Un pettirosso combattivo - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Un pettirosso combattivo

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVII EDIZIONE
Arcade, 8 gennaio 2022
Segnalato

 
Un pettirosso combattivo

 
di Pierluigi Tamborini - Casier (TV)





Questo è un luogo di pace.
Ogni volta tutto rallenta, anche i dolori e le tempeste che mi porto dentro. Non ci vengo spesso, la vita mi ha trascinato lontano, ma quando posso salgo quassù per ascoltare il silenzio dei monti. Mi siedo, respiro piano, sottraggo energia ad alberi e rocce e firmo una tregua con il mondo.
Qui la sua immagine si fa prepotente. E la rivedo, con quella specie di divisa scura che ricordo fin da quando sono nato, i capelli ormai grigi riuniti in una crocchia, una figura minuta ma fiera, la leggerezza del suo passo nello scansare la vita, i rivoli di parole dispensate a tutti, che con me diventavano torrenti. Tutto in lei era vecchio per me bambino, tranne gli occhi che erano grandi, scuri e belli. Il ritratto di una donna in nero con l’immancabile colletto di pizzo, o meglio, per dirlo come Loredana Bertè, un pettirosso da combattimento.
Nina è nata proprio vicino al sasso della Madonna, dove un capitello ricorda una lontana apparizione che la Chiesa non ha mai riconosciuto. Ma se ha avuto il suo posto nel mondo un miracolo ci deve essere pur stato.
Una storia mai raccontata a nessuno, tranne che a me. Mi chiedo perché abbia voluto investirmi di questa staffetta.
Forse l’amore è l’unica risposta.
C’è un’età in cui non si può resistere al fascino delle cose incredibili. Ora posso ricostruire un percorso segnato sulla mia mappa interiore. Inizia da Conaggia dove mio nonno, il dottor Giuseppe Sanfelice aveva una villetta per le vacanze. Se ci passate non vi potete sbagliare, è l’ultima casa del paese prima del bosco, con il giardino e un affresco di San Sebastiano sul muro. Lì fioriscono sfrontate le rose cremisi di Damasco e tentano di oscurare le frecce sul corpo del martire.
L’arrivo del nonno e della sua famiglia era annunciato dalla vecchia Appia che risaliva i tornanti del passo Duran sputacchiando gas e fumi di scarico, un contributo in anteprima all’inquinamento e ai cambiamenti climatici. Altri tempi, nessuno ci faceva caso.
Il progresso avanzava e poi una macchina così da quelle parti nessuno l’aveva mai vista.
Il nonno aveva stipulato un contratto con dei contadini del luogo, l’Alfonso e l’Adalgisa.
I due tenevano in ordine la casa, in special modo il prato, tagliato con regolarità d’estate e spazzato dalla neve d’inverno in previsione del nostro soggiorno.
Strano tipo l’Alfonso. Parlava poco come tutti i montanari e aveva la fissa del figlio maschio che si ostinava a non arrivare. Si ritrovava invece con una moglie e quattro figlie. Certo è che lui, per cocciutaggine non secondo ad alcuno, non avrebbe mai smesso di provarci, se il destino non si fosse messo di traverso.
Anche l’Adalgisa parlava poco, preferiva risparmiare il fiato per l’enorme mole di lavoro che l’aspettava ogni santo giorno. A suo marito in fondo voleva anche bene, ma temeva i suoi modi bruschi aumentati in maniera esponenziale con il passare del tempo e con qualche bicchiere di troppo.
Nina era l’ultimo frutto di quella nidiata. Nel giro di pochi anni si era ritrovata da sola.
Due delle sorelle maggiori si erano sposate e trasferite a Belluno, la terza era diventata monaca benedettina di clausura nel monastero di Sabiona a Chiusa. Restava lei, la piccola di casa, abituata fin dai primi anni alle fatiche della dura vita di montagna.
Aveva quindici anni e poche illusioni quando entrò a far parte della nostra famiglia.
Il nonno, all’epoca giovane genitore di quello che sarebbe poi diventato mio padre era alla ricerca di una tata da portare con sè in città, a Ferrara.
L’idea della Nina non lo aveva nemmeno sfiorato all’inizio, ma poi si era accorto che quella ragazzina aveva delle doti non da poco. Era taciturna e, servizievole quanto basta, mostrava una curiosità e un’intelligenza spiccata e soprattutto sapeva stare al proprio posto. E scusate se è poco.
A convincere l’Alfonso non fu soltanto il frusciare di una generosa schiera di bigliettoni.
Nossignore, quel rude montanaro non le aveva mai perdonato il fatto di non essere nata maschio, e dal momento che si stava facendo vecchio, aveva deciso di mollare tutto, quindi sua figlia poteva anche togliere il disturbo, senza troppi rimpianti.
