Adìo Alpin - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Adìo Alpin

Tutte le edizioni > Edizione09
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Segnalato

Adìo Alpin

di Giuseppe Toffolo - San Donà di Piave (VE)



Il comando di battaglione seguì coi binocoli tutta l'azione dall’osservatorio posto sulla cima del colle di fronte. Saranno stati sì e no cinquecento metri di distanza. L'eco delle raffiche di mitragliatrice arrivava come un crepitio lontano.
-  Portalo giù - urlò qualcuno fuori, forse il furiere.
-  Portalo giù 'na madonna! Qua non c'è più un c... di niente! - rispose una voce alterata.
Di fronte, a metà del costone, i caduti della IV Compagnia macchiavano la neve di grigioverde e di rosso. Avevano posizioni scomposte. Sembravano insetti schiacciati da una mano gigante.
- Chi ha il comando, ora? Chi è il più alto in grado? - chiese il comandante quando tornò la staffetta. Era arrivata fino a tiro di voce dalla Compagnia impegnata nell'attacco della postazione greca. Erano solo quattro mitragliatrici, ma, da quella posizione, bastavano per fermare anche una divisione.
- Il più alto in grado è un sottufficiale, il sergente maggiore Mario Luciani, del Secondo Plotone, signor maggiore. Gli ufficiali sono morti. E sono morti anche un terzo degli effettivi - rispose l'aiutante.
- Che elemento è quel Luciani? Lo conosce, tenente?
- Nossignore. L'aiutante maggiore pensò che non era tenuto a conoscere personalmente tutti i sottufficiali del battaglione. Ma non lo disse. La IV Compagnia era inchiodata a mezza costa dal fuoco dei Greci. Non poteva né avanzare né ripiegare, almeno fino a notte. Non si potevano mandare rincalzi, perché non c'erano abbastanza armi di accompagnamento. Anzi, c’erano, ma quasi tutte fuori uso. E niente munizioni.
Le mitragliatrici tacquero. Il nemico sapeva delle difficoltà dei nostri Alpini. Di sicuro i Greci approfittavano della breve tregua per cambiare le canne roventi alle armi.
Sotto di loro, la IV Compagnia era ancora dispiegata a ventaglio, come aveva ordinato il capitano caduto. Un paio di uomini avevano però lasciato la loro posizione e, strisciando sulla neve, s'erano portati accanto ad un terzo.
- Quello in mezzo dev'essere il sergente - osservò il maggiore, senza posare il binocolo.
I tre Alpini confabularono un poco, stesi sulla neve. Poi uno di loro, dopo aver armeggiato nervosamente sulla canna del lungo '91, agitò il fucile e si alzò in piedi. Dalla canna pendeva un fazzoletto bianco.
- Hanno alzato bandiera bianca. Si danno prigionieri - disse l'aiutante maggiore.
- Forse è meglio così. Che i se renda, par carità... de più no i pòl far - borbottò il comandante.
Per eliminare quella postazione nemica sarebbero state sufficienti un paio di tiri con un cannoncino da 45. Ma chi li aveva mai visti, al battaglione, i cannoncini da 45? Forse, ma solo forse, il Reggimento ne aveva nella Compagnia Comando. Così, per prendere quella postazione, lui aveva dovuto mandare a morte sicura i suoi Alpini.
Il capitano era un uomo coraggioso. Appena ricevuto l'ordine di attacco, comprese immediatamente che sarebbe andato a morire coi suoi soldati. Non provò paura, né fu preso dal panico. Ma lo straniamento che prende i morituri, il pensiero che andava alla moglie ed ai figli e l'enorme peso della responsabilità gli fecero sbagliare in pieno lo schieramento del reparto.
Così la Compagnia si allargò troppo, le ali rimasero indietro nello stretto costone ed il centro si trovò sotto il fuoco, senza riparo. Il capitano fu tra i primi a cadere.
– Siór maggiore...
La staffetta era ancora là, sugli attenti, l'elmetto sul cocuzzolo, sopra due paia di passamontagna, il 91/38 a tracolla.
Il maggiore posò il binocolo. Non c'era più nulla da vedere, se non la resa dei i suoi Alpini. Fucili buttati via e mani alzate. Mancava un'ora al tramonto e sulle creste innevate, a destra, il sole accendeva qua e là bagliori accecanti. Cominciava a fare un freddo cane.
- Che c'è ancora? - s'interpose l'aiutante.
- Non si stanno rendendo, siór maggiore. Il sergente Luciani mi ha gridato che parlava coi Grechi per ricuperare i nostri morti e i feriti.
- Non si arrendono? - il maggiore, per la prima volta, guardò direttamente il caporale staffetta. - E come ha fatto a parlare coi Greci? Conosce la lingua?
- Ha parlato un po' a mòti, siór maggiore e un po' in dialetto. C'era un Greco di Corfù che parlava veneto. Abastansa ben, per la verità.
- E i Greci hanno accettato?
- Sì. Però hanno chiesto delle sigarette e della sgnapa, e hanno buttato giù delle corde. Ci hanno dato tempo fino al tramonto. Hanno detto che ci controllano e che non facciamo scherzi. Non spareranno fin tanto che non sarà scuro. Poi, se volevamo renderci... Ma il sergente non vuole, anche se non gliel'ha detto a loro. Anzi, mi ha mandato a prendere una tuta bianca da sciatore...
