Solo i monti lo sanno - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Solo i monti lo sanno

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Segnalato

Solo i monti lo sanno

di Erika Pedretti - Ravarino (MO)



Autunno 1943
Provò a respirare lentamente. A far rallentare i battiti impazziti del suo giovane cuore. Guardava in alto, il cielo che raccoglieva i colori della sera, il crepuscolo che avanzava e disegnava ombre sul profilo del monte, mentre gocce di pioggia iniziavano a danzare in un pianto silenzioso. Respira Bruno. Riempi i tuoi polmoni di giovane soldato, di uomo di vent’anni, di uomo di montagna. Dì a quel muscolo impazzito che non può esploderti nel petto. Non c’è nessuno. “Nessuno, nessuno”, sussurrava, e i battiti rallentarono, tornando ad un ritmo quasi normale. Bruno Ardini si buttò a terra, esausto, sconfitto. Franò su un mucchio di foglie secche, che scricchiolarono sotto il suo peso facendolo sussultare. Non ce la faceva più. Quelle ore erano solitarie, interminabili, e il puzzo della paura si infilava dappertutto, sotto le unghie, tra i vestiti rattoppati da una madre orfana di figlio, dentro le narici, negli occhi aperti, negli occhi chiusi. Odiava quell’odore, quel silenzio, quella follia. Ma soprattutto odiava la guerra.
E amava Teresa. Il pensiero di lei lo colse come una meteora nella notte, e il suo cuore riprese a battere un po’ più velocemente, ma questa volta non cercò di fermarlo. Questa volta era vita. Teresa era così bella. Bruno chiuse gli occhi e si ritrovò dentro a quelli di lei, grandi, verdi, accarezzati da ciglia lunghissime. L’odore di Teresa era lì, più forte di quello della morte, più forte della paura. Si erano amati, in una notte come quella. Il cuore del soldato in quel momento rallentò, e per un attimo Bruno ebbe l’impressione che si fosse fermato. Respira. “Ti aspetterò sempre”, gli aveva detto piccola e tremante, in quell’ultimo abbraccio. “Torno e ti sposo”, aveva risposto lui.
Un rumore improvviso e leggero lo risvegliò. Il cuore di nuovo non gli obbediva, battiti rapidi, muscoli tesi, la mano d’istinto sul fucile. Silenzio, poi di nuovo un fruscio, proprio sotto di lui, tra le foglie. Bruno si alzò di scatto e inciampò sulla punta dell’arma, rovinando a terra. Una biscia schizzò via terrorizzata, strisciando verso altri sentieri. Il giovane imprecò nel rialzarsi.
Volse indietro lo sguardo per seguire la fuga della bestia, e fu così che lo vide. Era lì, di fronte a lui, forse a tre metri, forse meno. La prima luce dell’alba gli accendeva il viso. Bruno notò i capelli cortissimi, il viso spigoloso, le spalle larghe, la divisa diversa dalla sua. Notò che la bocca gli tremava, ed anche la mano. Tremavano le dita che stringevano il grilletto della pistola. Dai, che avrai la mia età. Che neanche tu vuoi starci qui. Che anche tu avrai passato una notte di guardia a cercare di respirare, e a far battere il tuo cuore a un ritmo normale, e a sognare la tua Teresa.
Pensava queste cose Bruno, mentre guardava il soldato armato in piedi di fronte a lui.
Pensava a Teresa. Poi sentì lo sparo. E cadde nel buio.

Estate 1985
Teresa prese lo zaino. Tutto era pronto, non le occorreva altro, solo un po’ di coraggio. Attraversò il salone in punta di piedi e si diresse verso la porta. In casa solo silenzio. Si richiuse la porta alle spalle, senza esitazioni. Era una splendida mattina di fine giugno e l’aria frizzantina le solleticava il naso, mentre le gambe camminavano da sole, come sapessero già dove andare. Scese lungo la stradina che da casa portava al centro del piccolo paese, poche case in tutto abbracciate da quelle montagne maestose. La bambina si guardò intorno, vide il sentiero libero, puntò verso la selva e le sembrò quasi di sentirsi chiamare per nome. Si sentiva emozionata, euforica, di più, si sentiva elettrizzata. Stava compiendo un’impresa, stava andando a cercare i pezzi della sua storia. Stava andando dai monti a riprendersi suo nonno.