Era una calda giornata di fine agosto di tanti anni fa. La Nina aveva con sé una piccola valigia di cartone tenuta con lo spago, diede un’ultima occhiata ai suoi monti, salì per la prima volta in vita sua su una macchina ed entrò ufficialmente nelle nostre vite.
Quando arrivarono a Ferrara le parve di essere sbarcata a New York. In realtà non aveva termini di paragone e della città americana non aveva mai nemmeno sentito parlare, ma quel posto le sembrò enorme. Una realtà incredibile per un’adolescente abituata alle quattro case di Conaggia e al massimo a scendere fino ad Agordo le rare domeniche in cui l’Alfonso si ricordava di santificare le feste. Moglie e figlie nella stessa chiesa, lui ogni volta in un’osteria diversa.
Ma non fu l’estensione della città a spaventarla, quanto un’assenza alquanto dolorosa.
Ovunque posasse lo sguardo trovava un fondale piatto ad aspettarla. Per un momento si chiese dove fosse capitata e se un dio dispettoso non avesse per caso rubato le montagne. Non aveva mai sentito parlare della Pianura Padana, era cresciuta nella convinzione che il mondo fosse circoscritto tra i confini della conca agordina.
Da bambina si divertita con un gioco segreto. Si alzava la mattina sperando che di notte quel dio dispettoso, ritrovato anni dopo, non avesse pensato di fare sparire i suoi monti. Guardava davanti a sé e scopriva con sollievo la maestosità dell’Agnèr. Poi a destra si stagliavano, grazie al cielo erano ancora lì, le vette delle Pale di San Lucano. Ed ecco sempre a destra la sagoma del Framont e subito accanto la Moiazza. Poi si girava e godeva della vista del San Sebastiano e del Tamèr, ruotava un poco ed ecco il monte Zelo, i Monti del Sole, il colle di Rivamonte e di nuovo sua maestà l’Agnèr.
La meraviglia a 360 gradi.
I primi tempi a Ferrara furono difficili. Il pettirosso da combattimento si svegliava di soprassalto nella sua cameretta convinta che fosse stato tutto un brutto sogno. Ora mi alzo, pensava, vado alla finestra e vedrò le mie montagne. Si levava di scatto e restava immancabilmente delusa. La realtà le ritrasmetteva come in uno specchio l’immagine sconfortante del palazzo di fronte.
Poi arrivava l’autunno e il mondo spariva in una spessa coltre di nebbia.
Alla Nina, alle prese con un piccolo da tenere d’occhio restava la speranza che l’estate ritornasse presto e il dottor Sanfelice si decidesse a riprendere la strada delle montagne e non dei lidi ferraresi, come ultimamente stava facendo.
Quando sono nato io la Nina era diventata un’istituzione Anche se non era una bellezza da prima pagina qualcuno mi ha raccontato che le sue brave occasioni per maritarsi non le erano mancate così come i corteggiatori disposti a portarsi in casa una donna di poche parole.
Il che era visto come una virtù alquanto rara. Ma lei niente. Li aveva rifiutati tutti adducendo sempre una scusa diversa ed era rimasta con noi, presenza silenziosa e fedele diventando elemento indispensabile nella nostra casa.
Per me era normale trovarmela attorno al punto che quando ero piccolo ero convinto di essere un privilegiato. Di mamme ne avevo due.
Nina con i miei familiari cercava di parlare il meno possibile, tutta tesa a non disturbare il mondo e gli accadimenti che le parole possono a volte generare. Con me non aveva alcun problema e si sfogava raccontandomi storie crude di montagna, dove non c’era posto per la poesia, ma io le trovavo meravigliose.
E poi c’era il girotondo dell’Agnèr, il ritornello ripetuto nei suoi giovani anni e che, a tutti i costi, aveva voluto che imparassi perché un giorno potessi prendere il suo posto e diventare anch’io il guardiano della conca agordina e stare di sentinella contro gli dèi dispettosi in vena di rubare montagne.
Ai tempi della scuola la Nina divenne un paio di volte la mia vecchia cara zia appena defunta. Le ho allungato la vita facendola morire delle più strane malattie, giustificando le mie assenze dalle lezioni con funerali in realtà mai avvenuti.
Quando divenni più grande la curiosità ebbe il sopravvento. Un giorno presi il coraggio a due mani e le chiesi come mai non si fosse sposata.
Il motivo stava tutto nella storia che non aveva voluto raccontare a nessuno.
Tutte le volte che ci penso, e ormai gli anni sono volati via, un brivido mi percorre la schiena e mi sembra di essere lì, osservatore non invitato ad assistere al mistero di una nascita.
Tutto cominciò in una sera in cui l’estate stava lasciando la porta aperta all’imminente arrivo dell’autunno.
