Che occhi grandi che hai - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Che occhi grandi che hai

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2013
Segnalato

Che occhi grandi che hai

di Paola D'Agaro - Pordenone



Ma la storia come è successa veramente, quella vera vera, non è mica quella che conosci tu. La storia di Cappuccetto Rosso, come l'hanno raccontata a me, è diversa. Fa sempre paura e fa sempre piangere ma, raccontata così, a me piace di più. Se vuoi te la racconto, però mi devi promettere che non ti arrabbi come fai sempre se una fiaba cambia un po' da come l'hai imparata tu.
Comincia tutto in montagna, dove ci sono i pascoli e i boschi. E nei boschi: gli abeti e il sottobosco, le casere e gli stavoli, i bivacchi per i viandanti e le tane delle volpi, le malghe dove pascolano le vacche e le baracche dove un tempo i boscaioli sistemavano la legna, e infine i sentieri e le mulattiere che collegano tutte queste cose tra loro. Nelle tane e nelle grotte, negli stavoli e nelle baracche non ci stavano le nonne, ma alcuni uomini che vivevano in gruppo, mangiavano in piedi e dormivano nella paglia o nelle brande piene di pidocchi. La gente li chiamava partigiani. E tra i partigiani c'era anche il papà di Cappuccetto, perché in questa storia Cappuccetto ha anche un papà. I partigiani scendevano raramente dalla montagna e quasi sempre di notte quando i bambini dormivano tranquilli nei loro lettini. Solo qualche mamma li vedeva, perché le mamme dormono sempre con un occhio solo, per esser pronte se i piccoli le chiamano perché hanno il mal di pancia o perché hanno fatto un brutto sogno. E anche per essere veloci a portarli in salvo quando i lupi si avvicinano troppo alle case. Ma i partigiani non facevano paura. Certo, sporchi e affamati com'erano, a volte finiva che, quando li vedevano, i più piccoli correvano a nascondersi in casa spaventati, ma non era mai successo, a memoria d'uomo, che facessero del male a qualcuno del villaggio. Tutti sapevano, invece, che i lupi se ne stavano alla larga fintanto che quelli ronzavano lì attorno. In paese a quel tempo non c'erano uomini, ma solo nonne e nonni, e mamme con i loro bambini e le loro bambine. Una di queste era la nostra Cappuccetto Rosso. Cappuccetto era una ragazzina magrolina: poco più alta di te, anche se a parlarle si capiva che era più grande e che a scuola non ci andava più da un pezzo perché già da un paio d'anni lavorava ai fusi di una filanda della zona. Nonostante l'età, portava ancora i calzettoni al ginocchio, un grembiulone a quadretti rossi e grigi, e quel suo inconfondibile cappuccetto di panno rosso sotto il quale spuntavano due occhi neri neri come olive, che le davano un aspetto furbetto come quello di un giovane falco pellegrino pronto a spiccare il primo volo. Ogni mattina la mamma spediva Cappuccetto in montagna a portare da mangiare ai partigiani. Ma prima che riuscisse a inforcare la bicicletta e a imboccare la salita verso la montagna c'era sempre qualche forestiero che la fermava per infilarle buste e foglietti pieni di numeri e di segni tra i fiaschi di vino, le fette di polenta e quelle di formaggio. <Mi raccomando> le dicevano, <non farli vedere a nessuno e consegnali personalmente a quello che ha il nome segnato sopra>. Lei obbediva e non aveva paura, anche se alle volte era un po' pensierosa perché le avevano fatto capire che se i lupi l'avessero fermata doveva cercare di fare sparire i fogli, magari mangiandoli, e che, se non ci riusciva, era meglio che si raccomandasse alla Madonna e a tutti i santi del Paradiso perché con i lupi non c'era da scherzare. Quelli se la sbranavano viva, con tutto il formaggio e la polenta. Meno male che alla mamma non aveva detto nulla di quel traffico di bigliettini se no chissà se l'avrebbe lasciata andare, che già le preoccupazioni erano tante e le raccomandazioni pure: <Non fermarti lì… non fermarti là... vai dritta per la tua strada... non dare confidenza a nessuno… non andare nei posti che non conosci... non fare scorciatoie... stai attenta alle vipere e anche ai lupi che sono dove non te li aspetti>.
