Una portatrice
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Primo classificato
Una portatrice
1918-2018: in memoriam
di Gabriella Brumat - Turriaco (GO)
Arrivarono alla sosta. Si appoggiarono ai massi che sembravano messi là apposta da misteriose, benevole creature del bosco a conforto delle povere donne sempre cariche come muli; non si tolsero le gerle dalle spalle, sarebbe stata fatica sprecata; ne scaricarono il peso appoggiando il fondo sul masso. La vita grama della montagna aveva insegnato loro come concedere un po’ di ristoro alle membra, risparmiando tempo prezioso.
Tirarono fuori la borraccia e bevvero avidamente. Anche se il sentiero s’inerpicava per un buon tratto nel bosco, all’ombra, le portatrici erano in un bagno di sudore, con la bocca secca. Durante la scalata evitavano di parlare per risparmiare il fiato; ognuna rimaneva immersa nei propri pensieri, in cui raramente faceva capolino qualcosa che potesse rasserenare il cuore almeno per un poco. All’inizio di quell’avventura che mai avrebbero potuto immaginare, avevano cominciato a recitare il rosario per impetrare la protezione della Madonna sulle proprie famiglie in balia della guerra, ma avevano dovuto desistere dal farlo perché dopo la seconda decina di avemarie la gola secca raschiava. Da allora qualcuna pregava in silenzio e qualcun’altra, portatisi appresso ferri e gomitolo nel grembiule ripiegato a sacca, strada facendo lavorava a maglia, par no piardi timp [1].
Perché, accettando l’incarico di portatrice, di tempo ne avanzava sempre troppo poco da dedicare ai bambini, ai vecchi, alle faccende domestiche, alla stalla, al campo, alla fienagione, al legnatico… Le ore non bastavano mai alle donne abbandonate dai propri uomini requisiti dall’Esercito!
- Cence tanc compliments e cence diti gracie! [2]
Brontolava spesso Rosa, la capogruppo; spettava a lei guidare le altre nove fino alle trincee in cima ai monti che chiudevano la valle del But, nel settore del fronte da passo Pramosio a quello di Monte Croce Carnico. Conosceva a menadito le sue montagne, sapeva come accorciare la strada, perciò anche il militare di scorta si fidava ciecamente di lei. Lassù c’erano i soldati che sarebbero stati privi di tutto senza il loro intervento. Li raggiungevano quotidianamente, col sole e con la pioggia, col caldo e col gelo, anche se i passi affondavano nella neve alta e si doveva faticare il doppio. Nelle gerle portavano rifornimenti di cibo, medicine, indumenti, materiali da costruzione, munizioni; al ritorno le riempivano con la biancheria sporca degli ufficiali, il cui bucato faceva loro arrotondare il compenso. Troppo spesso ritornavano portando in quattro, oltre alla gerla sulla schiena, anche la barella con un ferito che magari, strada facendo, moriva sotto i loro occhi… Venivano pagate una lira e mezza a viaggio, alla fine del mese incassavano un piccolo gruzzolo su cui ognuna ricamava timidi progetti da attuare dopo la fine della guerra. Sempre che finisse! La fatica e il rischio erano immani, dunque non era stato il desiderio di guadagno a farle decidere, bensì un’altra, intima considerazione, a cui Rosa aveva dato corpo con parole lapidarie:
- Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan! [3]
Tra quei biadaz c’era suo marito, e mariti, padri, fratelli, figli, fidanzati di tante donne di Timau, Cleulis, Paluzza, Cercivento, Sutrio, Arta e altri villaggi del Canale di San Pietro. Perciò si presentarono in massa a ritirare il libretto di lavoro e il bracciale rosso [4].
Le più giovani erano adolescenti, le più anziane avevano già girato da un pezzo attorno alla boa della mezza età, tutte ben decise a non lasciarsi intimorire dall’impresa; tanto, alla fatica c’erano abituate. Le loro spalle avevano fatto il callo alle cinghie de ‘l gei [5] sempre stracolmo delle cose più varie.
