Un vuoto nel bosco
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Primo classificato
Un vuoto nel bosco
di Karim Mangino - Salerno
Mi alzo e la prima cosa che faccio è portarmi due dita alla tempia destra dove c’è il dolore, ma stamattina forse le cose vanno meglio, il mal di testa mi sta dando una tregua. Mi infilo le pantofole e cerco d’indovinare l’ora dalla luce che filtra dalle persiane. Saranno passate da poco le cinque. A ottantasei anni il sonno se ne va come se dovessi vivere, ben sveglio, quel poco che ti resta ancora, il problema è che ti alzi alle cinque del mattino e non hai niente da fare.
Apro la finestra, l’aria è fredda ma non credo che oggi pioverà, anzi sono sicuro che il vento porterà via la foschia del mattino e uscirà il sole. Si sente nell’aria che il tempo sta cambiando, finisce questo freddo mese di marzo.
Lentamente prendo i vestiti dall’armadio. Non mi è mai piaciuto restare in pigiama, anche se ci metto cinque minuti buoni solo per infilarmi i calzoni non sono il tipo che resta a ciabattare per casa in pantofole. Ombre scure scendono nella stanza quando finisco di allacciarmi le scarpe. Afferro le tempie tra le mani e per un attimo tutto sparisce nel buio. Il mal di testa tornerà presto, gli intervalli di pace diventano sempre più brevi.
Mi allaccio sul polso il mio vecchio Omega, sono le sei, è presto per uscire ma non posso restarmene rintanato qui dentro ad aspettare il tempo che passa. Indosso il cappotto tirandomi il bavero sulle orecchie e prendo il bastone. Ho bisogno di arrivare almeno fino ai giardini pubblici, poi non so, forse cercherò una panchina al sole, il vento calerà, comincerà una giornata dal cielo pulito che il sole avrà il tempo di riscaldare, comprerò il giornale, aspetterò l’apertura del bar. L’importante è non rimanere qui da soli.
Il cielo non s’è ancora schiarito del tutto, ha un colore freddo e senza luce. Stringo le spalle nel cappotto e taglio verso la piazza senza incontrare nessuno, non c’è niente a quest’ora, solo serrande chiuse, finestre chiuse, portoni chiusi.
Quando arrivo al parco sfioro la panchina e non mi fermo. Pochi alberi neri, le aiuole andrebbero ripulite, la fontana è piena d’acqua melmosa. Punto il bastone verso il cancelletto di uscita e vado via. Oggi ho voglia di muovermi, alla mia età finché funzionano le gambe vuoi dire che ancora le cose non vanno tanto male, percorro il corso principale e mi ritrovo nella piazza della stazione. Due netturbini stanno scaricando un cassonetto nel camion, un tizio cammina svelto con un cane al guinzaglio, una ragazza arranca con una valigia pesante, chissà che treno deve prendere trenta... bè forse quarant’anni fa mi sarei offerto di darle una mano.
Resto a guardare la città che prende vita. Mi passo le dita sulla tempia anche se il dolore non c’è e dico a me stesso che se sono arrivato fin qui forse è perché mi va di andare ancora più lontano. Vado al marciapiedi di fronte dove c’è un taxi in attesa e busso al finestrino, il tassista abbassa il giornale, gli faccio cenno che salgo, annuisce.
Il tassista dice: - Dove andiamo?
Io dico: - Il nome del posto non me lo ricordo. So come si arriva. Le dico io la strada.
Il tassista mi scruta dallo specchietto, borbotta qualcosa, avvia il tassametro e parte.
Quando gli indico che dobbiamo andare fuori città rallenta, si volta, mi fissa accigliato e mette insieme la frase principale, quella che ha sullo stomaco da quando siamo partiti.
- Ma… soldi?
