Bettiol 30 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Bettiol 30

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA


"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Premio speciale "Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

Su ali d’Aquila
 
di Paloschi Francesco
 
Mestre (VE)
 
 
“Una medusa spiaggiata: tuo nipote è tale e quale, credimi. Ma su da voi non ne avete, non puoi capire”.
Teresa, appoggiata al terrazzino di legno, guardava il tramonto tingere le pareti di roccia.
E ridacchiava.
“Ti diverti, tu. Ma ti renderai conto, Teresa. Allora, quando te lo posso mandare?”.
La sorella stette a pensare con il telefono sull’orecchio. Per il mese di luglio dovevano rinforzare il monitoraggio delle aquile e per qualche giorno mancava un collega.
“Dal sedici luglio. E’ un lunedì. Se vuoi anche tutta la settimana”.
“Fantastico! Lo dico subito a Sara. Non so come ringraziarti”.
“Ti aiuto io: ho bisogno di una Jeep nuova”.
“Ma non ti muovevi a piedi? Stavo pensando a dei calzini di prestigio...”.
“Ci aggiorniamo per gli orari del treno. Ciao fratello”.
“Ciao Teresa”.
Il figlio di suo fratello, Jacopo, quindici anni, dalla fine della scuola quasi non era uscito di casa.
Un mese da invertebrato. Sveglia a mezzogiorno; divano, telefono, playstation dal dopopranzo fino a sera. Delle notti in camera sua non si sapeva.
La sera di domenica sedici luglio, alle 19 e 35, Teresa aspettava Jacopo all’autostazione di Tallio Valbianca. Il pullman arrivò semivuoto. Il ragazzo era seduto da solo nell’ultima fila, con il frontino del cappello girato sulla nuca.
Scese, ritirò il trolley dal bagagliaio e andò fiaccamente incontro alla zia.
“Ciao campione” disse Teresa.
“Zia” fece distrattamente il ragazzo, lo sguardo diviso tra la parente e il telefono tenuto in mano come una protesi.
“Avrai fame”.
La risposta fu una specie di grugnito.
“Ottimo. Andiamo”.
A tavola c’era la famiglia al completo: Lorenzo, il marito di Teresa; i figli, Luca, Sabrina, Elisabetta. L’aria era quella rilassata di fine domenica e si cenava in allegria, ma Jacopo era avaro di parole. Dopo i primi faticosi approcci, i ragazzi di casa dovettero rinunciare. Anche dopo cena il cugino si stravaccò nella poltrona con il telefono tra le dita e non interagì con nessuno.
Gli fu preparato il letto nella camera di Luca, che aveva diciannove anni e il mattino seguente doveva andare in cantiere. Così, appena Luca aveva visto la luce dello smartphone balenare nel buio, non era andato per il sottile:
“Metti via quell’affare e dormi”.
E siccome Luca era alto un metro e novanta, Jacopo non aveva obiettato.
Faticò ad addormentarsi, abituato a fare orari irragionevoli.
Il mattino alle sette venne a chiamarlo zia Teresa. Il letto di Luca era vuoto. Jacopo nel suo sembrava morto, la zia dovette scuoterlo:
“Alle otto si parte. Di là è pronta la colazione”.
In un’ora, trascinandosi e mugugnando, il ragazzo riuscì a farsi trovare pronto.
All’orario stabilito presero la Jeep dei guardia-parco e partirono.
La strada andava in salita tra gli alberi e come un lungo serpente avvolgeva i fianchi della montagna. Teresa guidava con calma, dai finestrini abbassati entrava l’aria frizzante del mattino, riempita dai gorgheggi degli uccelli. Salirono dapprima all’ombra dei boschi, di faggio, di abeti, di larici.
Poi, superati gli ultimi pini sfregiati dal vento e dai fulmini, sbucarono tra i pascoli aperti, nel mondo ondulato dei prati e delle rocce. Il verde era macchiato di grosse mucche da latte, pezzate, brune, grigie alpine, isolate o raccolte in gruppetti. Il suono cadenzato dei campanacci andava e veniva passando le curve e le alture. Dopo l’ultimo tratto sterrato, dove la jeep ondeggiò come una barca, comparve il tetto spiovente della baita.