E i loro piedi, negli scarpets [6], avevano ormai la pianta più spessa delle suole, a forza di percorrere sentieri.
Anche Geltrude faceva parte del gruppo di Rosa. Però, prima di rilasciare i dati anagrafici allo scritturale e ritirare libretto e bracciale, aveva messo in chiaro a voce stentorea, così che sentissero tutti, donne e militari:
- Anch’io mi offro volontaria, ma solo per portare viveri, medicine e indumenti, non munizioni. Mai. Se vi va bene così, bene; se no us salùdi! [7]
Lo scritturale, rimasto con la penna in aria, spiazzato, aveva rivolto all’ufficiale un’occhiata interrogativa. Il tenente l’aveva osservata un momento, infine aveva annuito con un cenno del capo ed era ritornato ai documenti che stava esaminando.
Geltrude non aveva nessun uomo in trincea; almeno agli occhi del paese. Nel suo cuore, in quell’angolino recondito in cui attendono di sbocciare le speranze più ardite, uno c’era e si chiamava Macór [8].
Macór era un giovanottone alto e ben piazzato, spalle larghe, braccia forti, zazzera ricciuta e occhi scuri, sguardo malandrino e risata contagiosa. Non c’era ragazza di Cleulis e dei dintorni che non avesse messo in atto ogni mezzo seduttivo per carpire la sua attenzione. Ma la madre, siòre Mèlie [9], vedova, vigilava come un’aquila; il suo unico figlio non era certo pane per tutti i denti! Fino al giorno della chiamata, Macór si era goduto la vita tranquilla del villaggio, in allegria, senza però trascurare gli affari di casa e osteria. Aveva affrontato quel giorno infausto con filosofia spiccia, cercando di consolare la mamma con il suo innato buonumore.
- Mame, no sta vilìti! [10] Che vuoi che sia qualche mese in trincea? Dicono che la guerra finirà in quattro e quattr’otto. Vedrai che tornerò presto! Piuttosto, preparati a sterminare le pulci che sicuramente ti porterò in regalo!
Invece di mesi ne erano ormai trascorsi ben più di “qualche” e non s’intravvedeva nemmeno in lontananza la fine del calvario; unica consolazione, se consolazione poteva essere considerata, era il fatto che era stato destinato al fronte sulle montagne di casa.
Siòre Mèlie sarebbe volata anche lei a ritirare libretto e bracciale, pur di vedere il figliolo ogni giorno e badare a che nulla gli mancasse, ma le sue condizioni di salute glielo avevano impedito. Ancora prima della guerra, lo specialista di Tolmezzo le aveva detto chiaro e tondo che se voleva vivere avrebbe dovuto evitare qualsiasi sforzo; così doveva accontentarsi di tenere d’occhio la casa e gli avventori in osteria, delegando le incombenze più impegnative al figlio e alla Ane [11], una robusta zitella di Cercivento.
Quando erano state assunte le portatrici, siòre Mèlie subito aveva preso accordi con l’una e con l’altra per rifornire il suo figliolo di ogni cosa che gli abbisognasse. Geltrude, senza parere, pian piano aveva fatto in modo di diventare l’unico contatto tra madre e figlio. Cosi ogni giorno, prima dell’alba, si recava all’osteria a ritirare un fagottino di viveri, un indumento pulito, una lettera che riponeva sul petto, ben nascosta dentro la camicia, per evitare la censura.
A siòre Mèlie la Trude sarebbe piaciuta, ma... Era una diciottenne piccoletta, sottile, biondina, con un viso perennemente palliduccio in cui spiccavano i grandi occhi chiari dallo sguardo limpido. Occhi che si accendevano di una luce particolare quando si posavano su suo figlio… Una ragazza garbata nei modi e nel parlare, istruita, perché era intelligente e leggeva con interesse tutti i libri che il maestro continuava a prestarle anche dopo terminata la sesta classe. Una brava figliola indubbiamente, ma… C’era un “ma” che a siòre Mèlie stava sullo stomaco e non le andava proprio giù. La ragazza non aveva padre, era la figlia illegittima dell’Erminia di Timau, morta qualche tempo prima della guerra; viveva sola nello stalj [12] dello zio, in parte adattato, subito fuori il paese.