Arrivata al bivio che portava verso la piazzetta, Teresa virò decisa a destra, prendendo il sentiero in salita che conduceva al bosco. Poi camminò. Camminò per ore.
Quando le gambe reclamavano un po’ di riposo si sedeva per terra, gli abeti imponenti a farle da tetto, e poi riprendeva a camminare. Ormai a casa dovevano essersi svegliati e accorti della sua assenza. Forse avevano trovato il biglietto dove spiegava il motivo della sua fuga. Quel pensiero la fece vacillare, ma fu solo un attimo. Altri pensieri correvano veloci sotto la sua pelle. La casa del vecchio doveva essere da quelle parti. Sin da piccola Teresa ascoltava e meditava le storie che in paese circolavano su quel vecchio scorbutico e pungente. Del fatto che non volesse nessuno intorno, che girasse con scarpe enormi e pesanti, le stesse ogni stagione. Che le lanciasse addosso a chi lo infastidiva. Che avesse una barba grigia lunga fino al petto. Che nessuno sapesse il suo nome, e da dove venisse. Teresa era sicura che quel vecchio fosse suo nonno.
Assorta in quei pensieri, con il passo accelerato dall’adrenalina, non vide la buca e ci finì dentro, cadendo rovinosamente a terra. Un dolore acuto e inaspettato la lasciò senza fiato e la paura la fece svenire. Quando riaprì gli occhi, era su una brandina, in una casa spoglia e solitaria. Vide un tavolo, una sedia. Vide due spalle larghe. La figura dell’uomo era alta, slanciata. “Nonno Bruno”. Le parole le morirono in gola.
Quando l’uomo si girò e lo guardò in volto, Teresa cercò senza trovarla la faccia di suo nonno.
Lo sconosciuto la scrutava senza dolcezza. Non somigliava per nulla alla fotografia che la nonna conservava, un giovane soldato con i capelli scuri e gli occhi grigi e sorridenti. Ma si era preparata a quel momento, e qualcosa di più forte della paura la spinse a fare la domanda che aveva dato vita al suo viaggio.
Sei mio nonno?”. L’uomo rimase immobile, lo stupore disegnato sul viso. La domanda lo aveva colto totalmente impreparato. Quella bambina…quando aveva sentito il suo urlo, quando l’aveva trovata ferita e priva di sensi, qualcosa di lei lo aveva trascinato in un passato lontano. Qualcosa in quel viso gli diceva che si erano già incontrati.
Sei nonno Bruno?”, insistette Teresa.  L’uomo continuava a fissarla senza rispondere.
Sei Bruno Ardini?”, lo apostrofò per la terza volta la bambina, ormai indispettita da quel silenzio.
Quel nome lo colse come uno squarcio nella notte, una pallottola nel petto.
Ed Elias, il soldato Elias Meyer, sprofondò nell’autunno di quarantadue anni prima. Si ritrovò la pistola in mano, le mani tremanti, e rivide di fronte a sé un giovane uomo che lo guardava con occhi grigi e stanchi. Si fissò le mani, e non sapeva ancora come fosse successo ma avevano premuto il grilletto, e lui aveva chiuso gli occhi e poi li aveva riaperti, e l’altro era ancora lì, ma adesso a terra, gli occhi grigi spalancati, la bocca in una smorfia di dolore, il sangue che usciva dalla spalla e sembrava non finire più. L’uomo sconosciuto aveva lasciato andare una lacrima, che gli aveva attraversato la faccia ed era scivolata via, poi aveva chiuso gli occhi, ed anche lui era scivolato via.
Quella bambina con lo sguardo fiero e interrogativo era la nipote del soldato a cui aveva sparato. Distolse gli occhi da Teresa e da quel pensiero.
Perché non mi rispondi? Non sai parlare?”. Tenace, ed anche un po’ sfrontata.
