Bettiol 29
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Premio speciale "Trofeo Cav. Ugo Bettiol"
Senza capire perché
di Rossetto Anna
Preganziol (TV)
Ogni volta che ci penso rabbrividisco. Esiste un posto nel mondo. Un luogo disseminato di cadaveri.
Più di duecento. In realtà ce ne sono molti, di questi luoghi. Ma quello a cui mi riferisco è l’unico in cui ad uccidere involontariamente è la montagna. Le salme restano intatte. Non ritornano alla terra, non vengono seppellite per rivivere in un mondo migliore, finalmente sollevate dalle loro fragilità, dai loro affanni, dalle loro malattie. Non restano solo nei ricordi più belli di coloro che le hanno amate. No. Rimangono nella neve, avvolte in un gelido abbraccio per decenni, crudele monito per tutti coloro che osano ancora sfidare la vetta più alta della terra. I morti, in una sorta di constatazione impotente e delirante, fungono da “guide” per gli scalatori nel percorso di ascesa verso la cima. Nel senso che i corpi inerti, loro malgrado, segnano la via. Raccapricciante.
Si è anche pensato di assegnare a questi sventurati un nome. Un alpinista presumibilmente indiano al momento del decesso indossava degli scarponi verdi, che di tanto in tanto emergevano dal manto nevoso. Ebbene, questo particolare fece battezzare di fatto la salma “Green Boot”, Stivali Verdi.
Quando sei sulla montagna tu, essere umano, termini di esistere come tale. Sei una marmotta, uno stambecco, una lepre, un lupo. Sei alla stregua di un ramo, di un cespuglio, di una roccia. Alla montagna non interessa se tu hai famiglia, se sei lì per amore della natura o per soddisfare il tuo ego smisurato. Alla montagna non importa se ti rendi conto che puoi perdere la vita o continui a salire perché pensi di essere immortale. Lei si erge, semplicemente. Lei sta lì, con le sue temperature proibitive, i suoi fianchi scoscesi, i suoi crepacci insidiosi. La neve ha provato, ha tentato di conferirle un aspetto più lieve e amichevole. Tentativo fallito. Il manto nevoso spesso cela passaggi incerti e pericolosi. La neve ispira candore e leggerezza, ma la morte per assideramento è tutt’altro che leggera. Penso sia uno dei peggiori modi di morire. Se mai ne esista uno che si possa definire migliore. L’Everest custodisce le sue vittime. Chi ancora si avventura sulle sue pendici trova sul cammino i corpi di coloro che non sono più tornati e che non possono essere recuperati per questioni di costi e rischi inenarrabili. Ma alla fine chi è la vittima e chi è il carnefice? E’ forse vittima chi sfida condizioni climatiche proibitive per la natura umana? E’ forse carnefice chi offre suo malgrado un ambiente ostile e sfavorevole? Nemmeno io, che sono avvocato, ho mai saputo rispondere a questo quesito.
Più di duecento. In realtà ce ne sono molti, di questi luoghi. Ma quello a cui mi riferisco è l’unico in cui ad uccidere involontariamente è la montagna. Le salme restano intatte. Non ritornano alla terra, non vengono seppellite per rivivere in un mondo migliore, finalmente sollevate dalle loro fragilità, dai loro affanni, dalle loro malattie. Non restano solo nei ricordi più belli di coloro che le hanno amate. No. Rimangono nella neve, avvolte in un gelido abbraccio per decenni, crudele monito per tutti coloro che osano ancora sfidare la vetta più alta della terra. I morti, in una sorta di constatazione impotente e delirante, fungono da “guide” per gli scalatori nel percorso di ascesa verso la cima. Nel senso che i corpi inerti, loro malgrado, segnano la via. Raccapricciante.
Si è anche pensato di assegnare a questi sventurati un nome. Un alpinista presumibilmente indiano al momento del decesso indossava degli scarponi verdi, che di tanto in tanto emergevano dal manto nevoso. Ebbene, questo particolare fece battezzare di fatto la salma “Green Boot”, Stivali Verdi.
