Amici per sempre
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XI EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2006
Segnalato
Amici per sempre
di Fabrizio Bianchin - Macerata
Il famedio è lì, a non più di venti metri, illuminato dagli ultimi bagliori del tramonto. L’uomo sente una mano gelida che risale la schiena fino a raggiungere le piccole spalle ossute, e poi ridiscende sul petto a stritolargli il cuore. Un suono flebile, inarticolato, gli esce dalla bocca. Le gambe sono divenute rigide.
L’uomo trascina i piedi verso l’edificio funebre. Oltrepassa una grande croce e si trova davanti tre scalini. Si blocca. Ansimando, porta una mano alla fronte e inizia a far scorrere le dita sui capelli bianchi. Vede aprirsi, in cima a quella che ai suoi occhi è una montagna da scalare, una grande camera circolare senza pareti.
Ora l’uomo ha conquistato la vetta: la vista annebbiata dalla tensione gli permette di scorgere a malapena le bare di pietra disposte in cerchio. All’improvviso, attorno a lui tutto comincia a girare; allora, per non cadere, appoggia istintivamente le mani sulla bara più vicina. Avvicina il viso alla foto sulla lapide: il cuore accelera i battiti fino quasi a impazzire; prima ancora di leggere l’epitaffio, l’uomo ha riconosciuto Achille Barilatti, il suo tenente.
Giannina venne svegliata dalle urla dei soldati tedeschi giù in strada e si trovò tra i frammenti in dissolvenza di un sogno. Vide Femio che le sorrideva; vide anche, o sentì, la presenza dei monti in cui lui si rifugiava. Poi questi frammenti fuggirono via, e proprio nell’ultima scoria di sogno avvertì il cadere di una fitta neve rosso sangue.
Rabbrividendo, la ragazza si alzò dal letto. Si diresse a tentoni verso la finestra e spalancò gli scuri: una folata di aria gelida la investì, aumentando in lei quel senso di angoscia che il sogno le aveva lasciato addosso. Il cielo aveva seguitato a vomitare neve per tutta la notte e Femio era lassù, in qualche posto oltre il paese di Caldarola, probabilmente dalle parti di Montalto o di Vestignano. Venti, venticinque chilometri al massimo da Tolentino: pochi, eppure infiniti. Almeno per lei.
Prese a massaggiarsi con vigore le braccia, cercando di scacciare il freddo, ma rimase alla finestra con lo sguardo fisso sui monti; a immaginare Femio che in quel momento si stava svegliando, o magari terminava il turno di guardia. Quante volte aveva implorato suo padre di condurla con sé, quando si recava a portare viveri e vestiario ai partigiani... Ma lui aveva sempre rifiutato: diceva che non poteva certo mettere a repentaglio la vita di sua figlia, una ragazzina di sedici anni. In quei giorni, allora, Giannina aspettava trepidando il ritorno del babbo che riportava notizie del tenente “Acciaio”, (l’eroe di cui erano innamorate tutte le sue amiche), di Elio, Balilla, e di tutti gli altri, ma soprattutto di Femio.
Tutto questo ora sembrava lontano non settimane, ma secoli. Percepiva in maniera distinta che il periodo di relativa sicurezza di cui avevano goduto quei ragazzi era ormai finito: forse lo dichiarava il cielo stesso, che sopra la zona di Caldarola sembrava ancora più livido.
In quello stesso momento Femio Brandi arrancava sulla neve fresca, cercando di percorrere nel minor tempo possibile le poche decine di metri che lo separavano dalla Chiesa di Montalto.
Pochi minuti prima, lui e i pochi che alloggiavano nella casa della Comunità, vicino alla Chiesa, avevano sentito sparare dalla zona della scuola dove risiedeva il grosso del gruppo partigiano. Il tempo di rendersi conto che in cinque non avrebbero avuto alcuna possibilità e già si erano dispersi, chi cercando salvezza verso Vestignano, chi in direzione di Caldarola. Femio, invece, aveva deciso di correre a chiedere aiuto al parroco.