Dove eravamo rimaste? Ah sì, a quando Cappuccetto se ne partiva diretta alle casere in cima alla montagna con le sporte piene di cibo appese al manubrio, e i foglietti nascosti ovunque, traballando sui pedali perché la bicicletta aveva il manubrio storto ed era davvero troppo grande per lei, tanto che riusciva a malapena a sedersi sul sellino. Arrivata (ma l'ultima parte del tragitto doveva farsela a piedi, dopo aver nascosto la bici dietro un cespuglio, perché il sentiero era troppo ripido), seria seria distribuiva tutto ai partigiani facendo molta attenzione perché non voleva sbagliare con tutti quei nomi strani come: Pacca, Fulmine, Crick, Topo, Maestro. Solo alla fine, quando aveva finito di consegnare l'ultimo biglietto, i partigiani riuscivano a farla ridere con complimenti del tipo: <Che occhi grandi che hai! Che bei denti bianchi! Che vestito carino!> e qualcuno le dava anche dei buffetti sulle guance o cercava di farle fare un tiro dalla sua sigaretta. Così lei ripartiva felice con, infilati nelle mutande o nelle calze, i fogli che i partigiani le avevano affidato per consegnarli ai forestieri. Erano fogli zeppi di strani scarabocchi che loro dicevano essere delle mappe. Alle volte, durante il viaggio le capitava di scorgere i lupi in lontananza. Questi, sentendo il cigolio della bicicletta, alzavano la testa allarmati, ma lei tirava dritto per la sua strada e quelli tornavano alle loro faccende perché non erano per niente interessati a quella ragazzetta magra magra. Finché un brutto giorno (nelle fiabe c'è sempre, purtroppo, un brutto giorno) con l'astuzia i lupi riuscirono ad avvicinare un partigiano e a portar lo nella loro tana. Con la medesima astuzia, ma anche con botte, minacce e promesse di aver salva la vita, riuscirono a farsi dire le cose che lui sapeva sui suoi compagni perché a loro non ne bastava uno, li volevano tutti. Erano veramente affamati. E il prigioniero non voleva essere ucciso, anche se, quando ebbe finito di raccontare, i lupi lo appesero ad una corda e lo lasciarono lì a penzolare per un giorno intero, come Pinocchio nell'orto degli ulivi, con un cartello al collo con su scritto: bandit. Raccontò, il prigioniero, di Cappuccetto e dei suoi percorsi in bicicletta e disse che solo lei poteva sapere dove erano veramente i partigiani.
Si appostarono allora i lupi lungo il sentiero che portava ai pascoli di mezza montagna e, quando la videro passare, si avvicinarono in branco. Avevano elmetti di metallo verde e imbracciavano un mitra che tenevano puntato ad altezza d'uomo.
Non ti spaventare adesso, perché, nonostante avessero un'aria molto minacciosa, non la uccisero subito, ma cominciarono a blandirla con parole dolci e suadenti pronunciate con un accento strano: <Dofe fai, pella zig-norina? Ke koza hai di pello in Kvelle pisacce?>. Cappuccetto era impaurita, ma pensava ancora che non fossero interessati a lei, così rispose sillabando: <Vado a portare da mangiare alla nonna che sta in montagna a fare fieno>. <Ah, sì? E dofe fife kvesta nonna?> le chiesero. <Mah, io non lo so bene, ma molto su, dove ci sono i pascoli più alti>. Loro non le credettero affatto e cominciarono a perquisirla. Fu così che trovarono i biglietti per i partigiani che lei non aveva fatto in tempo ad inghiottire. Cappuccetto, senza rendersene conto, si ritrovò allora rinchiusa in una tana vuota, con le pareti umide e scure, che prendeva aria da una minuscola grata dalla quale non si vedevano che muri e cortili deserti. Una volta lì, Cappuccetto si sedette in un angolo e prese a singhiozzare forte, un po' perché l'avevano picchiata per farsi dire i nomi di quelli che le avevano dato i foglietti (ma lei non aveva parlato), un po' perché pensava alla mamma che adesso la stava aspettando a casa e sicuramente si struggeva nel non vederla tornare. In quella prigione aveva freddo e fame, ma nulla in confronto al freddo e alla fame che avrebbe sofferto poi.
