Vola Bepin
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”VII EDIZIONE - Treviso, 28 ottobre 2001
Segnalato
Vola Bepin
di Roberto Masiero - Mogliano Veneto (TV)
Ero là, disteso come una pasta sfoglia appena tirata. Senza più nervo, Le mani mi aiutavano a confermare che ero vivo, riuscivo appena a muovere i polpastrelli delle dita. Ogni tanto era come se suonassi un pianoforte invisibile, una melodia afona nell’aria, tanto per muovermi, ma dovevo tenere i gomiti appoggiati al lenzuolo. Che debolezza, perdio. Mario e Andrea li sentivo vicini, non potevo più parlare, ma loro li ascoltavo che bisbigliavano. Almeno fintanto che la morfina non mi portava via.
- Pensa ti. Un armaron del genere. - Era Mario che sussurrava. Lui con Andrea, il professore, ci riusciva quasi a parlare in italiano, come per rispetto, ma poi era costretto a infilare qualche parola detta a modo suo. Guizzava vivace dentro al discorso, come un pesciolino che ha trovato giusto un buco nella rete e si getta nel suo mare. Naturale.
- Guardalo quel teston crespo. Adesso mi sembra un bambino, con quella faceta magra. Ti ricordi quando faceva l'imitazione del gorilla per far ridere i putei al campo profughi. Lui scherzava, ma a me faceva come paura lo stesso. Che forza! Era buono di tener su una macchina su due ruote con quei brassi. Lui solo, fin che i cambiava la gomma sotto. Ah, el gera un ragazzo... -
Mi feriva quel "gera". Io c'ero ancora. Ancora. E poi non c'ero proprio mai riuscito ad alzare una macchina, ma quando ci avevo provato, ammetto ero stato impressionante.
- Meno male che il Signore ha buon senso,- sentivo Andrea che diceva - gli uomini grossi Dio li fa sempre più buoni degli altri. Quasi sempre. Anche per i cani succede così. Quelli piccoli sono i più tremendi. -
Andrea, Andrea. Dunque ero come un grosso cane abbattuto. Un sanbernardo. Mi si affacciava frequentemente quest'idea di non sapere più cos'ero, in questi ultimi giorni, forse semplicemente non mi interessava cos'ero, andava bene anche essere un cane sano, probabilmente non aveva più senso pretendere di essere qualcuno in particolare. Magari questa rinuncia a essere il Beppino di prima magari era una specie di maturazione. Forse stavo per abbracciare l'infinito e non aveva senso attaccarsi ad un corpo determinato. Malato come il mio per giunta. Tra un poco so che sarei diventato qualcos'altro (ne avevo paura, ma avevo ancora più paura di non essere più niente).
- El gera un'ostia. Ti ricordi, Andrea, quando che con Bepin semo 'ndai a Sarajevo? Saranno stati tre anni che era già finita la guerra -
- Ha mollato tutto. Improvvisamente. Matto. Ha chiesto ferie al lavoro. Non era ancora estate e gli hanno fatto delle storie per lasciarlo partire. Ha detto: " ragazzi, questa è una guerra sporca, subdola. Hanno firmato la fine i capi di stato. Sulla carta è chiusa. Ma continuerà per un pezzo quella più bella. Quella che morde la gente come una bestia da dentro la testa, e quei morsi non li ferma nessun proclama. Quest'anno ad agosto non vado più a Jesolo. Le ferie le faccio prima, parto subito. C'è bisogno". Matti anche noi che siamo andati insieme.-
- Uhuu! E che baruffa con la moglie. "Ti hanno fatto rincoglionire, ti hanno stregato gli alpini. Non pensi che viene prima la tua famiglia che non gli slavi? Sei un pagliaccio, ti comporti da egoista" -
La Sara. Cara, mia moglie Sara. E' sempre così che succede. Per fare qualcosa di buono a qualcuno, c'è sempre un prezzo che paga qualcun altro. E delle volte sacrifichi proprio quelli a cui vuoi più bene. Né Mario né Andrea sanno quanto invece mi è stata vicina la mia Sara. Lei brontolava per costituzione, come un vulcano, ma poi la sera ci eravamo parlati tanto. Era lei che alla fine mi dava la forza di fare certe cose che a ragionarci troppo non convenivano, ma che erano quelle giuste. Mi lasciava fare quello che volevo, perché lo avrebbe voluto anche per sé. Sarebbe venuta via volentieri anche lei con noi, ma i figli chi li tiene ... Ricordo che ci ho scherzato su quella frase "sei un pagliaccio". Sì, sono come Francesco d'Assisi, - le ho detto, tirandola giù nel letto. - Giullare di Dio, come quello del film. "Viva la modestia", aveva detto lei, dopo che mi aveva stampato uno schiaffo in faccia che era come un bacio, il pegno della riconciliazione. “Ricordati che sei solo il mio pagliaccio, lascia stare i santi. I santi non vanno a ombre di prosecco per i bar”. E dopo avevamo fatto l’amore. Da innamorati.
