Voglio sentire la neve
Tutte le edizioni > Edizione27
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXVII EDIZIONE Arcade, 8 gennaio 2022
Segnalato
Voglio sentire la neve
di Cristina Maria Lora - Valdagno (VI)
Colmo era il
bisogno di tornare quassù. Sapevo di incontrare la neve su questo sasso, sul
nostro sasso.
Ne sentivo il
profumo tra i cuscini di casa, quando il sapore della cima mi faceva ancora
solo compagnia.
Aveva
nevicato molto quella notte senza segno di cedimento. La neve copiosa aveva
trasformato la sagoma di ogni altura in un morbido fianco che la montagna
mostrava alla valle.
Era dicembre,
quella parte di dicembre che ancora apparteneva all’autunno. Era il giorno
dell’Immacolata Concezione.
Tutto
lasciava presagire ad un continuo avvicendarsi di fiocchi che avrebbero
condotto il giorno a sera.
Il richiamo
di ciò che sentivo accadere là, fuori dalla mia finestra, diventava sempre più
forte.
I boschi, gli
alberi, il giallo e il ruggine che tingevano ogni foglia; il bianco e il grigio
del cielo, tutti i fiocchi di neve mi appartenevano.
Preparai lo
zaino, allacciai gli scarponi, infilai le ghette e partii, con gli stessi occhi
lucidi di felicità di quando contavo i miei anni su una mano, mentre nell'altra
stringevo papà.
La sentivo
ancora quella mano sicura e buona serrata alla mia, anche in quel giorno che
bambina più non ero. La sentivo in tutta la sua forza che mi conduceva lungo
quei sentieri verso la cima. La ricordavo in quell’amore che mi cingeva quando
ero briciole di vita.
Camminavo a
passo spedito, desiderosa di raggiungere il nostro punto di osservazione. La
neve era alta, procedevo a fatica sprofondando ad ogni avanzare. Incedevano le
mie gambe, saltavano lungo i boschi che papà mi aveva insegnato ad osservare,
accarezzando qua e là qualche albero amico; annusando il profumo della
corteccia inumidita dalla neve; aggrappandomi ai rami per far cadere sulle mie
guance rosse piccoli e delicati fiocchi sospesi.
Continuavo a
salire e mentre salivo provavo compassione per quegli alberi abortiti dalla
terra, ceduti al vento della tempesta Vaia, come corpi inermi che giacevano
sepolti nel manto innevato dello Zebio. Schegge, radici, rami ingarbugliati era
ciò che restava di quei guardiani della valle e della gente, sconfitti come
soldati da un nemico che li aveva colpiti a tradimento in quel violento giorno
d'autunno, mettendo in ginocchio la vita di un popolo.
Alzai lo
sguardo catturata dai loro occhi che silenziosi mi chiedevano di narrare la
loro storia.
Quante volte
mi ero seduta sotto le fronde di quegli alberi per amarne il fresco dell’ombra
estiva; quante volte ne avevo apprezzato il profumo della resina; quante volte
avevo accarezzato le loro radici che, salde nel terreno, mai avrebbero
immaginato la loro fragilità.
Fermai il mio
cammino.
Mi sedetti.
Continuava a
nevicare. Il vento spirava. Il silenzio dava voce alla tristezza di ciò che mi
circondava.
Mi avvicinai.
Accarezzai le
schegge frastagliate di un larice, mentre mi raccontavano di lui. Come amavo
spesso fare, mi lasciai ispirare dalla mia montagna. Sfilai dallo zaino il mio
taccuino e cedetti la mia penna alle mani del loro pianto:
ERO ALBERO
A te viandante che accarezzi la terra con i tuoi
passi
a te che nel silenzio del cielo posi il tuo
sguardo sulle mie ferite
a te che con le dita odori il mio sangue
semina gioia per ogni anello che ti ho regalato
porta cordoglio per il mio corpo spezzato
piangi il dolore dei miei piedi strappati
Affido a te ogni mia cicatrice
Custodiscila nelle tasche del tuo zaino
Consegnala all'uomo
Falla entrare in ogni casa
Falla viaggiare in ogni auto
Scrivila tra le pagine di un libro
Raccontala ai tuoi figli e ai tuoi nipoti
e ancora
a chi divide il cammino con te
Riscaldati con il mio fuoco quando il gelo
dell'inverno coprirà il mio ricordo
Accarezzami tra le assi del tuo letto
Suonami tra le corde di un violino
Contemplami in un'opera d'arte
Nella voce del silenzio ascolta il mio ultimo
bacio ai miei fratelli superstiti
guardiani dei tuoi monti
delle tue valli
della tua gente
Abbi cura della loro fragilità
Impara la loro forza
Sorreggiti ai loro rami
Vestiti delle loro foglie
Aggrappati alle loro radici
Nutri i cuori dell'umanità con il loro amore
Proteggi la terra sulla quale hanno piantato la
loro àncora
A te viandante
affido gli anelli di ogni mio figlio
Avvolgine il mondo
Trasalii.