L’Adalgisa era al nono mese di gravidanza. Quel giorno il marito l’aveva spedita a malga Foca per raccogliere l’arnica. L’Alfonso soffriva da tempo di una brutta forma di sciatica e quell’erba era un vero toccasana per i suoi dolori. Oddio, non è che la poveretta bruciasse dalla voglia di farsi tutta quella sfacchinata, ma l’occhiataccia che lui le aveva lanciato era una forma di avvertimento molto convincente.
L’Adalgisa aveva un presentimento, sapeva che qualcosa sarebbe successo, il suo corpo le aveva dato qualche deciso segnale un paio di giorni prima. Per questo, quasi per scaramanzia, si era premurata di portare con sé una piccola coperta.
Quando con la cesta piena di arnica stava scendendo da malga Foca era passata davanti al sasso della Madonna e lì era successo l’inevitabile. Aveva sentito un liquido caldo scorrerle tra le gambe e aveva subito capito che non ce l’avrebbe fatta a tornare a casa in tempo, né tantomeno a chiamare l’Antonia, la levatrice che l’aveva aiutata a fare nascere le sue altre tre figlie.
In quel momento lo sguardo le cadde sulla statua della Madonna e pensò di chiedere aiuto alla madre celeste. L’Adalgisa in cuor suo sapeva che in grembo portava un’altra femmina e rivolse al cielo la sua preghiera, promettendo che avrebbe chiamato la bimba con il nome di Maria e di Anna, la madre della Madonna. E fece un voto. La sua creatura, se fosse venuta al mondo, sarebbe stata dedicata a Lei.
Intanto a Conaggia l’Alfonso aspettava il ritorno della moglie, preoccupato per la tavola vuota e le tre scatenate bimbe da mettere a letto.
Poi in lontananza vide la moglie che stava tornando con un fagotto in braccio e capì di essere diventato di nuovo padre.
Quando lei gli fu davanti disse soltanto: «Cossa xe?»
«’Na femena» rispose lei.
«Ah» disse lui. Poi si limitò a chiedere: «Statu ben?» E questo fu quanto.
L’Adalgìsa aveva fatto tutto da sola. Si era sdraiata e ricordando le istruzioni dell’Antonia aveva messo al mondo la piccola Maria Anna che con il tempo sarebbe diventata Marianna, poi Mariannina e infine Nina. Con il coltellino usato per la raccolta dell’arnica aveva persino tagliato il cordone ombelicale.
Il giorno dopo, in un barlume di interessata umanità l’Alfonso aveva chiamato il dottor Soppelsa, il medico condotto di Agordo, perché potesse assistere la moglie.
Dopo avere visitato la donna e ascoltato il racconto del parto il medico aveva pronunciato una precisa sentenza: «Un miracolo».
Lo aveva detto sottolineando come il rischio di una setticemia fosse stato altissimo e che lassù qualcuno ci aveva messo una buona parola perché tutto andasse bene.
Salvo poi informare il marito che di avere altri figli i due se lo potevano scordare.
Ecco perché Nina, facendo propria la promessa della madre, aveva deciso di non prendere mai marito. Un voto per interposta persona sul quale ci sarebbe stato qualcosa da obiettare, ma non era mio compito. Se da parte di lei ci fossero stati dei rimpianti, credetemi, è una cosa che non ho mai saputo.
Questa mattina mi sono alzato presto. Avevo un appuntamento particolare. Prima sono passato dal cimitero di Conaggia per un saluto alla Nina. Ogni volta lei mi guarda da una fotografia sempre più sbiadita. In fondo è giusto così. Quella perdita di colore è il segno del tempo che passa e marca la distanza tra ciò che oggi siamo e quello che non siamo più.  In quell’immagine lei ha un’espressione smarrita come se non guardasse da nessuna parte, ma in realtà, ne sono certo, sta vedendo cose che noi non possiamo nemmeno immaginare.
Risalendo la strada sono passato davanti alla vecchia casa dei nonni e ho notato che le rose sfrontate di Damasco si sono fatte ancora più ardite e il San Sebastiano adesso rischia di soffocare.
Povero santo e quanti ricordi. Allora preferisco allungare il passo perché in questo momento vorrei evitare che mi possano raggiungere.
E così mi avvio sulla mulattiera per malga Foca e in un’oretta di cammino sono davanti al sasso della Madonna.
Qui il ricordo di lei si fa prepotente. Mi sorprendo a canticchiare il ritornello delle montagne rubate, eppure le ho lì davanti a me, immutabili sentinelle di pietra.
Penso all’armistizio che voglio firmare con il mondo e ai dolori che la vita non risparmia a nessuno.
Mi siedo, respiro piano, rubo energia agli alberi e alle rocce e, con una gioia quasi selvaggia, riprendo fiato. Tutto rallenta. Mi sento Infinito.
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