Geltrude riconobbe Macór ben prima di arrivare all’infermeria del Pal Grande di Sotto; da lontano i soldati sembravano tutti uguali ma ai suoi occhi la sagoma del giovane era inconfondibile. Anche lui la vide, sorridendo la salutò alzando la mano. Non sempre potevano incontrarsi, spesso Macór era impegnato in trincea e allora Geltrude, lasciatigli il pacchetto della mamma insieme ai rifornimenti di medicinali, ritornava mesta.
Si conoscevano dai tempi della scuola; quando lei aveva incominciato, Macór era già in quinta. La piccola era spesso bersaglio della cattiveria infantile dei compagni, proprio perché non aveva un papà; Macór la difendeva con le parole e con i fatti, vale a dire con botte suonate di lena ai più recidivi. Trude aveva concepito per lui una vera e propria venerazione che, con il passare del tempo si era trasformata in un amore profondo, al di sopra della gelosia che le mordeva il cuore ogniqualvolta il ragazzo mostrava attrazione per qualche ragazza più intraprendente di lei. Dal canto suo, Macór non si era mai accorto di questo sentimento adulto, per lui Trude era come una sorellina sempre bisognosa di protezione e conforto. Fino al giorno in cui lei aveva indossato il bracciale di portatrice. E quando l’aveva scoperto, lo stupore aveva lasciato il posto alla meraviglia incredula: Trude non era più una bambina, ma una giovane donna che per amor suo era diventata una coraggiosa volontaria rischiando la vita. Fu come se di colpo gli fosse caduto dagli occhi un velo e finalmente potesse vedere chiaramente la realtà. Amava Trude! Come un uomo ama la donna con la quale vuole condividere la vita. Glielo disse, stringendole le mani e guardandola negli occhi, una volta che si ritrovarono soli, sulla panca addossata all’infermeria, mentre consumavano il rancio [13].
Trude fu incapace di parlare, la gola chiusa da un nodo di commozione pronto a scoppiare in pianto, ma la naturale riservatezza le impediva di sfogarsi in pubblico; un paio di coppie erano troppo vicine per non sentire, non voleva dare spiegazioni alle compagne, tantomeno sopportare battutine salaci. Non ebbe bisogno di dire nulla, Macór lesse il suo “sì” nella pozza limpida dei suoi occhi.
Dopo qualche tempo, però, Rosa finì con l’intuire il legame fra i due giovani e ne parlò con il marito.
- Macór mi ha confidato che intende sposare Trude appena finirà la guerra; vuole nozze in piena regola, con tanti invitati, banchetto e musica! – le raccontò Bepi.
- Non credo che siore Mélie ne sarà contenta… - commentò dubbiosa.
- Per il fatto che Trude è figlia di padre ignoto? Ma è una bravissima ragazza, ed è quel che conta! Lo capirà anche siore Mélie! – concluse Bepi.
Domenica 26 marzo 1916 nella chiesa di Cleulis Trude ascoltava la messa celebrata da Pre Florio [14]. Un ufficiale lo raggiunse all’altare e gli bisbigliò qualcosa. Il sacerdote, terminata la funzione al più presto, chiamò a raccolta la popolazione: bisognava portare immediati rifornimenti alle trincee, i Muchs [15] erano dilagati nel “Trincerone”; c’era il rischio di vederli arrivare in valle!
Trude sentì una morsa stringerle le viscere. Macór prestava servizio in infermeria, ma andava anche a raccogliere i feriti sotto il fuoco nemico: era salvo? Lanciò un’occhiata a siore Mélie, non ebbero bisogno di parlarsi. Per tutta la salita pregò la Madonna e la sua patrona, santa Geltrude di Hefta, con tutto il fervore della sua fede ingenua ma solida come la montagna che scalava. Quando arrivarono sul posto, con Pre Florio in testa nonostante l’età avanzata, l’odore nauseabondo del sangue le penetrò da ogni poro; dovette fare uno sforzo per non vomitare. Nessuno perse tempo, ognuno fece quello che bisognava fare, ricacciando in gola lacrime e disgusto.