La
suggestione di quelle parole era intensa. Mi sentivo addosso tutta la fragilità
che un tempo aveva devastato il mio corpo accasciato, privo di forze. Molte
erano le affinità con quella terra di vite strappate.
Ripartii.
Iniziai a
correre.
Caddi più
volte.
Mi rialzai.
Nevicava
sempre di più, ma la voglia di arrivare su questo sasso si faceva pressante.
Raggiunsi il
Monte Mosciagh.
Il vento mi
portava tutto il silenzio delle tante croci dei cimiteri della Grande Guerra,
simboli di vite spezzate, cedute alla morte, come gli alberi del Vaia; come la
mia adolescenza, ad un passo dal salutare la vita, ad un passo dallo scegliere
la vita.
Scorsi, nella
piana a fianco alle lapidi, il nostro sasso. Un tronco abbandonato lo copriva
in parte assieme alla neve. Aspettava me.
Lo raggiunsi.
Mi sedetti.
Il cuore mi
batteva nel petto e tra le tempie.
Il respiro
era carico di emozione.
Chiusi gli
occhi con l’immagine di quegli alberi atterrati ad inumidire di lacrime le mie
ciglia, con le labbra serrate in un lieve tremolio che sapeva di pianto per
quei nomi, per quelle date incisi sulla pietra.
Ritornai ai
miei quattordici anni, mi sentivo addosso il vuoto di quel mio corpo rapito
dall’anoressia che mi segregava ad una vita in sordina. Ad una vita così debole
e apatica da non avere più gambe per sorreggere il mio cuore, fragile come i
tronchi del Vaia, privo di radici solide. Una fragilità che non avrebbe retto a
quel vento forte che sentivo sarebbe arrivato, all’improvviso, e che mi avrebbe
spazzata via.
Giunse quel
vento anche per me, inaffrontabile come il Vaia, troppo irruento per quel che
rimaneva di me: ossa ricoperte di pelle, appoggiate su piedi che barcollavano
nel sorreggere le mie gracili gambe, incapaci di affrontare il sentiero, di
arrivare alla cima. Tentai più volte di raggiungerla. Caddi ripetutamente,
priva di forze. Più volte mi rialzai, ma il mio corpo era ormai un tronco
rinsecchito, vecchio e ammalato. Anelavo la vetta, rendendomi conto che da essa
mi stavo allontanando sempre di più, finché, vinta, mi arresi.
Soffrivo.
Relegata alla mia stanza, soffocavo.
Mi mancava la
mia montagna, la sua gente buona e laboriosa che accompagnava al pascolo le
mucche, che ripuliva i boschi, che non si curava delle mani callose mentre
impugnava il manico di una scure. Mi apparteneva questa montagna ed io
appartenevo a lei, ma non avevo più la forza di quelle guance variopinte che
essa dona a chi la ama.
Non riuscivo
più a viverla, non riuscivo più a sentire il profumo degli alberi. Non riuscivo
più a sentire l’odore delle stagioni, non avvertivo più l’emozione del suo
richiamo. Ero sepolta in me stessa come i corpi sotto a quelle croci tra le
quali sibilava il vento e che tra quelle rocce avevano perso la vita.
Mi mancava la
mia montagna e papà lo sentiva, consapevole che lei sarebbe stato l'unico
appiglio per risvegliare in me quella voglia di vivere che non trovavo più.
Papà sapeva
che amavo la neve, sapeva che sognavo il bosco, la cima, il nostro sasso.
Era un giorno
d’inverno.
