardò attorno, smarrito. Vide la moglie ed il figlio che gli sorridevano ed entrò.
Un vecchio dai capelli bianchi con la barba lunga era adagiato nel letto, coperto da un lenzuolo bianco. In tutto quel candore solo gli occhi curiosi giravano intorno, in cerca di un aiuto.
Marco si avvicinò. Si sedette vicino a lui. Non riuscì a proferire parole. Le parole possono in certi momenti essere taciute. Le parole si dimenticano, restano i gesti.
Suo padre era invecchiato, gracile. Aveva perso la sua forza. Appena vide il figlio non ebbe il coraggio di incrociare il suo sguardo. Sembrava guardasse lontano. Là, verso la finestra, dove era tornato il sereno. La limpidezza del cielo faceva risaltare ora i contorni della montagna. La cima era addolcita dal lembo di una nuvola, che si era posata leggera.
Suo padre alzò il braccio, cercando di toccare il figlio.
Marco si ritrasse, poi si fece coraggio. Si chinò verso di lui.
Il vecchio fece scivolare la mano sul suo viso lievemente.
Marco scorse negli occhi del padre riflessa la sagoma inconfondibile della montagna. Tremolante, scivolava sulla guancia in una lacrima leggera.