“Siamo arrivati” disse Teresa parcheggiando la grossa auto.
Jacopo alzò la testa dallo smartphone, imbronciato, dopo avere speso gli ultimi dieci minuti davanti al declino e alla definitiva scomparsa della connessione.
“Prendi il tuo zaino nel bagagliaio, per favore”.
La donna si era già incamminata a passi decisi verso l’ingresso, portando una valigetta e uno strano strumento. Jacopo scese, mise in tasca il telefono e armeggiò sul portellone prima di riuscire ad aprirlo. Tirò fuori lo zaino, con una smorfia che ne valutava il peso, e chiuse.
Dentro c’era un omone con la barba rossiccia che parlava con la zia. Lo stereotipo perfetto e noioso dell’uomo dell’alpe, fu il pensiero di Jacopo: dita come tronchi, camicia verde marcio, spalle imponenti. Piccoli occhi severi che raccontavano di imprese e ascensioni. La cosa era seria, gli toccava perdere tempo con quei due.
“Ti presento Jacopo” disse Teresa al collega.
“Giulio.” L’uomo gli allungò la manona.
Teresa già disponeva le apparecchiature sul tavolaccio di legno. Jacopo ebbe un fremito di disgusto quando la zia diede le disposizioni per la mattinata:
“Io mi fermo qui alla malga, ho un po' di lavoro da sbrigare. Ti spiegherà Giulio cosa fare quando sarete in quota. Ci vediamo per pranzo”.
L’uomo e il ragazzo misero gli zaini in spalla. Percorsero di buon passo la sterrata, che diventò presto sentiero, con la pendenza che aumentava e il passo dell’omone che non cambiava. Jacopo aveva il fiatone.
“Saliamo là”. Giulio indicò un punto tra le vette, una costa rocciosa che al ragazzo parve l’apice dell’assurdità, per quanto era in alto.
L’aria al sole si scaldava. Gli scarponi nuovi fasciavano il piede non abituato e tormentavano il tallone. Bofonchiando tra sé, trascinando un passo dopo l’altro in salita, con quell’uomo gigantesco costretto di continuo ad aspettarlo, Jacopo raggiunse la quota stabilita dai due esaltati.
Ansimava. Si voltò a guardare la sequenza di monti e vallate che si disperdevano all’orizzonte.
Non credeva ai suoi occhi. Era salito lassù a piedi!
“Bravo!” disse Giulio, picchiandogli una manata da un quintale sulla spalla. “Ci mettiamo qui, tieni”.
Tirò fuori dallo zaino due binocoli e gliene passò uno. Gli insegnò a regolarlo.
“La vedi quella cengia che taglia la parete? Se osservi con attenzione, più o meno a metà cengia trovi il nido. Guarda” lo invitò.
Jacopo non sapeva cosa fosse una cengia ma l’unica cosa che tagliava la parete era una linea, e in mezzo alla linea, in effetti, un po' sfocato, prendeva forma uno strano grumo. Armeggiando sulla messa a fuoco riconobbe le frasche e la paglia. E, all’interno, una testa d’uccello che si muoveva. Ne fu colpito. Si caricò di un certo orgoglio.
“L’ho visto!” disse, ad alta voce.
“Piano!” fece l’uomo. Non siamo venuti per spaventarle, le aquile. I genitori sono in giro, è la coppia stabile di questa sezione del parco.
“E dove sono?” fece Jacopo.
“Ora li cerchiamo”.
La ricerca consisteva in un’ora sequestrati lì ad aspettare. Più volte, seduto su un macigno di calcare, Jacopo estrasse nervosamente il telefono dalla tasca nella speranza di un miracolo.
Ma la connessione non tornò. Si rassegnò a scrutare i dintorni. I boschi sconfinati si stendevano muti e misteriosi sotto di loro, con il letto del torrente che in lontananza tagliava a metà la valle. Sopra la testa, grandi nuvole bianche si componevano e sfasciavano in silenzio.
“Eccole là!” fece d’un tratto Giulio.
Stagliate tra una nube e l’azzurro, le due aquile comparvero, in un volo lento, solenne.
Il capo triangolare e la coda a ventaglio sporgevano dalla sagoma delle ali.