Infatti, non molto tempo dopo, i lupi caricarono Cappuccetto in una carrozza dove c'erano tante donne spaurite come lei. Il vagone era uno di quelli che si usano per trasportare le pecore durante la transumanza e puzzava di stallatico. In quel vagone, dalle pareti così bianche di brina che ad avvicinarsi troppo ti rimaneva la pelle attaccata, Cappuccetto, dormendo in piedi perché non c'era posto abbastanza per distendersi, attraversò città e montagne, laghi e foreste sempre sperando di incontrare il cacciatore di lupi che l'avrebbe finalmente liberata. Ma le foreste erano vuote e anche i pochi animali che le abitavano, quando vedevano in lontananza sopraggiungere il treno di Cappuccetto, fuggivano via spaventati. Cercava di non pensare a casa per non piangere, ma non sempre ci riusciva. Avrebbe voluto che la sua prigione fosse la casetta di marzapane dove la vecchia strega faceva ingrassare Hansel e Gretel con una buona razione di cioccolata, torrone e canditi tutti i giorni. AI contrario era diventata così magra che, tra non molto, sarebbe riuscita a fuggire passando attraverso la grata che, nel pavimento, serviva allo scolo del letame.
Invece, in un altro brutto giorno, vennero fatte scendere tutte dal treno: erano arrivate in un posto chiamato "La piccola Siberia di Meklenborg". Era un villaggio di una trentina di baracche, senza un filo d'erba, circondato da un muro altissimo oltre il quale crescevano abeti e betulle. Una volta lì, i lupi le strapparono il cappuccio, le tagliarono le trecce - che aveva lunghe fino al sedere - la spogliarono e, con la pompa, l'annaffiarono di acqua gelata. Giacché batteva i denti e tremava di freddo, le infilarono un grembiule a righe sul quale cucirono un triangolo rosso che sembrava fatto con il cappuccio che le avevano portato via. Per finire, con il fuoco le marchiarono un numero nel braccio sinistro: era il 97323.
I lupi avrebbero voluto che lei filasse per loro nella filanda della prigione e perciò le promisero cibo abbondante e un letto caldo. Ma Cappuccetto non voleva lavorare per chi rapiva e ammazzava donne e bambini. <Allora morirai qui> le dissero.
In realtà, Cappuccetto aveva un piano molto preciso: rimanere viva in attesa che arrivassero i cacciatori. Ma non era per nulla facile riuscirci. La parola "bambino" era sinonimo di raccapriccio nel campo. E quando ne nasceva uno, questo veniva ucciso con un bastonata in testa o annegato come un gattino in un secchio pieno d'acqua. O peggio, veniva abbandonato a morire i fame nella cosiddetta "stanza dei bambini" e poi lasciato in pasto ai topi. Ma, ad un certo momento, oltre ai bambini, anche le donne cominciarono a fare la stessa fine. Ogni giorno Cappuccetto ne vedeva sparire a decine: prima dentro il "corridoio della fucilazione", dove venivano uccise con un colpo di pistola alla testa, poi dentro le camere a gas. Ma lei continuava a vivere, contro ogni previsione, e a sognare di mangiare fino a farsi scoppiare la pancia, con i piedi sotto una tavola apparecchiata.