La gamba fa male?”, chiese lui senza guardarla.
Cosa fai, cambi discorso?” proseguì lei, ormai decisa a sfidarlo. “Comunque grazie per avere curato la mia gamba rotta” aggiunse poi seria, accarezzando la fasciatura che le avvolgeva la gamba fin sopra il polpaccio. “Non è rotta” rispose sibillino lui, sempre senza guardarla.
“E allora cosa si è fatta la mia gamba?”. “Non lo so. Io non sono un dottore, ragazzina.”
Solo adesso Teresa si accorse che l’accento di quell’uomo aveva un suono lontano. Come lontano era il suo viso. Nulla in lui le era familiare. Quella persona non era suo nonno.
Una dolorosa consapevolezza la fece alzare dal letto e tentò di mettersi in piedi. Quando provò a camminare, zoppicava vistosamente ma riuscì comunque a fare qualche passo.
Non hai una gamba rotta, ma non devi sforzare”. Sforzare. Non devi sforzare. La diga si ruppe.
Certo che mi devo sforzare! Io devo trovare mio nonno. Mio nonno, capisci? Il padre di mio padre. Era un soldato che ha combattuto la guerra su queste montagne, è partito e non è più tornato. Lui doveva sposare mia nonna. La madre di mio padre. Io mi chiamo Teresa come lei. Lei mi parla sempre di nonno Bruno, dice che io gli assomiglio. Mia nonna ha una fotografia, la guarda sempre, e io lo so che aspetta che lui ritorni. Ma lui non è più tornato. Mio padre non lo ha mai conosciuto. Nessuno sa che fine ha fatto. Solo i monti lo sanno. La gente dice che è morto ma io non ci credo, neanche nonna Teresa ci crede. Io lo so che mio nonno è vivo, forse è stato ferito e ha perso la memoria, e sta aspettando quassù da qualche parte che veniamo a riprenderlo. E io ho deciso che è arrivato il momento. Così stamattina mi sono svegliata prima di tutti e sono uscita di casa e ho camminato verso la montagna, e sono venuta sempre più su. Poi sono caduta e adesso sono qui con te che però non sei mio nonno, quindi devo proprio andare. Io devo trovare mio nonno, nonno Bruno Ardini”.
Teresa aveva parlato tutto d’un fiato. Elias adesso la stava guardando. Aveva ascoltato ogni parola, ed ogni parola aveva scavato voragini. Bruno Ardini. In quell’alba lontana si era avvicinato, i suoi occhi erano scivolati sulla piastrina appuntata sulla divisa dell’altro. Ardini, c’era scritto. Il sangue che colava a fiotti la ricopriva e le dava sfumature color vinaccia.
Non sono tuo nonno. Però l’ho incontrato”. Gli occhi di Teresa si spalancarono, la bocca aperta in attesa che le parole trovassero una via per uscire.
Elias la guardò. Non sapeva che direzione avrebbe preso la loro conversazione. Ma lo sguardo di attesa e meraviglia della bambina lo colpì come un pugnale, e ne sentì quasi il dolore, al centro del petto. Si ritrovò di nuovo lì, nel bosco, soldato di ventuno anni, in un paese che non era il suo. Davanti a lui un uomo, riverso a terra, sangue che usciva dal corpo, dove una pallottola aveva colpito. Il tempo di guardare quegli occhi chiudersi su una lacrima. Di leggere un nome su una piastrina. Poi era scappato Elias, aveva corso per ore, e si era fermato solo quando le gambe avevano ceduto per lui e lo avevano lasciato con la faccia sprofondata nella terra, completamente fradicio di sudore, di lacrime, di urina.
