Aprile 1945
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Premio speciale
"Rosa d'Argento Manilla Bosi"
Aprile 1945
di Paola D'Agaro - Pordenone (PN)
Quella sera Linda fu spedita in montagna, a portare da mangiare ai carbonai, anche se ormai erano più le volte che dai carbonai non ci arrivava. Se a fermarla non erano i cosacchi di ronda erano i partigiani. Alt, chivalà, dove vai, dove non vai… e poi andava a finire che le dicevano la polenta gliela portiamo noi, e il vino anche. E così doveva tornarsene a casa senza i soldi e senza neanche quel po’ di polenta.
Linda non ha paura della notte né della montagna. Conosce i sentieri e vi si arrampica saltellando sulle gambe magre come uno stambecco, anche se la notte è senza luna. Dalle nuvole scende una pioggerellina fitta fitta. Acqua minuta bagna e non è creduta. Menomale che ha messo gli zoccoli, che non si rovinano con la pioggia e può toglierseli facilmente quando il terreno si fa ripido e scivoloso e pazienza se i piedi diventano lividi come bistecche. I carbonai sono seduti con la schiena alla parete dello stavolo e formano un’ombra nera sul muro grigio. Dalla carbonaia esce un fumo argentato. Quando riparte ha in tasca un paio di lire e nella pancia una fetta di lardo e un paio di bicchieri di merlot che gli uomini hanno insistito per farle bere. La pioggia continua a cadere, fine e silenziosa. Così lieve da sembrare sospesa in aria. Nella pancia quasi vuota il vino si fa sentire.
L’oscuramento è rotto da un bagliore che la investe e improvviso. Sbatte le palpebre, si ripara gli occhi, annaspa, si gira verso la luce e riesce ad intravedere una sagoma scura che le punta una torcia contro. Nient’altro.
Chi sei, chi sei? Cosa vuoi? E, mentre quello risponde signorina no problema gut gut, chorošo, si sbilancia e scivola a terra. Non sa se deve avere paura o no perché, adesso che ci vede un po’ meglio, ha capito che quello che le sta davanti è uno dei mongoli della Catìn. E’ quello giovane con un braccio solo. Quello bello e triste. Sa che si chiama Gàrik perché quando va dalla Catìn a imbastire vatniki e kosovorotki, che sarebbero le giubbe e le camicie dei cosacchi, lo incontra spesso e una volta si sono presentati. Fa le ronde la notte, a caccia di partigiani, e il giorno lo passa a fumare la pipa nella cucina della sarta che adesso è una specie di dormitorio in cui passano il tempo una mezza dozzina tra adulti e bambini. Per terra c’è un po’ di tutto: foglie, erba, paglia. Ci stendono sopra un tappeto e su quello dormono. Sono animali, bestie selvatiche. Puzzano di sudore, aglio, verze e cipolla e passano le ore ad accarezzare e a strigliare i cavalli.
Adesso lui ride forte tenendosi la pancia con l’unica mano. Il Mancin, lo chiamano. Con quella mano sa fare di tutto. Scrive, cavalca, suona un piffero dalle note tristi e spara ai partigiani. Quando è solo si siede al tavolo lungo che serve per tagliare le pezze, tira fuori una specie di taccuino e compita mormorando lunghi elenchi di parole. Poi solleva la testa dal quaderno, bagna la punta del lapis con la lingua e alle lavoranti, ai clienti impacciati che entrano con in mano i calzoni da rammendare, a tutti quelli che gli passano a tiro domanda che nome questo? che nome quello? Indicandolo con il dito. Le ragazze ridacchiano e dicono questo tavolo, quella stufa. Quello che gli dicono lo trascrive, ma le parole sembrano diverse in quel suo strano alfabeto. Talvolta, per curiosità, chiedono e in rusko? Lui sillaba lentamente le parole e gliele fa ripetere. Però loro non prendono nota come fa lui con il lapis inumidito e cinque minuti dopo se le sono già dimenticate. Gàrik vorrebbe sapere come si dice pobeda, svoboda, rodine, ma non può indicarle con il dico perché sono la vittoria, la libertà, la terramare. E questo gliele fa sentire ancora più lontane e inaccessibili. E allora si rabbuia e mormora tutto finito, kazaky kaputt! guardando fisso negli occhi le ragazze che se ne stanno lì impalate senza sapere cosa dire.