- Guardalo, Andrea, el nostro Bepin, con 'sto teston crespo, quieto sulla federa. Mi aspetterei di sentirlo canonar di colpo con la sua voce, dire che è stato tutto uno scherzo el so patire, sentirlo attaccare La barbera e col deo da direttore d'orchestra farne segno de cantare insieme... Madonna, tutto è niente, se dopo dovevo finire così- Mario lo diceva con mestizia.
- No, no - disse Andrea calmo, scuotendo la testa - non dobbiamo mai permettere che la paura del futuro, o l'incertezza, ci rubi il gusto del nostro bel passato. Semmai dobbiamo avere rimpianto solo delle cose inutili che non abbiamo saputo scartare. -
Cazzo che parole. Mario, il professore, ci stupiva sempre così, parlava un po' da filosofo. Mario era più semplice, non capiva sempre tutto quello che l'altro intendeva dire, però ne captava la saggezza a senso. Mario era il cuore del nostro terzetto. lo sono... anzi io ero la forza. Un po' anche l'entusiasmo. Certo mi sentivo più robusto di ora che tendevo l'udito a fatica, mi sosteneva debolmente la mia forza, ma la mente rispondeva incredibilmente lucida. Ora mi ostinavo a mantenere il contatto con un mondo che mi appariva di minuto in minuto più lontano, non estraneo, ma come ovattato e in qualche modo forse per questo anche più comprensibile, eppure sfuggente. Mi sentivo attratto sempre più verso me stesso. Implodevo piano piano. Come annullato progressivamente nel mio io, neanche nel corpo, in qualcos'altro di più profondo anche della coscienza. E al contrario avvertivo come se il mio spirito dilatasse a dismisura. Verso Mario, e Andrea, ed anche Sara che ora non stava qui perché doveva accompagnare i ragazzi a scuola e dopo sarebbe tornata con le occhiaie a tenermi la mano. Sorridente. Io li sentivo presenti in me questi amici, questi alpini e soprattutto mia moglie. Così diversi da me e proprio per questo più cari.
- Quando xe finio Bepin, xe finii anche i alpini. Par che sia un segno del destino - diceva Mario. Lui ci vedeva sempre un significato simbolico definitivo in tutte le cose che lo emozionavano. - Sta volando via tutto come la polvere, in un soffio di vento. Tra un po' dei alpini non resterà più niente. Resteranno i cappelli per vestirsi a carnevale. -
- Pazienza. Già, ci soffiano via. Un granello alla volta, così non se ne accorgerà quasi nessuno. - confermò pacatamente Andrea. - Anche noi, già. Come è successo per i muli. Ci hanno pensato un niente a farli fuori. Pazienza. Hanno fatto valutare tutto agli strateghi. Sicuramente con la consulenza dei ragionieri. Bel punto di vista quello dei ragionieri. Loro i muli li hanno visti subito che scalciavano sul bilancio. Inutili. Via i muli e dopo chissà. Via come inutile anche tutto il corpo degli alpini. Tanto ci sono i satelliti a far la guardia sulle montagne. Così trasmetteranno anche la musica stereo con i cori virtuali. Sarà un caso, caro Mario, ma uno di quegli aggeggi elettronici lassù in cielo si chiama proprio SAT - aggiunse Andrea, con quella sua sottile vena di buon umore che non lo lasciava mai, anche quando diceva cose tristi. Poi disse serio:- Un giorno ho accompagnato mio nipote al cinema. A vedere La storia infinita. Ecco, c'era a un certo punto un mostro che avanzava. Era il Niente. Come passava frantumava tutte le cose fantastiche che incontrava. Gnomi, animali, fantasia. Era la Disgregazione. Non vorrei esagerare, ma sta succedendo un po' questo agli alpini. Sta avanzando verso di noi il Niente. Non c'è ferocia, solo insensibilità. Matematica, principio di utilità, efficienza organizzativa. Bah! Come se Dio avesse fatto che so i colori dei fiori pensando ogni volta a quanto costavano. -
- Bravo Andrea. - disse Mario. - Però, sinceramente, delle volte mi domando se non siamo, ecco... nostalgici. O esagerati. Digo, a tègner così tanto al nostro corpo. In fondo con le bandiere e le parate, le canson de guera, rischiamo di tener vive anche certe cose. Cose brutte, dico. Di quelle che fanno male alla. gente e la tien divisa. Amici de qua, nemici de là. Non so. Non so, se sia proprio tuto giusto. Ci pensi mai?-
Non sentii la risposta di Andrea, forse non c'era stata. Un torpore potentissimo intanto mi assaliva, dovevo pensare al mio di corpo, provavo come una spossatezza e un languore spiacevole. Sentivo sopra di me il peso di quel Niente che aveva evocato il professore. Mi sentivo trascinato in un vortice di buio, sentivo che perdevo conoscenza...