Quando sei sulla montagna tu, essere umano, termini di esistere come tale. Sei una marmotta, uno stambecco, una lepre, un lupo. Sei alla stregua di un ramo, di un cespuglio, di una roccia. Alla montagna non interessa se tu hai famiglia, se sei lì per amore della natura o per soddisfare il tuo ego smisurato. Alla montagna non importa se ti rendi conto che puoi perdere la vita o continui a salire perché pensi di essere immortale. Lei si erge, semplicemente. Lei sta lì, con le sue temperature proibitive, i suoi fianchi scoscesi, i suoi crepacci insidiosi. La neve ha provato, ha tentato di conferirle un aspetto più lieve e amichevole. Tentativo fallito. Il manto nevoso spesso cela passaggi incerti e pericolosi. La neve ispira candore e leggerezza, ma la morte per assideramento è tutt’altro che leggera. Penso sia uno dei peggiori modi di morire. Se mai ne esista uno che si possa definire migliore. L’Everest custodisce le sue vittime. Chi ancora si avventura sulle sue pendici trova sul cammino i corpi di coloro che non sono più tornati e che non possono essere recuperati per questioni di costi e rischi inenarrabili. Ma alla fine chi è la vittima e chi è il carnefice? E’ forse vittima chi sfida condizioni climatiche proibitive per la natura umana? E’ forse carnefice chi offre suo malgrado un ambiente ostile e sfavorevole? Nemmeno io, che sono avvocato, ho mai saputo rispondere a questo quesito.
Già, sono avvocato. E sono una donna. Qualche decennio fa questa posizione associata ad un nome femminile non era nemmeno lontanamente plausibile. Per fortuna negli anni qualcosa è cambiato in meglio. Eravamo tante in facoltà, più o meno tutte con le stesse ambizioni. Uno studio proprio, una brillante carriera in difesa dei poveri e degli oppressi, nel rispetto della legge. Tutte sognavamo un’arringa vincente, avvolte in un elegante tailleur gessato, tacco 12, un pubblico degno di un caso di rilevanza nazionale, una vittoria piena e tanta visibilità. Alcune hanno visto avverarsi il loro sogno, altre no. Io sono la via di mezzo. La natura mi ha regalato la bassa statura, un perenne e ostinato sovrappeso, un aspetto tutt’altro che da diva dei tribunali. Ma mi piaccio così. La mia mente è veloce, razionale, il mio linguaggio è fluido e competente, la mia gestualità congrua e convincente. La mia preparazione è un ombrello d’acciaio che mi ripara, la mia esperienza una corazza di cemento. E’ questo che mi fa vincere le cause. Un tailleur gessato e un ottimo fisico non bastano di certo. Hanno tentato di cambiarmi. “Signorina Calleri, le suggerirei un abbigliamento più consono all’aula di un tribunale…”. No. “Signorina Calleri, la parrucchiera all’angolo fa delle messe in piega strepitose…”. No.
Io ho scalato l’Everest. Non potete nemmeno immaginare quanto io abbia faticato per approdare dove sono. Quante volte nell’arrampicata abbia abbandonato qualcosa di caro tra le pareti rocciose bianche e fredde di neve. La mia autostima, recuperata più volte in prognosi riservata e prontamente rianimata. Legami affettivi, molti sono rimasti dove li ho lasciati, ormai inerti e di fatto irrecuperabili. La fiducia nelle mie capacità, disseppellita a forza tante volte e scaldata tenendola stretta sul cuore. Il fiato corto dell’ansia non mi ha sconfitto, il gelo dei risultati che non meritavo non mi ha fermata. Mai. Il mastino dei tribunali. Massì, chiamatemi pure così. Non m’importa. Ho sacrificato tutto, sono arrivata dove volevo. A volte mi sono sentita io stessa L’Everest. Granitica nella mia imperfetta fisicità, intollerante ad incursioni impreviste nelle mie rocciose certezze, insopportabile nelle mie sfuriate irremovibili. Non è stato facile. Non è stato facile nel corso degli anni resistere all’avvento della tecnologia, adattarsi a nuovi scenari e linguaggi, mentre la tua età più verde e rigogliosa svanisce per lasciare il posto alla maturità: saggezza, consapevolezza, completezza ma anche l’affacciarsi di un inevitabile se pur lieve cedimento strutturale.
Insomma, ho quasi sessant’anni. Ne ho viste di cause, ho sempre difeso gli imputati, con tutta me stessa, anche quando io per prima non credevo all’innocenza dell’accusato essendone fin troppo palese la colpevolezza. E’ un mestiere che richiede una mente salda, lucida, inflessibile. A volte ho messo a tacere per primo il cuore, per seconda la coscienza. Non ho avuto scelta. Ma questa volta è diverso.