Non ha voglia di scarrozzare, senza sapere nemmeno dove, un vecchio di ottant’anni. E’ uno che non gli va di prendere fregature alle sette del mattino. Tiro fuori dal portafoglio una banconota da cento, unico esemplare, il centone delle emergenze, e gliela mostro. Riprende a guidare. Superiamo un tratto di campagna e le montagne, le mie montagne si stagliano all’improvviso alte nel cielo, mi tremano le mani a vederle di nuovo così vicine. Dico al tassista di andare oltre, saliamo lungo una strada tutta tornanti. Lui picchia con l’indice sui numeri del tassametro e chiede:
- Ma dove? Dove vai?
Io dico: - Siamo quasi arrivati.
Ci fermiamo quando la salita finisce, io dico: - Va bene qui.
Il tassista è sorpreso. No c’è niente nel posto dove l’ho portato. Non c’è una casa, una baracca, una fermata d’autobus, niente.
- Qui?
Pago e scendo. Qui, sì. Io so cosa c’è qui.
Quasi non vorrebbe lasciarmi su questa cima in mezzo al nulla, poi intasca il denaro, scuote la testa e va via.
Prendo una stradina che sale lungo il fianco della montagna, dopo dieci passi mi fermo, tossisco, mi manca il fiato. Sorrido pensando a come mi muovevo su questi sentieri, a balzi, con la terra che mi franava sotto gli scarponi, veloce e sicuro. Una vita fa. Punto il bastone tra le radici e riparto, tre passi, quattro, respiro. Tanto non c’è fretta. A un tratto mi ritrovo circondato da faggi alti, lisci e bianchi come l’argento. Comincia il bosco. Il mio bosco.
Mi prende una vertigine, una gioia mi preme il petto e mi toglie il fiato. Sono a casa, dico. Raccolgo un pugno di foglie bagnate che sanno di terra e d’inverno e sono qui, un ragazzo disteso su una coperta rubata a fare l’amore con la mia Antonia. Avevo diciassette anni.
Salivamo quassù in bicicletta nei pomeriggi d’estate, lungo il sentiero ci tenevamo abbracciati e il cuore ci batteva forte. Era l’estate del ’39 con il mondo sull’orlo del baratro, ma per noi, allora, non esisteva altro che il nostro bosco. Protetti dagli alberi, ci mettevamo distesi. A volte si restava così, uno accanto all’altro, senza far nulla, a fissare l’intreccio dei rami ascoltando il canto di un cardellino. Era il nostro piccolo, magico mondo. Poi la guardavo mentre mi passava una mano tra i capelli e mi piacevano le sue efelidi, la pelle chiara e la treccia che portava sempre, color rame e oro.
- Dì, che c’è che mi guardi a quel modo? – si faceva più vicina.
- Sei bella.
- E tu sei scemo – rideva e io le mangiavo il sorriso con un bacio.
Vado avanti, dove il bosco è più fitto. Cammino poggiando il palmo sulla corteccia degli alberi, li vorrei toccare tutti, uno per uno, come per salutare dei vecchi amici ritrovati. Hanno scorze bagnate di pioggia, foglie scure per il freddo e le mie dita si aggrappano a loro per dire che dopo tanti anno sono tornato.
Più avanti c’è uno spiazzo senza alberi, un vuoto coperto di cespugli spinosi. Mancano sedici alberi. Dopo sessant’anni questo buco nel bosco, che è anche un buco nel mio cuore, c’è ancora. Stringo il bastone e la mia memoria fa un altro scatto all’indietro.
Avevo ventidue anni e la guerra sembrava non finire mai. Su queste montagne avevamo costituito la nostra Brigata. Disertori ci chiamavano i fascisti. Partigiani. Per un anno questo bosco è stata la mia casa. La carta di cinquanta ragazzi che hanno combattuto la loro guerra di Resistenza.
Avevamo un rifugio oltre la cresta più alta e ci muovevamo come lupi, di notte. Conosco il respiro, le ombre, gli odori di questo bosco. Ancora sento le voci dei miei compagni, i discorsi di libertà e di odio, di Rivoluzione e di fame. Mi rivedo con la barba incolta a togliermi le pulci di dosso, sento i miei passi tra i cespugli mentre scendiamo di notte per un’incursione alla caserma a togliere le armi ai fasci.