Hai ammazzato un uomo, rimbombava la voce dentro il suo cervello. Ammazzato. Gli hai sparato tu. E sarebbe morto anche lui, Elias Meyer, se il vecchio Giovanni non lo avesse trovato, smarrito e bagnato come un bambino. Giovanni e Marta, marito e moglie, vivevano sui monti. Non avevano figli. Avevano la terra, una terra dura che Giovanni lavorava con amore e ostinazione. Dicevano che la guerra era brutta, ma che prima o poi sarebbe finita, come tutte le cose. Giovanni aveva portato Elias a casa tenendolo sottobraccio, aveva tirato il collo a una gallina e Marta aveva preparato un buon brodo caldo. Elias non aveva parlato per giorni, e nemmeno loro gli chiedevano nulla, perché anche se erano persone semplici capivano che non era il tempo delle parole. Quel soldato non era uno di loro, era stato partorito da un’altra terra, ma non importava. Era un uomo solo, un vagabondo senza casa, un figlio senza genitori. Forse aveva ucciso, ma la guerra stava uccidendo anche lui. I due vecchi dal cuore buono se lo fecero bastare. Così Elias era rimasto lì, le settimane erano diventate mesi, i mesi anni. E quando morirono, lui li pianse come un figlio, e li seppellì fuori, uno accanto all’altra, in quella terra fredda e dura e tanto amata.
Ma quando lo hai incontrato? Dov’è adesso? Dov’è mio nonno?”. La voce di Teresa lo scosse.
Non lo so. Ma continua a cercarlo, ragazzina”. Elias aveva trovato quella risposta in un angolo sacro e remoto del proprio cuore. Si avvicinò alla bambina e le prese una mano. Ci mise qualcosa dentro. “Questa appartiene a tua nonna, appartiene a te”. Quando Teresa la aprì, vide una specie di  targhetta ingiallita dal tempo, il nome di suo nonno in lettere maiuscole. Elias l’aveva raccolta a terra un giorno in cui era ritornato là, a cercare il punto dove la sua mano aveva sparato. Quelle montagne gli erano sconosciute eppure il luogo lo aveva ritrovato subito. Il volto di quel soldato lo tormentava ogni notte, doveva tornare dove tutto era iniziato, anche se che era assurdo aspettarsi di trovare qualcosa. Eppure qualcosa Elias lo aveva trovato. La piastrina militare luccicava a terra, con quel nome che rimbombava ossessivo nella sua mente. Bruno Ardini. L’aveva girata tra le dita. Poi un rumore lo aveva fatto sobbalzare, e quegli occhi grigi erano di nuovo su di lui. Il giovane uomo, quel soldato. Si erano guardati senza parole. Poi l’altro era scomparso, veloce come un lampo. Era stato reale? Era stato un sogno? Era un fantasma? Dopo quarantadue anni, Elias Meyer ancora non lo sapeva. Solo i monti lo sanno, pensava. Non lo aveva più rivisto. Ma ogni volta che camminava su quei sentieri sentiva uno sguardo grigio su di lui, e allora forse Bruno Ardini era davvero lì, a guardarlo, ad aspettarlo, a perdonarlo. Elias sapeva che erano legati per sempre, fratelli di guerra, e che avrebbero vissuto in eterno su quelle montagne.
Adesso saltami sulle spalle. Non puoi camminare fino al paese. Ti riporto a casa.” La voce dell’uomo non ammetteva repliche e questa volta Teresa si arrese. Scesero verso il paese, la bambina in groppa all’uomo che aveva virato il corso della sua vita. Quando furono vicini, lui la fece scendere e la guardò, prima di voltarle le spalle e di andarsene. In quell’ultimo sguardo Teresa aveva letto qualcosa, anche se non sapeva dire cosa. “Continua a cercarlo”, sussurrò una voce nel suo cuore. Poi le braccia di nonna Teresa la strinsero e lei si sentì a casa. Ripeté il gesto di quell’uomo, prese la mano della nonna, ci mise dentro la piastrina, le disse “questo ti appartiene”. La donna accarezzò ogni lettera di quel nome tanto amato, rimandando le domande al giorno dopo. La sua piccola era tornata a casa, sana e salva. Era tornata.
Nonna Teresa diede un ultimo sguardo verso la montagna. “Ti aspetterò sempre”.
“Torno e ti sposo”, le sembrò di sentire. Forse era stato il vento, o forse no. Ma solo i monti lo sanno.
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