Un giorno, si cominciarono a sentire le voci dei cacciatori che stavano arrivando, ma Cappuccetto non fece in tempo a gioire perché, a forza di pedate, fu costretta dai lupi ad abbandonare il campo. Seguì una lunga marcia durante la quale molte prigioniere morirono, tanto che la strada era segnata dai corpi gelati delle sfortunate che rimanevano indietro. Cappuccetto capì che questa volta non ci sarebbe stata possibilità di sopravvivere e che doveva tentare di scappare se non voleva morire. Così, con il cuore che le batteva forte, una notte si staccò dal lungo serpentone umano che andava verso chissà dove e si nascose dentro la cappella di un cimitero. Lì rischiò veramente di morire di fame perché non aveva il coraggio di muoversi per paura di incontrare qualche lupo isolato, di quelli che fiutano l'odore dei fuggiaschi a chilometri di distanza. Perché i lupi avvertono l'odore della paura più ancora che l'odore dell'arrosto. Il caso volle che una contadina del luogo sentisse improvvisamente il desiderio di andare a trovare la propria madre morta. Fu così che raccolse un pugnetto di ciclamini, riempì d'acqua un vasetto vuoto di marmellata e andò al cimitero. Mentre, inginocchiata sulla sua tomba, stava parlando con la madre intravide dietro una lapide un muso impaurito e nero di sporco e vide il triangolo rosso cucito sul petto. Senza distogliere lo sguardo da quel viso, indietreggiò e, camminando all'indietro, uscì a passo rapido dal cancello svanendo tra gli alberi.
Cappuccetto era rassegnata. Aspettava quieta che i lupi, chiamati dalla donna, venissero a riprendersela. Era infatti troppo debole per fuggire. Invece, un po' di tempo dopo, vide tornare la donna che anche questa volta era sola ma, a differenza di prima, portava sulla testa un secchio che sembrava pesante. La contadina si avvicinò alla tomba della madre e lì appoggiò il secchio, dal quale uscivano strani vapori. Quindi se ne andò senza dire una parola. Cappuccetto aspettò ancora al riparo della cappella mortuaria, ma poi il richiamo della fame fu più forte della paura e decise di uscire dal suo nascondiglio. Si avvicinò allora al secchio che era coperto da un panno da cui usciva il vapore. Con il cuore che batteva forte sollevò il panno e, con sua grande meraviglia, vide che sotto c'erano patate lessate ancora calde e una bottiglia di latte. Mangiò e bevve Cappuccetto quel giorno, come non le capitava ormai da tempo, ma senza esagerare, per paura che tutto quel cibo potesse squarciare il suo debole stomaco. Poi, si tolse il ruvido grembiule a righe con il triangolo rosso e indossò il grembiulino a fiorellini minuti che la contadina le aveva lasciato. Perché quello era il panno che copriva le patate. Con la pancia piena e il grembiulino, Cappuccetto lasciò il cimitero.
Altro del suo viaggio, che sarebbe durato ancora molte e molte lune, non si sa, se non che Cappuccetto, grazie al buon cuore della contadina che non avrebbe mai più rivisto, riuscì a incontrare i cacciatori che riconobbe grazie alla stella che portavano nel berretto: una stella di colore rosso che sembrava fatta con il suo cappuccio. Quando tornò a casa, la madre non finiva più di abbracciarla e di baciarla perché l'aveva creduta morta. Ma la sorpresa più grande fu, per Cappuccetto, quella di riabbracciare il padre uscito anche lui miracolosamente dalla pancia del lupo.
E vissero tutti felici e contenti.

Questa storia è dedicata a Rosina Cantoni (Giulia), partigiana della divisione Garibaldi ed ex deportata nel lager nazista di Ravensbrűck (matricola 97323). Personaggio simbolo della Resistenza friulana, faceva la staffetta quando fu arrestata dai nazifascisti l'8 dicembre 1944 e, dopo un interrogatorio nel carcere di via Spalato a Udine, deportata in Germania. Riuscì a fuggire nell'aprile 1945 a Penig, durante una "marcia della morte", mentre gli americani e i russi avanzavano.
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