“Stanno insieme tutta la vita, ci crederesti? Qui si sono stanziate queste due, altre sette coppie si spartiscono il parco”.
Il ragazzo guardava muto, immobile, le labbra socchiuse. I rapaci volavano in tondo e il silenzio era grande. L’uomo prese per un attimo la ricetrasmittente e comunicò con la collega alla baita.
Poi tornò a osservare le aquile con i suoi occhi piccoli e cupi.
“Ascolta!”. L’omone parlava sottovoce: “E’ il giovane che chiama. Deve ancora fare l’involo”.
Jacopo tese l’orecchio, il fievole “chiù, chiù, chiù” pareva un richiamo da un mondo lontano, primordiale. Le moli dei picchi e dei bastioni di roccia amplificavano la sensazione di vastità.
“Le monitoriamo per proteggerle” spiegò l’uomo. “In quest’area la stessa coppia ha tre nidi.
Pensa che prima del 1950 le aquile erano ritenute nocive, e c’erano perfino delle taglie sugli abbattimenti. Si bruciavano i nidi! E’ cambiato il mondo, per fortuna: dopo decenni di protezione totale si sono riprese bene, come vedi”.
I due rapaci rasentavano la parete e lentamente salivano di quota.
“Ma perché non vanno dal piccolo che chiama?” chiese Jacopo, contenendo il volume della voce. Con il binocolo era tornato a preoccuparsi del nido.
“Fa parte del loro programma di svezzamento. Tanto piccolo non è, se guardi bene: siamo prossimi al momento in cui prenderà il volo e dovrà rendersi più autonomo. Lo fanno tribolare un po', il giovanotto, così si tempra...” disse con un risolino Giulio.
Jacopo controllava assorto la cengia.
“Tra poco lo raggiungeranno, vedrai. Intanto stanno sfruttando una bolla d’aria calda, partita dalla parete che prende il sole. Si lasciano trasportare in alto. A proposito: lo vedi quel cavo là in fondo?”. Giulio indicò il cavo d’acciaio che puntava obliquo verso la stazione d’arrivo della funivia, incastrata e nascosta tra le rocce.
“Lo vedo”.
“La scorsa estate, l’aquilotto appena involato ha preso il cavo ed è morto. Gli impianti a fune sono uno dei nostri problemi…”.
“Ah” inarcò le sopracciglia il ragazzo.
“Occhio! Eccole là: stanno scendendo al nido”.
I due rapaci planarono sulla cengia. La femmina piegò il collo sul piccolo, il maschio si appollaiò maestoso sulla roccia.
“Scendiamo anche noi, adesso. Tua zia ci aspetta”.
Sulla via del rientro, il guardia-parco fece a Jacopo uno strano discorso. Gli spiegò che a primavera le uova deposte nel nido erano due. Dopo la schiusa, solo uno dei piccoli era stato mantenuto in vita. Il fratello era stato fatto a pezzi per nutrirlo.
“Si chiama cainismo. Le aquile lo mettono in pratica quando c’è carenza di cibo.
Quest’anno è andata così”.
Jacopo arricciò il naso immaginando la scena ripugnante. Con una reazione meccanica, nervosa, tirò fuori e accese il telefono a vuoto. Lo fece per tre volte.
“Fai attenzione a dove metti i piedi” gli fece Giulio, come avesse la vista  per dietro.
“L’attenzione ti salva, in montagna e non solo”.
Pranzarono alla baita. Nel pomeriggio Teresa mostrò al nipote i filmati notturni delle fototrappole, dov’erano passati lupi, volpi, ungulati. Un cervo s’era grattato i palchi sul tronco e aveva spostato un apparecchio, che andava riposizionato.
“E' qui a due chilometri, vicino alla strada: poi ci passiamo” disse chiudendo il computer.
Lasciarono a Jacopo qualche ora di libertà. Trascorse buona parte del tempo a osservare i due guardia-parco fare manutenzione sul materiale elettronico distribuito sul tavolaccio, con i radiocollari da applicare agli animali selvatici, le antenne per il rilevamento, i software per il monitoraggio della fauna del parco. Di quando in quando il ragazzo usciva dalla baita e si portava in mezzo ai prati a esplorare il cielo e le creste, con le mani nelle tasche e il naso per aria.