- Dai bocia! Su, teston crespo. Alzate, 'ndemo. - Era Mario che mi chiamava. Chissà quanto tempo era trascorso. Stranamente mi sentivo bene. Quanto avevo dormito? Avevo ancora la mia forza intatta, come se la febbre, invece di abbattermi mi avesse rigenerato.
- Dove andiamo ? – chiesi.
- Prendi, che partiamo - insistette Andrea con fermezza, allungandomi il cappello. Notai spiacevolmente che aveva la penna spezzata. Un moncherino.
- Non posso venire via così, - dissi. - Non posso. - Non mi riferivo tanto al fatto che ero in pigiama, di quello me ne fregava meno di niente.
- Con questo pigiama a righe sei vestito da pagliaccio, dovrebbe piacerti, no? - Ribatté sorridendo dolcemente la mia Sara, che era ritornata e mi leggeva nel pensiero. Intanto mi aveva preso per mano, aiutandomi a scendere dal letto.
- Hai ragione, teston crespo - disse Mario. - Dai Andrea! Sistemagli quella penna rotta sul cappello. -
Il professore fece una espressione garbatamente remissiva con la bocca, reclinò lievemente il capo, poi girò lentamente la schiena verso di me. - Scegli la più bella - disse. Io restai di stuccò. Tra le sue scapole si ergeva imponente un paio di ali, nerissime. Quasi sproporzionate sulla figurina di Andrea, che quasi dondolava.
- Ma tu sei un angelo! - dissi ammirato. Lui mi guardò, strizzando gli occhi divertito da sotto le lenti rotonde degli occhiali. Con delicatezza gli spiccai una penna. Era bellissima. Una remigante non troppo lunga. Andrea disse appena ahi. Ora scorsi che anche Mario aveva le sue ali. Nere. Applicai la mia penna nuova e lucida sul cappello. Da bambino ero convinto che le penne degli alpini fossero d'aquila. Questa era sicuramente più rara.
- Credevo che le ali degli angeli fossero bianche - borbottai.
- I alpini ga queste e'deve bastare, teston crespo. - disse Mario, battendone su una spalla. Solo Sara indossava due alucce chiare, ma fatte più che altro di piume.
Lei da una parte e Mario dall'altra, tenendomi per mano mi condussero davanti alla finestra aperta. Volammo fuori. Andrea stava davanti e ci guidava per il cielo.
- Dove stiamo andando?- urlai forte per il vento che ci soffiava contro. Non era fastidioso. Era aria pura, frizzante e non avevo alcun freddo.
- A Sarajevo - mi rispose Sara eccitata. - E vengo anch'io! - Lo diceva con fermezza, quasi come per un capriccio.
Subito mi accorsi che il nostro era un volare curioso. In effetti non eravamo saliti tanto in alto, anche se la sensazione era quella. Più che altro non toccavamo terra con i piedi, ma ci muovevamo avanzando senza fatica, come se fossimo saliti su una scala mobile, invisibile e orizzontale, a pochi metri da terra e aiutassimo il movimento del nastro, facendo solo qualche passo per andare ancora più veloci. Era una camminata stupenda. Sotto di noi passava la campagna coltivata e poi i villaggi. Coglievamo quel brulicare di attività, trattori coi carri carichi di mais che dondolavano grassi, uomini indaffarati, biciclette, imbianchini che a modo loro ripulivano il mondo con la tinta bianca, solo bianca, donne che lavavano i vetri e avevano anche il tempo di innaffiare i fiori sui davanzali e fischiavano, vecchi che sostavano davanti alle porte, seduti e con le mani sovrapposte al manico del bastone. Apparentemente rilassate. Mani pronte a sollevarlo con energia come uno scettro, quel bastone. Guardai Mario soddisfatto: quella era vita!