- Una tuta bianca da sciatore? Non abbiamo una compagnia sciatori, in questo battaglione - disse l'aiutante.
- Ha anche detto che se non gli porto la tuta, quando che torna el me cópa.
Il maggiore sorrise sotto i baffi. Le ombre dei soldati intenti a ricuperare i corpi dei morti ed i feriti si allungavano sul costone. Tutto diventava irreale fra le due luci. I corpi dei morti furono stesi vicino ai feriti, al riparo d'una cengia, coperti da teli mimetici.
- Ce l'ho io una tuta bianca, tenente - disse il maggiore. - Se la faccia consegnare dal mio attendente, e gli dia quella.
Col favore del buio, il sergente Luciani ridispiegò a V quel che restava della Compagnia, in modo da poter fare sui Greci un minimo di fuoco di copertura, coi moschetti. Poi indossò la tuta bianca, che risultò essere abbondante, perché lui era molto piccolo ed invece il maggiore era uno grande e grosso, e cominciò a salire, da solo. Ci mise cinque ore, per percorrere sulla neve ghiacciata i centoventi metri di costone che separavano la Compagnia dalla postazione nemica.
I Greci sparacchiavano di tanto in tanto una raffica alla cieca, nel buio fitto. Il sergente Luciani arrivò quattro metri sotto di loro, dove non potevano più brandeggiargli contro le mitragliatrici. Prima di lanciare le bombe a mano, urlò al corfiota: - Greco, scanpa. Va' via! Salvete! Te daghe trei secondi. Un, doi, trei...(1)
Fu così che il Greco si salvò, con un balzo indietro nella notte. Tre secondi, qualche volta, sono più lunghi dell'eternità. Le nostre bombe a mano facevano più rumore che altro. Ma due mitraglieri greci, colpiti in pieno, morirono sul colpo col petto squarciato. Gli altri rimasero solo leggermente feriti e, sotto shock, si arresero. Il corfiota, che dirà di chiamarsi Johannes Foscolo, era ancora là, qualche passo sotto la cima. Non fece alcun tentativo di riprendere le armi, neanche quando si rese conto che il sergente Luciani era solo. Forse, anche lui, era stufo di sangue e di ammazzamenti. Di sicuro, sul prossimo valico c'era un'altra postazione, e su quello più in là un'altra ancora. Che ci pensassero loro, a fermare il nemico italiano. Lì, la loro parte l'avevano fatta. Chiuso. Lui, poi, era corfiota, cioè squasi venexian. Attese l'alba col sergente degli Alpini, aiutandolo ad assistere i feriti.
Il sergente Luciani, dopo aver fatto rapporto e sistemato i suoi uomini, si buttò in branda, ma dormì poco e male. Era ossessionato dalla visione dei commilitoni morti e feriti. E si sentiva strano ad aver ucciso due uomini, per quanto fossero nemici e responsabili della morte di molti dei suoi.
Dato che aveva comandato con successo un reparto superiore al suo grado, gli aveva detto il comandante di battaglione, s'era guadagnato una promozione sul campo. La promozione ad ufficiale.
Gli occhi fissi nell'incerta luce della tenda, pensava: io un signor ufficiale?
Rivide il film della sua vita, a cominciare da quando era rimasto orfano anche della madre, ad undici anni, ultimo di sei fratelli. Rivisse gli anni della giovinezza, trascorsi in umiliante povertà a Canale d'Agordo. Si vide a Belluno con tutta la famiglia, alla festa per la consacrazione di suo cugino prete, don Albino.
Da grande voleva fare il corridore ciclista. I fratelli e le sorelle gli avevano regalato una bici da corsa. Alla domenica partiva presto, pedalava fino a Treviso od a Padova, poi gareggiava da dilettante in una delle corse che allora si organizzavano molto frequentemente, ed a sera tornava a Canale. Minimo trecentocinquanta chilometri e, per tenersi su, due fette di polenta col formai.
I due fratelli maggiori erano negli Alpini, sottufficiali di carriera. A diciotto anni aveva fatto domanda anche lui. Quando, dopo le visite e gli esami, arrivò la risposta, appoggiò l'inseparabile bicicletta alla pila de le legne, stracciò la busta e lesse. Domanda respinta. Gli mancava un mezzo centimetro alla statura minima necessaria per fare il soldato. Pianse. Ma il fratello maggiore, che otterrà la medaglia d'argento sul fronte occidentale, riuscì in qualche modo ad aggiustare la cosa, ed egli fu ammesso al corso. Poi al Settimo Reggimento.
Si ricordò improvvisamente che proprio quel giorno, sua sorella Novella s'era finalmente sposata, a Treviso. Quasi se ne scordava. Era lei, di nove anni più vecchia, che l'aveva tirato su. Un giorno - era ancora in fasce - le era sfuggito di mano ed era rotolato per una quarantina di metri lungo le rive che il Biois aveva scavato in fondo alla valle, nel corso dei millenni. Le fece mentalmente gli auguri.