Signorina, propusk, papir prego! Dice con un inchino.
A Linda monta la rabbia a vedere la scena in piena luce: lei con le gambe all'aria, i piedi luridi, i vestiti inzaccherati, il muso nero di fumo, il sedere dolorante e lui che ride e vuole il lasciapassare. Allora la paura le passa. Si alza inferocita e gli si avventa addosso per morderlo, graffiarlo. Quando vede che non reagisce lo prende a calci e pensa adesso mi ammazza, ma lui, alto, imponente, ride sempre e i suoi denti incredibilmente bianchi scintillano nel buio fino a che, d'improvviso, tutto si ferma.
Da lontano è arrivata l'eco di una voce, tante voci, che si avvicinano minacciose.
Partizany! davaj, davaj, andare! Sussurra lui. Poi l'afferra per un braccio e la trascina con sé. A pochi passi c'è un fienile: quattro mura, un tetto sfondato, finestre murate e una porta marcia ma sprangatissima che resiste ai suoi calci. Non si vuole aprire. Kljuch! le sussurra e lei capisce che vuole la chiave. Intanto le voci si avvicinano, voci concitate. Qualcuno urla qualcosa, altri tentano una corsa nel buio del sentiero. Kljuch! È una parola! Allora si mettono a sollevare tutte le pietre li attorno, a far scorrere la mano dentro gli anfratti nel muro di pietra. E davvero lei non saprebbe dire perché lo fa. Basterebbe scappare nel buio, gridare. I partigiani sono tanti, lui è solo. E nemmeno Gàrik, dal canto suo, è convinto di quello che sta facendo. In fondo è il suo mestiere quello di stanare banditi. Una voce gli dice di correre in paese ad avvisare gli altri. Ma non lo fa perché ce n’è un'altra che viene da chissà dove e gli dice che non esistono solo le nobili cause e gli alti ideali, quelli che richiedono sacrifici supremi o sprezzo di ogni regola, che ti elevano oltre l'umano o ti precipitano nell'abisso, a seconda da che parte li guardi. Esiste anche l'infimo che è più piccolo solo perché è un po' più profondo e tante volte non lo si riesce a vedere da tanto è lontano.
Intanto i partigiani hanno cominciato a puntare le torce. Pensano che se si trattasse di tedeschi avrebbero già sparato. Una certa diffidenza da animali braccati li spinge a rimanere ancora acquattati. Poi annusano l'aria controvento e sentono un odore familiare, l'odore della paura. Allora avanzano circospetti gridando alt, fatevi riconoscere! Il fascio di luce delle torce oscilla sopra le teste di Gàrik e di Linda, sempre più vicino, fino a sfiorarli. Mentre continua a sollevare le pietre, Linda prega perché non arrivino, perché la guerra se ne stia lontana per una volta. Lontana da lei. E piange di rabbia perché capisce che, invece, tra qualche minuto sarà tutto finito: lo ammazzeranno e lo lasceranno decomporre in qualche gora o in qualche dolina come hanno fatto con quelli che hanno preso dopo che i tedeschi e i cosacchi avevano ammazzato il Fulmine e il Pacca e li avevano appesi a un cornicione con il cartello Banditen!.
In quel momento, improvvisamente, sotto la centesima pietra compare la chiave, grande e lucente come quella del paradiso. Allora la scena si dissolve in un attimo e Linda si ritrova dentro, accovacciata contro l'angolo del fienile, con il viso tra le ginocchia e le mani sulla testa mentre Gàrik fa girare piano la chiave nella toppa. Si sentono i passi che si avvicinano, poi i colpi secchi degli scarponi contro la porta. Poi i passi si allontano e si sente solo il muggito lontano. Per un tempo interminabile restano fermi e muti come statue, concentrati sul proprio respiro. Oltre il tetto sfondato, le nuvole si sono alzate sfilacciandosi e ha smesso di piovere.