Ecco che più avanti ci apparve un bambino. Io non lo avevo riconosciuto subito, ma lui già da lontano ci salutava. Lanciava allegramente i pugnetti in alto, alzava le braccine in segno di vittoria.
- Bravo Josip! - gli gridai passando. - Ci sei riuscito. Sei un campione! - La prima volta che ero venuto a Sarajevo mi aveva fatto vergognare con quei suoi occhi neri da bestiola. Così assenti. Non poteva farsene niente del regalo che gli avevo portato. lo non sapevo. Figurarsi: un pallone. Per via di quella gambetta che mancava. Ora era contento col suo Subbuteo verde davanti, che gli avevo spedito dopo - l'idea di quel gioco era stata della mia Sara - per farlo almeno sognare di diventare un campione. I bambini senza sogni non crescono abbastanza.
In pochi attimi Josip era sparito dalla nostra vista, ma mi portavo dentro un piacere misto a nostalgia.
- Fermiamoci da qualche parte, Andrea - pregai. Non ero stanco, avevo solo voglia di godermi quel posto.
Ci sedemmo in cerchio sopra ai sassi. Sotto di noi scorreva la Miljacka e l'acqua nel fiume rifletteva una luce quasi adamantina, ma non fredda. Era per così dire una luce pulita. Quella trasparenza quasi irreale era mitigata dal verde scomposto delle erbe e dalle inflorescenze, più che altro botton d'oro gialli e borragine, sparpagliate qua e là sulle rive. Talvolta qualche onda falsa restituiva l'abbaglio del sole, come per significare che la sua presenza era ovunque e non solo nel disco rosso lontano lassù in alto.
- Vedete là in fondo quella punta aguzza che pare quella di un missile ?- disse a un certo punto Andrea, indicando con il dito verso la città vicina. - Guardate quel minareto più alto. Là c'è la moschea del Bey Gazi. E'un gioiello mussulmano. Più avanti c'è la cattedrale ortodossa dei santissimi Arcangeli e dopo, nascosta tra le case, ancora un'altra moschea. E poi viene l'antica sinagoga, che oggi è un museo e conserva intatta la saggezza degli ebrei e poi c'è la chiesa cattolica e ancora altre moschee. Per cinquecento anni qui è sempre vissuta tanta gente diversa: si mescolava continuamente, ogni tanto arrivava qualcuno da fuori, faceva affari mescolato e si sposava mescolato. Era inutile domandarsi perché uno era diverso da un altro. Era così e basta, c'erano altre cose a cui pensare, i problemi di tutti i giorni. Come procurarsi il pane. Un giorno è arrivata la guerra, con la sua stupida coerenza. E' successo qualcosa di assurdo. Come in quella storia della Bibbia, quando Adamo ed Eva, dopo la scorpacciata di mele, si sono accorti che erano nudi e che questa cosa naturale doveva essere vergogna. Ecco, questa guerra è stata proprio un'idea del serpente. Gli uomini della stessa comunità non si sopportavano più. Era finito l'eden - A quel punto Andrea tirò fuori dal taschino della camicia un foglietto e continuò:- c'è un poeta, Osti si chiama. Parla della sua classe di scuola. Quei ragazzi. Prima stavano insieme a tirarsi gli aeroplanini di carta. Anche loro travolti da questa ubriacatura di malvagità, questa guerra insensata: " chi è stato ucciso, scannato, violentato, derubato, deportato nei lager-chi è stato torturato dalla mano del compagno di scuola- la nostra classe si è trasformata in un'altra classe morta-
Istintivamente presi per mano la mia Sara e la tirai verso di me come per proteggerla non so da che.
Mario rifletteva. A me tornava in mente la lettera di quel bambino italiano che aveva scritto alla sua amichetta bosniaca del campo profughi. Diceva solo: "Io penso sempre se dovesse venire la guerra a Milano e se venisse io me ne scapperei, però so che è difficile."