Giunse il tramonto. Giulio era venuto con la moto, parcheggiata sul retro. Uno splendido modello di moto elettrica che sembrava uscito da un film della Marvel, e che lasciò Jacopo di stucco. L’omone partì in un fruscio leggero. Lo guardò sparire tra le ombre sinuose del pascolo, nella luce di cristallo che annunciava la sera.
Andarono anche Teresa e il nipote. Sulla strada di casa si fermarono per la fototrappola. Parcheggiata la jeep, inoltratisi un poco nel bosco, giunsero a una radura in mezzo ai cembri.
“Eccola là, su quel tronco” disse Teresa. Mi daresti una mano?”.
Orientarono la camera a infrarossi, con la donna che aggiustava l’orientamento e il ragazzo che teneva in tensione il nastro.
“Bravo. A posto così” gli sorrise la zia.
A cena Jacopo fu meno introverso, e persino loquace. Molto presto salutò tutti e andò a letto per primo. La notte dormì con un sasso.
I giorni successivi seguirono il ritmo del lavoro nel parco, con le due guardie, Teresa e Giulio, che si occupavano di monitoraggi e di gestione dei pannelli, e con il ragazzo che li seguiva come un apprendista. Il mattino di venerdì, Jacopo era di nuovo con Giulio sul terrazzino di roccia:
“E' giunto il momento” disse a bassa voce il guardia-parco.
Da qualche minuto la giovane aquila saltava sul posto e sbatteva le ali. Si spingeva sul ciglio del nido, allungava il collo, esitava.
“E se si lancia e poi cade?” disse Jacopo.
“Non cadrà” fece l’omone.
I due esemplari adulti volavano in tondo a breve distanza dalla parete. Il silenzio pareva più profondo del solito e la montagna sembrava un immenso corpo vivente che tratteneva il respiro.
Il giovane rapace si lanciò nell’aria. Dopo aver perso quota, batté svelto le ali e con una traiettoria complessa e un volo sgraziato si riportò in alto. Le altre due aquile lo affiancarono nell’atmosfera tersa. Affilate, eleganti, le sagome dei tre sovrani del cielo rimpicciolirono fino a confondersi con i costoni lontani.
“Ora è un’aquila. Per i primi tempi si affiderà a loro, poi se la caverà da sola e lascerà la valle”.
Jacopo era senza fiato per l’emozione.
Lungo il sentiero in discesa camminava davanti, il passo diventato sicuro nei giorni.
Mentre rivedeva la giovane aquila gettarsi dal nido, gli venne una domanda che s’era tenuto dentro:
“Ma era così necessario ammazzare il fratello?”.
Giulio si fermò. Si grattò la barba con le grosse mani. Il ragazzo dal basso lo guardava.
“La montagna insegna cose importanti” disse l’uomo, gli occhi alla valle e ai boschi.
Aveva il tono serio di chi ci aveva riflettuto. “Le attenzioni di quei due rapaci, la fatica di portare il cibo al nido, la pena, o un istinto simile che forse avranno provato, nel sacrificare uno dei due piccoli: sono gesti duri, ma nobili. Solo questi gesti hanno permesso un nuovo slancio verso il cielo. Ciascuno di noi può scegliere di spendersi per qualcosa di grande. Io credo che dalla montagna si possa imparare a non sciupare la vita nelle banalità”.
Il giorno dopo, sabato, di buon mattino, Jacopo prese il pullman per tornare a casa.
Il viaggio durò tre ore e per le undici fu di ritorno in città.
La sera stessa, dopo cena, suo padre telefonò a Teresa:
“Cosa avete fatto alla nostra medusa? Appena pranzato è uscito ed è stato fuori tutto il pomeriggio. Dice che è andato a iscriversi a Legambiente, e che in settimana vanno a ripulire le spiagge dai rifiuti di plastica. Adesso è in camera sua. Ha perfino lasciato il telefono qui in salotto.
E in due secondi ha preso sonno”.
Teresa ridacchiava.
“Salutamelo, domattina” disse.
Davanti al terrazzino di legno, la luce tenue del crepuscolo avvolgeva le sagome imponenti dei monti.
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