Sisto, Mino, Orso, Lo Scuro, Mascia, Vento, Benny, Coltello, Armida, il Capitano. Vi ricordo tutti. Orso, sempre con la voglia di fumare, Capitano, freddo e silenzioso, Armida la forte. Antonia era sempre al mio fianco. Il suo soprannome era Treccia, per la sua treccia color rame e oro.
Mancano sedici alberi da questo spiazzo vuoto nel bosco. I sedici alberi della morte. Una mattina tornammo da una ricognizione e li trovammo: sedici persone impiccate ai rami di quegli alberi. Una pattuglia di tedeschi aveva sorpreso sei dei nostri che affiggevano manifesti contro il nazifascismo, gli altri erano stati rastrellati in paese. Il compagno Ermanno con la testa piegata sulla barbaccia nera, Ottavio, colpevole di avere un ciclostile, Franchino che quando beveva cantava Fischia il vento. Oscillavano sospesi come fantocci, mani legate dietro la schiena e calzoni calati.
Ho buttato il fucile tra le foglie morte guardando quei volti grigi che sembravano tutti uguali. Appesa a un faggio in fondo alla fila c’era lei. Antonia.
La tirai giù senza vedere nient’altro. Ricordo solo il fango sulla treccia, i piedi senza scarpe, il sangue tra le cosce. Ti ho portata in braccio, oltre la cresta più alta, in un posto sicuro dove potevi riposare in pace. Quel giorno ho pianto tutte le mie lacrime e quella treccia sporca di fango mi ha bruciato dentro l’anima la possibilità di amare ancora. Sono rimasto solo allora, sono rimasto solo una vita.
Dopo la guerra, io e altri della Brigata siamo tornati qui e abbiamo abbattuto i sedici alberi della morte. Li tirammo giù a colpi d’ascia, con gli occhi pieni di lacrime. Un buco vuoto nel bosco. Un buco vuoto nel mio cuore.
Speravano di indebolirci, ci fecero diventare più rabbiosi.
L’inverno del ‘45 finiva e si sentiva nell’aria che i tedeschi erano allo sbando. Un pomeriggio ero in perlustrazione, scendeva un nevischio sottile, gli alberi erano nudi, intirizziti dal gelo, gli scarponi crocchiavano su uno strato di ghiaccio. Il bosco era silenzioso come sotto una campana di vetro. A un tratto, rumore di rami spezzati, passi pesanti, qualcuno scende dall’altro costone. Mi accuccio sul terreno. Ancora passi, si ferma, riprende a scendere. È uno solo, si muove circospetto. Resto immobile, pancia a terra, con la neve che si ferma sul berretto e le ciglia. Le dita si fanno di ghiaccio stringendo il fucile.
Eccolo, lo vedo. Passa a meno di quindici metri. Ha una casacca da contadino sulle spalle ma gli stivali sono da soldato, i calzoni grigi sono dell’uniforme tedesca. Deve aver buttato la giacca della divisa, dal cappello di lana spuntano fuori ciuffi di capelli color paglia. Tedesco, sicuro. Forse ha disertato, chissà.
Faccio scattare l’otturatore del fucile e nel silenzio il clack del metallo pare che rimbalzi da un albero all’altro fino al cielo. Il tedesco si volta, vede la mia ombra scura nella neve e inizia a correre giù. Balzo in piedi. Non deve scappare.
Il tedesco scende veloce come una lepre, si butta a balzi dove il bosco è più fitto, corre con la paura ai piedi. Io dietro, con la neve negli occhi cerco di non perderlo di vista. Prova a distanziarmi in tutti i modi, salta dove pare impossibile saltare, si infila nei rovi, scarta, cambia direzione. Ma questo è il mio bosco. Questa è la mia casa. Corri lepre, corri. Sei veloce. Hai dietro un lupo.
All’improvviso fa un salto a sinistra e sparisce dietro un dislivello. Silenzio. Niente rami strappati nella corsa, i suoi scarponi non crocchiano più nella neve gelata. Si è fermato. Mi aspetta là dietro.