Ero scosso e proprio allora cominciai a chiedermi perché eravamo lì, nuovamente a Sarajevo e perché mai avvertissi come un legame sottinteso, inesprimibile eppure forte, che univa i miei amici a me e a quella città straniera.
Mentre ero assorto in quei pensieri, vidi che sulla sponda venivano verso di noi, avanzavano quasi danzando, due ragazzi. Lui teneva la sua ragazza allacciata per la vita e si capiva che scherzavano. Quando ci furono vicini e finalmente potei osservarli bene in viso, restai affascinato: lei era Kaja. Ah, se me la ricordavo bene in quei giorni trascorsi al campo. Allora lei stava sempre defilata. Non potevo più dimenticare lo sguardo di sfida e insieme di rassegnazione rabbiosa, con cui Kaja guardava sempre gli uomini, tutti i maschi, dopo quell'incubo sporco. Seppi che le avevano fatto di tutto i soldati e dopo aveva dovuto anche fargli la polenta, perché le avevano risparmiato la vita. Io l'avevo avvicinata, a poco a poco. Mi faceva compassione. Tentavo di rubarle il cenno di un sorriso. Così le regalavo piccole cose, le tendevo che so, un pacco di biscotti o una forcina per i capelli, ma a di stanza perché non sospettasse di niente. Dopo qualche tempo si era lasciata avvicinare, come un animale selvatico che prende confidenza, ma ha sempre quegli occhi tremuli, umidi e pieni di tensione. Più avanti riuscimmo anche a parlarci, più che altro a gesti. Arrivammo al punto di mostrarci vicendevolmente le foto di casa. Una la maneggiava come fosse di cristallo: non avrebbe potuto farne altre con sua madre. Era stato bello quella notte di maggio, quando con i miei amici alpini avevamo organizzato la festa nel tendone e incrociavamo le canzoni bosniache coi nostri cori. Mi mandò in estasi vederla che si era seduta per terra, proprio davanti alla mia sedia, con la schiena appoggiata alle mie ginocchia. Spontaneamente. Ricordo che ad un certo punto l'avevo perfino accarezzata sui capelli e le avevo aggiustato lo scialle sulle spalle. Dovetti pensare forte a mia moglie lontana, per non lasciarmi trascinare dall'affetto che stava quasi per traboccare...
- Questo è mio fratello italiano - disse Kaja al suo ragazzo, quando furono presso di noi. Lui fece appena un cenno di riverenza col capo. Lei mi sfiorò la guancia con la sua mano bruna di ragazza rom. Proseguirono quasi danzando.
- Ecco, ecco!- sbottò a dire Mario improvvisamente, che sembrava un' eureka ho trovato.
- Ecco che cosa? - chiesi.
- Lo spirito alpino - disse lui, senza sprecare altre spiegazioni.
-Che cos'è, un fantasma? - scherzò ridendo Sara.
Forse era proprio un fantasma, uno spirito buono. Una fata impalpabile che cercavamo di avvicinare. Andrea, più furbo che angelo, strizzava i suoi occhietti. Era contento che Mario avesse intuito. Anche per me ora era tutto chiaro. Niente, meglio di quella città schizofrenica, di quella gente perdente e maledetta dalla sorte, poteva testimoniare per contrasto quali erano i valori a cui dovevamo inesorabilmente tendere. Senza illusioni, da uomini normali. Da Non Eroi.
- Certo - disse Andrea, come continuando un discorso iniziato chissà quando, - anche tra di noi alpini si annidano individui che domani potrebbero perfino diventare dei persecutori. O magari restare in agguato dietro le quinte, protetti da questo cappello che garantisce per tutti. E' avvenuto così anche a Sarajevo. Delle volte solo le circostanze rivelano la natura malvagia di certi uomini, che altrimenti rimarrebbe latente. Inoffensiva. - Riflettei: mi consolava il pensiero che noi alpini eravamo una moltitudine così ricca di caratteri. Di gente giovane ed anche anziana giunta per strade diverse. Gente che viveva nel mondo chi da idraulico, chi da postino, chi da ingegnere, chi da insegnante e con pochi grilli. Grazie a dio non eravamo una schiera di soldati scelti apposta per combattere.
- Noi siamo una formidabile armata Brancaleone. - azzardai.