Sentì Rosa che la chiamava, era accanto ad una barella su cui era chino il sacerdote. Il presentimento le ferì il cuore con una stilettata gelida. Corse. Sulla barella c’era Macór completamente coperto di sangue dalla vita in giù. Gli si buttò sopra, accarezzandogli il volto esangue, baciandolo, accostando l’orecchio alla sua bocca per capire cosa tentava di dirle. Pre Florio la prese per un braccio e l’alzò quasi di peso.
- Non c’è tempo da perdere! Bisogna portarlo giù al più presto. Ho tentato di fermare l’emorragia meglio che ho potuto, ma deve essere operato. Tirate su la barella e via all’ospedale!
Le quattro donne obbedirono senza esitazioni. Rosa e Trude tenevano i sostegni dalla parte della testa; la ragazza piangeva, lo sguardo fisso sul volto amato, gli occhi negli occhi, come se tenendo incatenato lo sguardo la vita non potesse sfuggire dal corpo martoriato. Invece, non erano giunte nemmeno a metà discesa che Rosa diede l’alt.
- Fermiamoci, tiriamo il fiato. Ormai è inutile sfiancarci, lo dobbiamo portare al cimitero purtroppo.
Trude cadde in ginocchio, abbandonata sul petto di Macór. Per un poco, Rosa la lasciò piangere, poi diede l’ordine di ripartire. Trude si alzò, gli chiuse gli occhi, gli incrociò le braccia sul petto, si tolse il fazzoletto dalla testa e gli coprì il volto, perché la luce cruda di quel giorno traditore non lo ingannasse più.
Scesero a valle. Prima di giungere allo spiazzo in cui venivano raccolti i caduti, furono raggiunte da siore Mélie che, pungolata da un brutto presentimento, dopo la messa aveva voluto ad ogni costo essere portata a Timau.
La povera donna stramazzò in ginocchio sul corpo del figlio, macchiandosi scialle e veste col suo sangue. Le spalle sussultavano, ma le donne non udivano singhiozzi, solo un lamento, un mugolio di animale straziato.
Trude la prese dolcemente per le spalle, la rialzò, le pulì il viso con un lembo del grembiule e le disse con un filo di voce:
- Anìn, mari [16]. Ora possiamo solo pregare per lui. E lui pregherà per noi, costrette a continuare a vivere, sole.
Siore Mélie la guardò negli occhi, poi l’abbracciò stretta e le rispose:
- Si, fie [17]. Sole io e te, nella casa di Macór.
Note
[1] Per non perdere tempo.
[2] Senza tanti complimenti e senza dirti grazie.
[3] Andiamo, altrimenti quei poveretti moriranno anche di fame!
[4] La fascia con sopra stampato lo stesso numero del libretto e l’indicazione dell’unità militare per cui operavano le portatrici.
[5] La gerla.
[6] Calzature di stoffa, con spessa suola fatta di strati di stoffa robusta fittamente impunturata e tomaia solitamente di velluto nero.
[7] Altrimenti vi saluto.
[8] Diminutivo di Ermacora, nome un tempo abbastanza usato in Friuli, in onore del primo vescovo di Aquileia.
[9] Signora Amelia.
[10] Mamma, non avvilirti.
[11] Anna.
[12] Edificio rustico adibito a stalla, fienile, ripostiglio attrezzi.
[13] Le portatrici ne avevano diritto come i soldati.
[14] Don Floreano Dorotea, parroco di Timau, straordinaria figura di pastore che si adoperò costantemente, in ogni modo, per confortare civili e militari.
[15] Termine dialettale con cui venivano indicati gli Austriaci.
[16] Andiamo, madre.
[17] Figlia.