- Don Antonio! Don Antonio! – Femio prese a tempestare di pugni il portone della Chiesa.
Furono solo pochi secondi, ma sembrarono secoli; poi il sacerdote, un omone calvo di mezza età dai grandi occhi azzurri, apparve sull’uscio e, agguantatolo per un braccio, lo trascinò dentro richiudendo immediatamente.
- Ci hanno scoperti... hanno attaccato la scuola... – Femio, stravolto dalla corsa sulla neve e dalla paura, faticava a riprendere fiato. - Gli altri che erano con me sono scappati... nascondetemi, vi prego.
- Avevo sentito gli spari – commentò Don Antonio Salvatori, increspando le labbra in una smorfia preoccupata.
Femio gli afferrò le mani. – Qui non entreranno.
Don Antonio si sciolse con delicatezza dalla presa del giovane. – Non ne sarei così sicuro. Quelle belve non hanno rispetto per nulla. – Si guardò intorno, pensieroso. – Vieni – disse, dopo qualche istante.
Attraversarono per metà la navata, poi deviarono in direzione del confessionale. Lì accanto giaceva una grossa cassa. Il sacerdote l’aprì: era piena di candele. – Mettiti qui dentro. Lascerò il coperchio socchiuso, così potrai respirare.
- E voi?
Don Antonio prese a grattarsi la pelata. – La neve ha smesso di cadere, la prima cosa da fare è cancellare le tue orme. Poi andrò a vedere.
L’uomo si muove lentamente, con le spalle curve e il collo piegato; di fronte a ogni bara si ferma e osserva la foto, a lungo. E’ esausto. Percepisce, con ogni fibra del proprio essere, di stare sprofondando senza la minima resistenza in un nulla putrido e osceno.
Improvvisamente l’uomo si raddrizza, come percosso da una frustata. Si porta le mani alle orecchie e inizia a singhiozzare. Quindi prende a oscillare per poi cadere in ginocchio proprio davanti alla tomba di Balilla Pascolini, il suo caro amico d’infanzia. La scarica del plotone d’esecuzione è ritornata, improvvisa e violenta in modo insopportabile, a lacerargli i timpani. E l’uomo, ancora una volta, ricorda...
“... Il sangue di Ferrario cola ad arrossare la neve.
A pochi metri, sotto la minaccia dei fucili fascisti, ci sono gli altri partigiani catturati alla scuola di Montalto.
Elio sente l’ufficiale fascista ordinare a Verdinelli, uno dei prigionieri, di togliere le scarpe al cadavere e di gettarlo nel dirupo lì sotto.
Elio fatica a reggersi in piedi. E’ stato malmenato a lungo, la sera prima. Da dietro gli occhiali scuri vede le immagini al rallentatore, quasi fluttuanti. Cerca di convincersi che sia tutto un brutto sogno.
Vengono fatti allineare cinque partigiani.
Il crepitio dei fucili.
La neve sempre più sporca.
Verdinelli, il viso terreo, toglie le scarpe ai morti e li fa rotolare di sotto.
Altri cinque.
Arriva Don Antonio Salvatori: si sbraccia, grida da lontano il suo appello disperato che viene coperto dagli spari.
Neve rosso sangue.
Verdinelli toglie le scarpe e fa rotolare di sotto.
- Tu poco bravo a sparare. Io colpire alla faccia e tu invece no. – Un giovane fascista canzona un tedesco.
Don Antonio afferra l’ufficiale per le spalle e lo implora. Gli si affianca Achille Barilatti: chiede di essere fucilato al posto di quei poveri ragazzi.
L’ufficiale ride. Risponde a Barilatti che ha ricevuto l’ordine di consegnarlo ai tedeschi, e che gli dispiace privarsi del piacere di ammazzarlo.
Ancora cinque: c’è anche Balilla.
Elio chiude gli occhi e si morde le labbra per non urlare. Pensa a Femio che non è lì, e si augura con tutto il cuore che almeno lui sia riuscito a salvarsi...”