Io, un signor ufficiale? Si vide, a guerra finita, frequentare la mensa ed il circolo insieme con i colleghi che avevano studiato all'Accademia di Modena, e che avrebbero storto il naso quando, alla fatidica domanda, di che corso sei?, egli avrebbe dovuto precisare che no, non veniva da Modena, ma che veniva dai sottufficiali e che aveva guadagnato i suoi gradi sul fronte greco. E, pensò, anche se non fosse andata così, quello non era comunque il suo ambiente.
No, simili umiliazioni non le avrebbe sopportate, né voleva trascorrere la vita fuori posto. Prese la sua decisione. Il pomeriggio si mise a rapporto dal maggiore comandante e gli disse che non se ne faceva niente. Che rinunciava alla promozione, che lui aveva fatto solo il suo dovere e che stava bene dove stava.
Il maggiore aveva insistito, ed il giovane sergente Luciani gli aveva aperto l'animo. Fu così che partì la richiesta di promozione non ad ufficiale, ma ad Aiutante di Battaglia.
L'Aiutante di Battaglia è il grado più alto dei sottufficiali, e si può raggiungere solo in tempo di guerra. Significa che, quando cade il comandante dell'unità, lo sostituisce nel comando operativo chi ha quel grado, indipendentemente dagli ufficiali che possano esserci in quel momento. Il sergente maggiore Mario Luciani, a ventidue anni, fu il più giovane Aiutante di Battaglia degli Alpini. In tutto, nel corso della seconda guerra mondiale, nelle tre armi, furono fatti centocinque Aiutanti di Battaglia. In teoria, possono raggiungere il grado, per straordinari atti di valore ed attitudine al comando, perfino un graduato, od un soldato semplice.

- Anche nel nostro esercito... - confidò, scotendo il capo, Johannes Foscolo mentre, poco prima dell'alba, attendeva col sergente Luciani l'arrivo degli Alpini della IV Compagnia.
- Mi son de Corfù. E invesse de ciamarme in ftota da mar; me ganno mandà tra ste montagne...
Al momento di scendere, il sergente raccolse un fucile greco, si assicurò che fosse scarico e glielo lanciò, facendogli cenno di andarsene libero. Johannes Foscolo scese di corsa dal crinale innevato.
Fece una decina di balzi, poi si fermò, si girò, agitò la mano e gridò al sergente Luciani:
- Adìo, Alpìn! Adìo!

(1) Dialetto di Canale D’Agordo
Torna ai contenuti