Mi tuffo a terra d’istinto. Appena in tempo. Il suo busto si sporge da là sotto dove s’è acquattato, impugna una pistola, spara. Il colpo mi fischia sopra la testa. Sparo anch’io, da terra. Il mio proiettile taglia l’aria a un palmo dal terreno e vedo il corpo del tedesco che fa un movimento innaturale, come tirato all’indietro da un filo invisibile. Cade e sparisce dietro la sporgenza. L’ho colpito, devo averlo colpito, forse è solo ferito e mi aspetta. Resto immobile per un tempo infinito. La neve comincia a cadere più fitta, grossi fiocchi filtrano attraverso i rami. Ancora silenzio.
Striscio sui gomiti verso il punto dove il busto del tedesco è sparito. A ogni metro che faccio lo vedo sollevarsi da là dietro come un pupazzo a molla, il braccio teso con la pistola in pugno a spararmi dritto in testa. Ma non si muove più niente in questo bosco. Ci sono solo io che striscio come una lumaca e la neve che cade.
Quando lo vedo è disteso sulla schiena con le ciglia incrostate di ghiaccio. Appena sotto la gola c’è il foro del mio proiettile e una macchia scura che si allarga. Ha la bocca piena di sangue. Sbatte le palpebre e mi guarda con occhi chiari come il vetro. Ha la faccia sbiancata dal freddo senza un filo di barba. È molto giovane, poco più di un ragazzo. Un giovane soldato con ancora calzoni e stivali nuovi di zecca mandato dalla Germania a morire quassù. Mi chino su di lui e lo guardo senza sapere che fare. Respira a fatica. Pare un bambino con i capelli biondi arruffati e gli occhi sbarrati. Mi fissa dritto negli occhi e si sforza di parlare, vuole dirmi qualcosa e alla fine ci riesce, dice due parole, in tedesco. Non lo capisco. Poi un velo gli scende sugli occhi, getta la testa all’indietro in cerca di aria, stringe debolmente le dita nel terreno e se ne va. Alzo gli occhi e fisso la luce che filtra dai rami. Tra poco la neve coprirà il suo corpo.E ora, alzo gli occhi e fisso la luce che filtra dai rami. Sono di nuovo qui, dopo sessant’ anni. Ai ricordi di morte si può sfuggire per molto tempo, ma non per sempre. Il bosco mi ha chiamato e io sono venuto.
Oggi non nevica. Piccoli pezzetti di un cielo spento si intravedono attraverso le foglie. Speravo in una giornata di sole, mi sbagliavo. Mi perdo con lo sguardo nel labirinto di rami sopra la mia testa e un cuculo interrompe il silenzio. Ripete il suo verso una volta, due, tre, come un segnale. Non so perché ma ho paura. Il cuculo ripete il suo verso e mi piomba addosso il presente con tutto il carico dei miei anni a spazzare via i ricordi. All’improvviso un artiglio di ferro mi afferra la tempia. Il dolore. Una fitta, forte più delle altre, mi toglie il fiato e mi fa piegare su me stesso mentre mi porto le mani alla testa. Il dolore resta lì, dentro il mio cervello come se volesse aprirmelo in due. Pianto le unghie nella corteccia di un albero e stringo il bastone. Tante ore di pace ora si pagano.
Piccoli punti neri mi appaiono davanti agli occhi come se un fucile a pallini avesse sparato nella mia retina. Vedo i grandi alberi che mi circondano piegarsi e oscillare come fili d’erba e la luce farsi più debole, il cielo diventa scuro. Il bosco è come un disegno su un foglio bucato da tante piccole bruciature, fori neri che si allargano mangiando l’immagine e la luce. Il bastone mi sfugge di mano e mi ritrovo seduto nel muschio gelato. Tutto intorno a me è sparito. Sono al buio.
Il dolore aumenta come un chiodo piantato nella tempia e io mi passo le dita sugli occhi. Non riesco a sollevare il braccio sinistro. Non riesco più a muovermi. Il cuore batte lentamente e rimbomba tra i rami, nell’oscurità, fino al cielo. Il bosco si richiude su di me, sento gli alberi che si piegano per abbracciarmi, sento il fruscio delle foglie che ricoprono il mio corpo.