Non l’hanno chiamata Bruna. Nemmeno Yoghi. Effettivamente essendo femmina non era possibile. Potevano chiamarla Orsa, semplicemente. Invece no. Il suo nome, il nome dell’imputata è JJ4. Già, un nome forse adatto ad un modello di cellulare, ad una navicella spaziale, ad una nuova molecola scoperta magari per caso. I nomi sono importanti, ci accompagnano per tutta la vita, spesso, nostro malgrado, condizionano pure i rapporti con le persone. Se hai una cattiva opinione di qualcuno, difficilmente chiamerai tuo figlio con il suo nome e tenderai ad essere prevenuta su tutti coloro che si chiamano così. Dite pure che non è vero ma io resto della mia idea. Quindi perché non hanno dato ad un animale un affettuoso nome da animale? Effettivamente se vedo un topo e lo chiamo JJ4 non è la stessa cosa che chiamarlo Topo Gigio. Se vedo un gatto e lo chiamo M49 sarà diverso dal chiamarlo Gatto Silvestro. E quelli della mia età sanno di cosa parlo. Il nome attribuisce una personalità, nel caso degli animali è un modo di conferire loro affetto e designare la loro appartenenza alla famiglia. Quindi perché JJ4? Per non fare in modo che le persone la considerino un essere vivente e pensante ma semplicemente un ammasso di cellule assassine? Sono stata chiamata a difenderla. Ma, per la prima, assolutissimamente prima volta in vita mia, sono spiazzata, indecisa, confusa.
Non sono mai stata madre. La vita impone a noi donne un bivio: la carriera o i figli. Inutile dire il contrario, sprecare fiato e parole su un’ovvietà fin troppo limpida. Se i bambini stanno male vogliono la mamma. Non è un’affermazione stupida, è semplicemente un fatto genetico. Lo dimostra un’esclamazione di uso comune che può esprimere spavento, sorpresa, preoccupazione, stupore, gioia: “Mamma mia!”. Non ho mai sentito dire “Papà mio!”, mi risulta quasi stonato. Ca va sans dire, dicono i francesi. Se qualcosa ci emoziona particolarmente, nel bene e nel male, ovunque noi siamo, invochiamo la mamma per renderla partecipe, in qualche modo, del nostro stato d’animo. Dicevo, non sono mai stata madre, ma sono stata figlia. Vi chiederete cosa c’entra con il caso JJ4. C’entra, c’entra. Noi avvocati partiamo sempre da lontano per perorare le nostre ragioni. Sono stata figlia di contadini. Gente generosa come la terra che coltivava, semplice e umile, forse anche troppo, genuflessa ai capricci del tempo e al presunto volere di un Dio che spesso puniva chi non se lo meritava per poi premiare chi non si era guadagnato alcun riconoscimento. Ricordo un bellissimo cortile, ampio e soleggiato. Galline, anatre, tacchini che razzolavano nell’aia. Tacchini. Uno bianco e uno nero. A me, piccola bambinella che aveva visto forse tre primavere, sembravano enormi. Ed effettivamente appresi in seguito pesavano circa venti chili l’uno. Un giorno, mentre mia madre stendeva il bucato, io mi allontanai alle sue spalle per pochi metri. Uno dei due tacchini, quello nero, improvvisamente, senza apparente motivo, gonfiò il petto, allargò la coda in un grande ventaglio e mi caricò, proprio come fanno i tori nell’arena. Chissà cosa aveva scatenato la sua ira. La mia statura? Il colore dei miei vestitini? Il mio incedere incerto? Le grida di mia madre, che come tutte le madri aveva occhi anche sulla nuca, cacciarono in malo modo la quiete del cortile. Si avventò sulla belva alata, la allontanò con l’aiuto del bastone che si narra le massaie usassero per alzare al vento il filo dove erano stesi i panni. Se al posto del tacchino ci fosse stato un drago sputafuoco alto come un condominio la reazione di mia madre sarebbe stata esattamente la stessa.