Mi prese tra
l’amore delle sue braccia, mi sollevò da terra con la forza del vento. Quella
forza che aveva sradicato dalla vita gli alberi ora stava sradicando dalla
morte me.
Mi sorresse
lungo il sentiero e mi portò quassù, sul nostro sasso.
Mi appoggiò
sulla neve.
Sentivo il freddo,
tutto quel freddo che il mio corpo non riusciva più a riscaldare.
Papà mi
avvolse nel tepore di un abbraccio.
Dallo zaino
sfilò una borraccia di tè bollente. Il suo profumo, il suo aroma ricco di
limone e di sapore di api si confusero con il freddo dell’aria. Era buono. Era
da tanto tempo che non annusavo qualcosa che mi ricordasse le nostre uscite
invernali.
Papà riempì
la tazza, ne bevve un sorso, mi guardò e mi chiese:
- Hai freddo?
- Sì -
risposi.
- Questo ti
riscalderà se ne vuoi - mi disse proponendomi la tazza.
Ero
combattuta tra quello specchio maledetto al quale davo retta e l’amore di
questa montagna che voleva ancora una volta sbirciare il mio sorriso confuso
tra i fili d’erba, evaporare nel freddo della neve, sfumare tra i raggi del
sole, ispirare quelle emozioni che ben sapevo tradurre in parole tra le pagine
del taccuino che avevo sempre con me.
Strinsi la
mano di papà, avvicinai alle labbra la tazza e bevvi un sorso di quel tè dal
sapore ricco di ricordi felici.
Mi sentivo
svenire, forse per la debolezza, forse per l’emozione.
Papà mi prese
sulle sue ginocchia e, come quando ero bambina, mi narrò delle nostre
escursioni. Poi guardò le lapidi e le croci.
Ci alzammo e,
una ad una, andammo a leggere le incisioni. Nomi sconosciuti, uomini, giovani
che per difendere la loro terra ad essa avevano ceduto il loro ultimo respiro.
Papà prese
dalla tasca il mio taccuino, lo aveva portato con sè. Lo aprì e, guardandomi,
disse:
- Ricordi? L’hai scritta tu. Ami scrivere. E’ da tanto che non lo
fai, questa l’hai composta l’ultima estate in cui siamo venuti quassù. L’hai
dedicata a queste vite spezzate, per le quali hai sempre provato forte
compassione e dolore. E’ un inno alla vita che non c’è più. Tu puoi ancora
scegliere. Loro no.
Il mio cuore
stava tremando.
Papà iniziò a
leggere:
NEL SILENZIO SOFFIA LA TUA VITA
Riposa uomo tra il silenzio di questi fili d'erba
che narrano di te
ignoto soldato
Non ha colori la tua bandiera
Non hanno idiomi i tuoi verbi
Sei membra vinte da una baionetta che parla di un
comando
Volano il falco e l'aquila silenti e fedeli
ambasciatori del tuo ricordo
Dei tuoi occhi
custoditi tra il bianco e il nero di una
fotografia
Delle tue risate amiche
nei brindisi festosi sotto le pergole nelle notti
d'estate
Delle tue mani
delicate carezze sui capelli bianchi di chi ti ha
reso figlio
Delle tue parole d'amore
per chi di te porta la fede appesa al cuore
Della tua buonanotte
tra coccole e baci ninnati da bambole di pezza
nel dondolio di una candela
Del grido della tua rabbia
per una voce zittita nel tuo ultimo respiro
Gocce di neve lente e cristalline parlano del
gelo che sigilla il tuo sangue
Fiori selvatici dipingono il sorriso del tuo
canto tra gli abeti
Petalo di soffione adorni dei tuoi figli il primo
giorno di scuola
Grida forte il vento verso valle portando
nell'aria il tuo sospiro
Una lacrima si alza in volo dolcemente sorretta
dal becco di una colomba
Uno squillo di tromba onora il dolore della
ruggine che tinge il tuo sacrificio
Riposa soldato quassù
dove il silenzio si fa pesante sulla terra sotto
il tonfo del tuo corpo
Riposa uomo quassù
dove il silenzio si fa leggero tra l'aria che
emana il profumo della tua anima
Il bosco
tacque. Scoppiai in un pianto incessante. Sentivo che la mia vita stava per andarsene,
che mi stava tradendo, o che forse io stavo tradendo lei; quella stessa vita
che quei soldati avrebbero voluto tenere stretta tra le mani e viverla.