-Par mi semo come una cordata - disse meglio Mario. - Ogni tanto qualchedun a turno, come quasi per caso, tira più forte el so tocheto di corda. La so spinta ne trascina tutti un po' più in alto.
- Ecco - disse Andrea - proprio questo. Ci si aiuta senza saperlo a sconfiggere l'altro che è sepolto vivo in ogni uno di noi. Quell'altro essere meno bello, quel mister Hyde egoista. Lavorando insieme per il bene si addormenta quel mostro malefico. Gli alpini veri sono nemici della guerra. Se la ricordano, eccome. Ma soltanto come memoria nei canti. Per il rispetto dei vecchi che l'hanno sofferta sulla pelle.-
Sara mi cinse le braccia al collo con affetto e mi guardò intensamente. Mi teneva vicino, vorrei dire con orgoglio.
- Finché ci sono in giro pagliacci come te, non c'è da aver paura dello spirito alpino - disse la mia donna. - Quelli che amano senza egoismo la propria terra e la condividono. Quelli che donano il sangue per le trasfusioni, quelli che vanno a piantare le tende e preparano una minestra per i terremotati. Quei pagliacci che amano la musica. Quelli che rifanno il tetto alle case delle madonnine sperdute in montagna... –
- Andiamo, si fa tardi. Che se lasci parlare le donne... - disse Mario, mentre sbatteva un colpo di ali impaziente e intanto si passava un fazzoletto sugli occhi.
- Andiamo, - approvò Andrea.
Ci alzammo in volo, con quello strano modo di volare che avevamo. Sotto di noi, mentre attraversavamo la città, riconoscemmo tante facce di donne, di giovanotti che avevamo incontrato tanto tempo prima. Loro tendevano il braccio verso di noi e ci invitavano a scendere, ma noi avevamo fretta. Curiosamente, notai che in mezzo a tutta quella gente circolavano indisturbate decine e decine di animali. Non solo c'erano i soliti gatti indifferenti e i soliti cani che scodinzolano per niente, ma gruppi di antilopi che saltavano eleganti in mezzo ai banchi del mercato. Zebre che sostavano impigrite dal caldo sotto ai tigli. Sedute sulle panchine riposavano al fresco giovani madri, ognuna orgogliosa con la propria carrozzina nuova davanti. Si vedevano perfino degli elefanti che vagabondavano qua e là per le strade, con il loro carico di bambini in groppa: monelli, chiassosi come sopra ad una giostra. E le auto non erano infastidite da quell'andare pacioso che ogni tanto rallentava il traffico. Scorgevo anche alcune leonesse. Stavano accucciate buone buone davanti alle porte delle case e si strofinavano il muso contro le mani dei vecchi. Tutto intorno c'era un'atmosfera di letizia, come per un'epifania insperata e le bambine giocavano a campana con le foche. Noi salivamo sempre più in alto, ero sorretto senza sforzo soltanto dalla mia Sara, che pure mi teneva appena per mano come se fossi il suo piccolo. Arrivammo in vetta alla montagna che il sole era giusto appena tramontato. Si spandeva ancora intorno quella luce riflessa, ormai assolutamente bianca, che rendeva ancora più intenso il candore delle chiazze di neve sul prato e più nere e insignificanti tutte le altre cose. Nel cielo si proiettava appena la sagoma di qualche stella più impaziente di brillare per prima.
- Ora riposati un poco, - mi disse la mia Sara, mentre mi stringeva forte la mano. Avevo molto sonno e il cuore era stracolmo di dolcezza. Mi pareva di udire come un suono modulato che proveniva dalla valle, più sotto. A poco a poco la riconobbi: era quella canzone insinuante. Non potevo mai ascoltarla fino in fondo senza provare un'emozione disarmante. Ancora ancora avrei potuto sopportare le parole, ma la musica no. No. Dio del cielo possa farti pagare quello che meriti, per aver scritto questa musica struggente, incantatore di un Bepi De Marzi.
- Piangi pure - mi disse dolcemente Mario. - 1 omeni ,pianse e i ride. - Io mi sentivo bene, anche così commosso.
- Voglio mettermi qui, più vicino alla neve - dissi coricandomi sull'erba.
Forse il disco della luna lassù era tutto forato, perché ovunque spandeva una luce liquida, bianchissima. Avvolgente. Chiusi gli occhi e tutto era ancora così chiaro. Era bellissimo.