Mucca, dice lui rompendo il silenzio, korov.
Sta male, gli risponde Linda. Male, nein gut, niet chorošo.
E si chiede che senso abbia stare lì a cercare di spiegare ad un russo che se una mucca chiama in piena notte è perché deve sgravarsi o ha fame.
Linda fa il gesto di afferrare qualcosa e gli spiega ha fame perché voi zac! cap-carap! E tutto il fieno… via!
Lui sorride e si vedono i suoi denti brillare alla luce della luna che filtra tra le assi del tetto.
Nostri cavalli grandi e vuole tanto fieno, tanto, ripete sorridendo.
Linda, che non si è mossa dal suo angolo, lo segue con gli occhi mentre si siede vicino a lei e tenta di accendersi lo pipa. Allora lentamente allunga un braccio, gli sfila lo scatola dalle labbra e il fiammifero dalle dita. Quando le loro mani si sfiorano pensa mio dio no, non è possibile. Chi può essere quel santo così pazzo da presentar le un uomo così? Un miserabile tra i miserabili. E poi c'è una legge in proposito, una legge non scritta ma più ferrea che se l'avesse scritta dio in persona. Cosa fanno a quelle che beccano con un cosacco?
La luce del fiammifero rischiara per un attimo i loro visi e le dita di lui che sfiorano il corpo di Linda percorrendo lo dal basso all'alto. Piede, sussurra, gamba, pancia, mano, braccio. E poi le sue dita arrivano al viso, ma lui non si ferma e continua il ripasso. Scandisce ancora bocca, guancia, naso, occhio, anche se tra lo bocca e l'occhio destro di Linda non c'è una guancia ma una macchia rugosa e violacea. E poi mormora ochi chernye, anche se lo macchia ha invaso lo palpebra e le ha lasciato solo un lungo solco umido, una linea di sangue tra l'occhio e quella specie di guancia.
Ochi chernye, ochi strastnye!
Ochi zhguchie i prekrasnye!
Quando Gàrik lo bacia è convinta che il mondo stia per finire e invece lo terra non si apre, lingue di fuoco non escono dai crepacci per ghermirla e trascinar lo all'inferno. Il cielo non si scatena e l'universo non sprofonda. Allora è lei a baciarlo e lo terra comincia a girare, girare ... Krutitsja, vertitsja šar goluboj, krutitsja, vertitsja nad golovoj... Gira e volteggia il globo terrestre, gira e volteggia sopra le teste, gira, volteggia, vuole cadere, rapire vuoi lo dama il cavaliere! Ecco lo via, ecco lo casa, ecco lo dama da me amata.
Linda pensa se proprio il mondo non vuole sprofondare almeno se ne resti immobile per un po’…
Quando Linda apre lo porta di casa non trova lo madre ad aspettarla. È nella stalla a mungere.
Pioveva, le dice, e mi sono fermata a dormire dai carbonai .Poi le consegna i soldi. La madre non dice niente. Non le capita mai di avere paura che sua figlia non torni. Se è segnata ci sarà un motivo. Linda si carica il piccone in spalla e va da quelli della Todt. Gli ufficiali la squadrano da capo a piedi e gli viene da ridere a vedere quella Mädchen tutta pelle e ossa con il piccone in mano. Ma non ridono perché gli adulti sono tutti in montagna o chissà dove e con quei quattro vecchietti spelacchiati che compongono le squadre le fortificazioni non vanno avanti. E allora ben vengano anche le ragazze. Ogni sera, mollato il piccone, Linda sale in montagna con il formaggio per i carbonai e al ritorno, nel fienile della prima notte, c'è Gàrik ad aspettarla.
Finché, un giorno di fine aprile, quello che doveva succedere succede e, al risveglio, Linda scopre che i cosacchi se ne sono andati. Un lungo serpentone umano percorre lentamente le arterie della pedemontana verso i valichi alpini con l'Austria. Carri, cavalli, soldati, donne e bambini affrontano l'ennesima ritirata. Destinazione: ignota.
Poi arriva concitato un ragazzo da un paese vicino a dire che il Mut è morto.