... L’uomo ha un sussulto: un rumore di passi lo ha riportato alla realtà. Si rialza in piedi e dirige lo sguardo verso l’ingresso del famedio. Davanti a lui, appena prima della grande croce, ci sono un uomo e una donna anziani: camminano vicini, sfiorandosi. Malgrado i decenni trascorsi, non ha alcuna difficoltà a riconoscerli.
Don Antonio poggiò una mano sulla spalla di Femio, seduto accanto a lui sulla panca di fronte all’altare.
- Siete sicuro? – chiese Femio, singhiozzando.
Il sacerdote emise un lungo sospiro. Quindi prese ad annuire più volte, con gli occhi socchiusi. – Indossava l’uniforme dell’esercito tedesco e portava gli occhiali scuri. Ha attirato la mia attenzione perchè non era armato. Aveva anche diversi lividi sul volto, ma l’ho visto troppe volte nel vostro gruppo per sbagliarmi: era quello che tutti chiamavano “il mingherlino”. Mi ha anche sorriso. Credo abbia voluto farmi capire che potevo stare tranquillo, che non mi avrebbe coinvolto... Possibile che nessuno di voi abbia notato la sua assenza?
- Sapevamo che sua madre era malata. Ha insistito per tornare a Tolentino, voleva vederla. Io e Balilla abbiamo cercato di fargli cambiare idea, ma non c’è stato nulla da fare: è partito l’altra notte.
- Allora è tutto chiaro. Lo hanno catturato e probabilmente ha subito torture...
Femio lo interruppe afferrandogli un braccio che prese a stringere con forza. – Ha sulla coscienza trentuno uomini! – Adesso urlava. – Non si è fermato nemmeno di fronte ai suoi amici più cari: Balilla, capite? Balilla! – Di colpo, sembrò perdere tutte le energie. Lasciò la presa e si appoggiò allo schienale con le braccia penzoloni. Gli apparve allora l’immagine di tre bambini scalzi che giocavano a rincorrersi lungo l’argine del fiume Chienti; poi vide Elio, da sempre “il mingherlino”, e Balilla, all’uscita di scuola...
- Cosa intendi fare, adesso? – La voce del sacerdote intervenne a cancellare i ricordi.
Femio ignorò la domanda. Ora guardava fisso davanti a sé, oltre l’altare illuminato dalla luce fioca delle candele. I suoi occhi avrebbero dovuto catturare l’immagine della Madonna con il Bambino, ma in realtà stavano cercando invano di esplorare una profonda voragine nera. – Il tenente Barilatti è l’unico che conosce il nascondiglio di Acciaio, e non lo rivelerà mai; così i morti, grazie a quel porco, saranno presto trentadue.
Don Antonio prese a carezzargli con dolcezza i capelli. –Questa è la casa del Signore: ti prego, rispettala.
Femio si voltò di scatto verso il sacerdote. – Dov’era Dio poche ore fa? – ringhiò. Poi, subito pentito, si fece il segno della croce e chinò il capo. – Scusate.
- Non ti preoccupare. Prima ti ho chiesto quali sono le tue intenzioni.
- Non lo so.
- Se ti rivelassi che Barilatti non è il solo a conoscere il nascondiglio di Acciaio?
Femio si tirò su, di scatto. – Voi sapete... Certo. Sono pronto, non chiedo altro!
- Domani allora ti condurrò da lui; così potrai unirti alla sua volante.
- Solo una cosa, padre – Femio sentì avvampare le guance. – A Tolentino c’è una ragazza, Giannina Cirilli; è la figlia dell’allevatore di cavalli. Potete farle sapere che sono vivo?
Don Antonio annuì; quindi abbracciò Femio che, con il viso sulla sua spalla, riprese a singhiozzare: all’inizio fu un pianto convulso, poi, a mano a mano che il grumo di disperazione si scioglieva sotto l’effetto delle lacrime, la disperazione lasciò spazio a un dolore composto e rassegnato.