Istinto. Quello materno, il più forte, il più inconsulto, privo di limiti, che supera anche quello di autoconservazione e di sopravvivenza. Una madre si strapperebbe il cuore dal petto a vivo se questo servisse a salvare il proprio figlio, senza pensarci, senza esitare. JJ4 era una madre. Il territorio nel quale viveva non era recintato, per cui poteva scorrazzare ovunque con al seguito i suoi cuccioli. La montagna non ha confini. Meglio, ha confini che noi umani consideriamo tali perché non siamo in grado di superarli. Per lei, per la montagna, non sono ostacoli, sono semplicemente il suo modo di essere. Per gli orsi il monte è casa. Poi c’è lui. Il corridore, il runner. Una povera anima che aveva semplicemente pensato di godersi le bellezze montane nel modo più innocente e innocuo del mondo. L’uomo che corre ha un passo ritmico, un’andatura cadenzata, cosa abbastanza rara per un animale. L’uomo ha un odore, dagli animali spesso associato a pericolo. La corsa può essere fuga ma può essere anche inseguimento. Sono chiamata a difendere l’orsa, a giustificare il suo gesto istintivo. E’ nel suo DNA. Istinto. Noi, come JJ4, a volte ci limitiamo a reagire, spesso in maniera inconsulta, senza pensare. L’intuito, il più poetico e occulto “sesto senso”. Quello a cui facevano appello gli uomini primitivi. Dicevo, penso a quella povera anima che si è vista arrivare addosso una belva pelosa e furiosa. E non posso che essere sconfortata. Non è colpa sua. Si è solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ed è inutile parlare di cartelli dissuasori, di sentieri che si inoltrano nei territori frequentati dagli orsi. La montagna è un’entità; nei secoli ha formato paesaggi, stabilito equilibri, creato fragilità. Non si può delimitare una montagna. Un universo immenso non può e non deve essere circoscritto, lottizzato. La montagna è nata libera da vincoli, selvaggia e indomabile. Questa è la sua peculiarità, la sua bellezza. E’ ciò che amiamo di lei. Al suo cospetto non siamo altro che delle creature viventi qualsiasi, prive della nostra natura umana. Lei non è interessata alle nostre debolezze, ai nostri errori, alle nostre supposizioni, alle nostre conclusioni. E tantomeno alla nostra smania di controllare, di catalogare, di delimitare luoghi e sentieri. E’ semplicemente spettatrice di tutto ciò che accade. Come posso giustificare una madre, che in quanto non umana, si è affidata all’istinto e ha ucciso una persona? Come posso accusare un ragazzo che voleva godere appieno delle bellezze naturali concedendosi una innocua e salutare corsa sui sentieri montani? Questo dubbio mi attanaglia, mi sconvolge, mi dilania. Una sposa che perde il suo sposo si chiama vedova. Un figlio che perde i genitori si chiama orfano. Non c’è un nome che identifichi chi perde prematuramente i propri figli. La madre del giovane uomo, pur straziata dal dolore, ha avuto la forza, in qualche modo, di giustificare l’Orsa JJ4. Questo un po’ mi solleva. Se lei non condanna l’orsa, forse non dovrei farlo nemmeno io. Ma allora, in questo caso, chi è il colpevole? Il destino. Il maledetto destino. Quella pagina di un libro per alcuni già scritta, personalizzata, dopo la quale probabilmente c’è vita ma non più sulla terra. Quel filo invisibile teso al momento della nostra nascita dal Dio che ognuno si sceglie e che, nostro malgrado, annoda scelte e decisioni precise. E’ lui, il fato l’unico imputato. La dannata sorte che ha fatto incontrare un’anima innocente con un animale che ha difeso i suoi cuccioli agendo d’istinto.
Devo riordinare le idee. In sottofondo la musica che preferisco, quella di un noto gruppo rigorosamente italiano. “Batte il suo tempo strano e stretto il forte tamburo del petto. Cielo pesante come roccia, l’ultima notte di caccia. Luna che scivola dietro una nuvola, fiato di polvere senza capire perché”. Senza capire perché. Questo il pensiero della vittima nel momento dell’aggressione. Questo il pensiero dell’orsa JJ4 la notte della sua cattura. Unica cosa che accomuna i due attori della causa, assieme all’amore per la montagna.
So già che troverò molti di voi, all’udienza. Ognuno di noi almeno una volta ha imprecato contro una infelice e sciagurata sorte. Chi per una crudele pugnalata alle spalle. Chi per uno schiaffo sonoro e inaspettato. Chi per il susseguirsi di una serie infinita di accadimenti catastrofici. Chi per un solo, un unico episodio che ha segnato e trasformato in maniera tragica la propria esistenza. Tutti vorremmo regolare tanti, troppi conti con il destino. Io metterò tutta la mia passione, la mia esperienza, la mia rabbia, il mio risentimento. Voi portate le vostre storie. Riusciremo ad incastrarlo. Lo prometto. Vi aspetto in tribunale.
La frase riportata si riferisce alla canzone L’ULTIMA NOTTE DI CACCIA dei Pooh, 1979.