Qualcuno l'ha visto andare incontro ai cosacchi in fuga con i suoi tiri da matto. Al solito, gesticolava e grugniva come una bestia, racconta. Quelli chissà cos'hanno pensato, magari si sono spaventati e lo hanno ammazzato. Ho visto uno di loro caricare il mitra e sparare. Era senza un braccio, credo.
Linda non vuole sentire niente né pensare a niente. Chiude gli occhi e vede la luna scivolare piano tra le assi del tetto sfondato. Quando vengono a dirle che li hanno presi tutti, quelli che hanno ucciso il Mut, e che i partigiani li hanno fucilati lì dov'erano, lei vorrebbe morire invece prende il piccone e va in cerca di quelli della Todt. Quando vede che non c'è più nessuno, lo chiede ai partigiani dov'è che devo scavare?
Lui le ha lasciato la scabbia, qualche rublo e il suo notes delle parole: dozhd, pioggia; vojna, guerra; do svidaniya, arrivederci; prosti menya moya Iyubov’, perdonami amore mio; pochemu? perché?
Perché? perché? Oh se almeno non l'avesse lasciata così sola! Se le avesse lasciato anche un bambino! Finché non arriva il marchese lei ci crede ancora a quel figlio e fantastica su come sarà e non sarà. A volte le sembra di sentirlo muovere dentro. Poi, quando l'illusione svanisce, corre a nascondersi nei campi, si rifugia tra le viti che stanno germogliando appena e, per la prima volta in vita sua, piange e maledice a voce alta il mondo intero e tutti i santi del paradiso. I fagiani fuggono via spaventati in un frullio d'ali, le lepri corrono a rifugiarsi nelle tane, le volpi drizzano le orecchie e annusano l'aria facendo vibrare i lunghi baffi. Fino a che, in lontananza, non le sembra di scorgere, attraverso le lacrime, i cammelli dei cosacchi. Sono tanti, decine, centinaia. Camminano morbidi e lenti e si fermano qua e là a rosicchiare le foglie dei meli e dei sambuchi. Chiude gli occhi e quando li riapre i cammelli sono spariti, e anche i singhiozzi. Pensa chi non può benedire non deve maledire e riprende la strada di casa.
Molti anni sono passati da quell'aprile del '45 e Linda è tornata tante e tante volte in quel fienile di notte e mai da sola. A quei rubli si sono aggiunte le poche lire che giovani finiti a fare il militare nelle caserme della zona le hanno lasciato e che lei non ha mai toccato. Sono giovani malinconici, malati di nostalgia e di noia per i quali una macchia in più o in meno nel simulacro del loro desiderio non fa nessuna differenza. Quando poi ha deciso che era arrivato il momento, ha arrotolato le banconote e le ha mandate alle figlie del sacro cuore di Gesù e di Maria. Infine, ha preso la grande chiave lucente e l'ha gettata nella gora più vicina.
Quando, l'anno dopo, ha saputo che un istituto per ciechi cercava una cuoca, ha comprato il più bel libro di cucina in commercio e ha deciso che, se aveva fatto l'operaia per la Todt, poteva fare anche la cuoca.
Oggi si sente vecchia e stanca e vorrebbe smettere di lavorare, ma sente anche che la sua vita è lì, in quella cucina, tra le mura imponenti dell'Istituto per ciechi “G. Tolazzi”: Senza le carezze di tutti quei bambini dallo sguardo spento si sentirebbe persa. Ormai non pensa quasi più a quel lontano aprile dopo che per tanti anni il ricordo doloroso di quei giorni l'ha accompagnata come un'ombra stesa sulla sua vita e sulla sua capacità di percepirla. Solo ogni tanto, quando sa di essere sola, si toglie il grembiule, va verso la credenzina con i vetri smerigliati e, da una scatola piena cartoline provenienti da tutta Italia, ne sfila una sbiadita e consunta. Porta il timbro di Lima, e mostra l'immagine in bianco e nero di un paesino innevato delle Ande. È datata 1950. Nel testo si legge, in cirillico, Zapomni menya ochi chernye, Ricordami, occhi neri.