Femio scorge l’uomo dentro il famedio. Il tempo di metterne a fuoco la figura e si blocca, a pochi passi dai tre gradini che portano al monumento funebre; Giannina si ferma anche lei e lo guarda stupita, poi vede l’uomo e capisce. Accosta la bocca all’orecchio del marito, gli sussurra che lo aspetterà al cancello d’ ingresso, e si allontana.
- Femio, amico mio, sono Elio. – La voce dell’uomo è stanca e supplichevole.
Femio guarda l’uomo e tace.
- Ho ancora dei contatti: mi hanno detto che tutti gli anni, nel giorno in cui riportaste le salme a Tolentino, vieni al cimitero a quest’ora. Sono qui per implorare il tuo perdono.
Femio continua a fissarlo senza parlare.
- Per l’amor di Dio, non vedi come sono ridotto? – L’uomo allarga le braccia, quindi si passa una mano sulle guance scavate. – Mi chiamavano “il mingherlino”, ricordi? Eppure, magari fossi come allora... sono finito, completamente consumato. - Indica le bare. - Solo poche settimane e poi li raggiungerò.
Femio fa un passo in avanti. – Signore, io non la conosco. Sono addolorato per la sua malattia, ma non credo che potrà condividere qualcosa con quegli uomini: loro sono morti giovani, da eroi.
- Per favore, ascoltami. Non sono mai stato forte, lo sai. E quelli mi hanno picchiato per un giorno intero. – L’uomo si morde le labbra. Ha gli occhi dilatati e respira a fatica. In mezzo alla grande camera circolare illuminata dagli ultimi bagliori del tramonto appare minuscolo, quasi incorporeo. – Avrei voluto resistere, credimi, ma non ce l’ho fatta. Per me tu e Balilla eravate come fratelli...
- Signore, mi dispiace ma non so di cosa sta parlando. Io e Balilla eravamo molto amici, è vero. Però di lei non mi ricordo.
L’uomo cade in ginocchio e giunge le mani, singhiozzando. – Ti scongiuro, sono passati quasi cinquant’anni, non posso andarmene senza il tuo perdono.
Femio si stropiccia gli occhi. Per un momento ha l’impressione che la ghiaia sotto i suoi piedi sia diventata molle e abbia iniziato a risucchiarlo. – Se lei era amico di Balilla Pascolini allora le interesserà sapere in che condizioni l’abbiamo ritrovato: siamo potuti andare nel luogo della fucilazione solo il giorno dopo. Non ci crederà, ma stentavamo a riconoscere i corpi. Giacevano nelle pose più strane e terribili. Noi ci aggiravamo tra di loro, affondando i piedi nella neve sporca di sangue, alla ricerca di un particolare, di qualcosa che ci permettesse di identificarli. A Balilla avevano sparato due colpi in faccia, le lascio immaginare come potesse essere ridotto. Lo riconobbi solo da un dente spezzato... Ora mi perdonerà, signore, ma devo andare. Si è fatto tardi e mia moglie mi sta aspettando. Le faccio gli auguri più sinceri per la sua malattia.
Femio dà le spalle all’uomo e si avvia, ignorando l’urlo disperato che si alza dal famedio. Subito la mente gli proietta la scena di tre bambini scalzi che si rincorrono ridendo sulla riva del fiume; quindi appare Balilla, riverso sulla neve rossa del suo sangue.
Accelera il passo nella vana speranza di poter allontanare dietro di sé i ricordi che ora si accavallano frenetici. Arriva al cancello quasi senza accorgersene.
Giannina è lì ad attenderlo: in silenzio lo prende sottobraccio e si incammina con lui.
Il tempo di percorrere pochi metri e Giannina si ferma: i due si guardano per un lungo istante, poi Femio affonda il viso sulla spalla di lei e inizia a singhiozzare in maniera accorata.
- Non ci sono riuscito – Femio fatica ad articolare le parole. – Volevo perdonarlo... non ci sono riuscito... perchè Dio mio, perchè tutto questo?
Giannina lo stringe più forte e piange anche lei: non c’è altro che possa fare.