Ero a terra,
assieme a loro, parte di quell’urlo che li aveva ceduti al silenzio.
Mi aggrappai
a papà, piansi di un pianto disperato. Papà lasciò ad ogni mia lacrima il tempo
di cadere, di sciogliere quel gelo che stava ibernando la mia voglia di
esistere, come avvolgeva il pianoro.
Passarono i
minuti. Il silenzio era sempre più forte, il freddo pure. Il cielo stava
volgendo all'imbrunire. Strappai il foglio. Lo donai al nome di una croce.
Guardai papà:
- Ti prego
papà aiutami. Aiutami a non morire. Voglio tornare quassù, rivedere la neve,
sentire che mi sfiora la pelle, che mi entra nelle scarpe, che mi bagna i
capelli, che mi fa gocciolare il naso e lacrimare gli occhi. Voglio annusare la
resina nel caldo dell’estate, assaporare il profumo dei fiori selvatici e
sentire il cielo annunciato dal falco e dall’aquila, incontrando Giuseppe
mentre porta al pascolo la mandria e Pietro mentre taglia la legna. Voglio
sedermi accanto a loro per farmi raccontare della stagione.
Ricordo il
tepore dell’abbraccio di papà tra le lacrime di entrambi nel candore di un
pomeriggio d’inverno.
Fu un lungo
inverno, forse il più lungo della mia vita, sofferto tra l’ago di una bilancia
che frenava le mie forze e la voglia di non perdere quella simbiosi con la mia
montagna che papà mi aveva trasmesso e che mi stava ricordando attraverso i
suoi alberi, i suoi silenzi, le sue croci, il mandriano e il boscaiolo; assieme
alle sue stagioni, al suo germogliare vita che io stavo dimenticando.
Ritornammo
giorno dopo giorno, prima a fatica, poi con le guance sempre più tinte di
rosso, su questo sasso, per rivivere quelle vite di soldati, uomini e alberi,
vittime di un destino crudele; per celebrare attraverso il sapore di quell'aria
la bellezza della vita, semplice.
Cercammo
altri sassi dai quali ascoltare la neve, risvegliare l'alba, sorridere alle
stelle alpine, scorgere il rosso delle caruncole di un gallo forcello; sui
quali aspettare il fiorire della primavera e il tramontare dell'autunno.
Ritornai a
sentire che le mie radici erano parte di questa terra.
La luna è
splendida in questa sera di agosto nel cielo che sovrasta l’Altopiano di
Asiago. Sono su questo sasso, ancora una volta con il mio taccuino ad appuntare
le stelle, la vita; a tracciare un pensiero per papà, complice di queste cime
in un enorme atto di amore verso quella che per loro era e sarà sempre figlia.
Sono quassù a
scrivere parole sincere per loro:
LA MIA MONTAGNA
Se il sole
smettesse di ardere e il giorno si confondesse con la notte ti cercherei
inseguendo i tuoi profumi
L'umido della
pioggia d'altura che odora di mughi e di resina
Il respiro
dell'aria nel verde e nel rosa dei rododendri
Ascolterei il
richiamo delle pietre mosse dalla punta di una piccozza
Presterei il
mio orecchio al vento per catturare il fischio di una marmotta
Accarezzerei
il bianco di una stella alpina tra gli appigli di una parete
Mi lascerei
abbagliare dall'oro dei bottoni che brillano sui tuoi fianchi
Rincorrerei
il candore tra gli occhi di un camoscio
E se il mio
olfatto e il mio udito scivolassero via
e se i miei
occhi fossero rapiti dalla nebbia
mi chinerei
sulle ginocchia
per mano dalla
ghiaia mi farei guidare lungo le tue vie
E se le mie
mani mi fossero amputate
a piedi nudi
callo dopo callo salirei sulle tue cime
scavalcherei
i tuoi picchi
consolerei i
miei lividi sui tuoi ghiacciai
Da lassù
con il fiato
rimasto
desterei la valle
soffierei
sulle braci ancora vive nei camini
riaccenderei
ogni fuoco
fino ad illuminare il cielo per farti risplendere tra il giorno e la
notte