Segnalato 7 28
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato
CIMA BRENTA
di Borsoni Paolo
Ancona (AN)
«Questo è il tratto più bello del sentiero!».
È la tua voce che sento mentre attraversiamo il bosco di faggi. Salendo ancora sfioriamo betulle, larici, pini mughi con le punte slanciate verso l’alto a sfidare il cielo, abeti con foglie aghiformi, strette a pugno ad accarezzare il suolo. Ci arrampichiamo su pietraie, cenge, ghiaioni. La scalata è lunga ma non difficile. Abbiamo superato pareti di roccia tra massi che offrivano buoni appigli. Adesso ci inerpichiamo lungo una rampa centrale con alcuni tratti molto esposti. Sudando per la bella giornata già estiva arriviamo all’ultimo tratto verticale. Qui ci leghiamo. In alcuni punti avanziamo assieme. In quelli più ardui, scaliamo uno alla volta, col secondo fermo su un terrazzino di roccia per fare sicurezza.
Quando infine spuntiamo su una lastra di basalto scuro, la vista si apre su un orizzonte infinito di vette ancora innevate.
Ogni volta che arrivo quassù, mi sento aprire l’anima, la mente. Guardo queste montagne con un senso di leggerezza, di stupore, come se fosse sempre la prima volta.
Poi sfilo il sacco dalle spalle e lo poso a terra.
Con cura apro il sacchetto del pranzo. M’accorgo che in silenzio tu mi osservi. Hai in viso un’espressione spavalda, scuoti la testa; hai le labbra increspate in un sorriso ironico.
«Ci fermiamo qui?» chiedi sorridendo.
Ti guardo, perplesso.
«A me va bene qui» rispondo.
Tu continui a scuotere la testa sempre con quell’aria ironica.
Poi, senza aspettare altre indicazioni di possibilità, di alternative, in fretta sfili anche tu lo zaino; ma non ti fermi a riposare; senza dire né a né ba, non lasciando tempo al tempo né spazio a osservazioni o a obiezioni, scattante come un gatto ti stai già impegnando ad arrampicarti ancora più su; è la tua interminabile, la tua infinita sfida al cielo (e forse in fondo in fondo anche… a te stesso).
Io distendo per bene la mia leggerissima stuoia al suolo. Mi guardo attorno per far mio con tutta la sua bellezza il paesaggio che mi circonda, e intanto prendo a sgranocchiare con gusto il mio succoso panino farcito. Crogiolandomi al sole, rallegrandomi a riconoscere come vecchie amiche le cime innevate più alte, ringraziando gli dèi per questa grazia sublime di essere arrivato ancora una volta qui, fin quasi in cielo, ti auguro: “Buona scalata, amico mio!”.
Prima della vetta ci sono ancora tre passaggi di quinto. Per oggi ho scalato abbastanza. Per me venire in montagna è cercare di star bene con me stesso, con il mio corpo, nell’intimo, non compiere ogni volta una grande impresa da ricordare e da raccontare.
Dopo due ore e mezzo riappari. Sei fresco, tranquillo, sorridente, esattamente come quando siamo partiti! Sembri davvero indistruttibile, una specie di Bronzo di Riace montanaro. Il tuo viso è illuminato da una soddisfazione solare per l’ascensione sulla cima più alta di questa catena di monti. Un sorriso ironico aleggia come sempre sulle tue labbra, stavolta chiaramente rivolto al mio quieto e placido far niente: due ore e mezzo a guardarsi in giro, steso su una stuoia in montagna a leggere un libro!
«Allora?» domandi, quasi ti fossi debitore ancora da due ore e mezza della risposta a una tua domanda.
«Allora cosa?» chiedo, rialzando gli occhi dal libro, un po’ scocciato da questo tuo permanente atteggiamento quasi ghignante di superiorità.
«Allora niente naturalmente!» concludi, e scuoti la testa divertito.
Io faccio segno di sì col capo e anch’io scuoto il capo per il tuo atteggiamento amichevole, ma anche da presa in giro.
‘Allora’ era l’inizio di settembre.
‘Adesso’ è pieno inverno e sta nevicando.
M’inerpico sul sentiero e a ogni passo sprofondo nel manto alto di neve fresca.
Fa freddo. Eppure il bosco è ancora più magico di sempre in questo silenzio intenso, in questo lucore quasi lunare, nell’atmosfera sospesa, d’incanto, di mistero quasi foriero di pericoli imprevedibili.
Avanzo sul costone innevato sussurrando a fior di labbra: «Carissimo amico mio, come vorrei che io e te avessimo scalato insieme questa montagna tante, tantissime altre volte, che avessimo compiuto questa ascensione quasi a memoria tra boschi magici di faggi, attraversando cenge esposte, su creste sottili sospese sul vuoto, come in bilico da equilibristi sfidando sempre il pericolo, il vuoto, sul filo di strapiombi su cui tu avanzavi in ogni occasione sorridente con la tua inattaccabile spregiudicatezza, con la certezza di essere superiore a qualsiasi rischio, sfidando sempre il destino, gli dèi, la paura che per te era qualcosa che non esisteva neppure».
M’inerpico in mezzo a pini mughi ricoperti di scaglie di ghiaccio.
Mentre salgo e mi avvicino all’ultimo tratto verticale, la vegetazione si dirada.
Quando giungo ancora più in alto, spira un vento fastidioso, continuo, gelido.
Mi accorgo di avere sempre più freddo, più di quanto m’era mai capitato in precedenza, in altre escursioni d’inverno.
Con sorpresa vedo che sul braccio sinistro rivolto verso settentrione, da dove il vento soffia incessante a folate gelide, si sta formando un velo ghiacciato di brina.
Mi fermo. Sono perplesso. Sono solo. Se mi succede qualcosa non potrei chiedere aiuto a nessuno. Di sicuro quassù non c’è campo per nessuna chiamata dello smartphone. Muovo su e giù il braccio per far circolare il sangue, per vedere se ho qualche problema di congelamento. è una situazione anomala che non mi aspettavo; qualcosa che mai mi era accaduto in precedenza. Rifletto sul da farsi. Sono indeciso se tornare indietro. Magari se procedo ancora rischio davvero il congelamento del braccio.
Poi strofino via la sottile lastra ghiacciata che si è formata sulla manica. Estraggo dallo zaino un K-way, che tenevo di riserva, un passamontagna, un altro paio di guanti. E li indosso sopra i vestiti che avevo già addosso.
Bevo parecchie sorsate di tè caldo. E riprendo a salire.
Quando riesco a spuntare sul lastrone di basalto su in alto, i paesi del fondovalle sono già immersi nell’oscurità.
Il paesaggio qua attorno è plumbeo, dà i brividi, incute davvero timore. Mi batte a velocità folle il cuore. «Ti assicuro, amico mio, che è stata un’impresa oggi arrampicarsi fin qui: nevica così fitto che non si vede quasi più nulla».
Poi non aggiungo più una parola; non ho nessuno oggi vicino a farmi compagnia con la sua arguzia, con la sua spavalderia, con l’amicizia che non potrà essere sostituita. M’inerpico ancora fino a giungere proprio sulla piccola vetta.
Sfilo il cappello fradicio di sudore.
Mi passo il dorso della mano sullo zigomo per asciugare una lacrima e, mentre mi si calma lentamente il respiro, resto così in silenzio per un po’ di tempo a pensare, a riflettere. Scuotendo la testa raggrumo le labbra, meditando sulla vita e sul destino.
Osservo questo paesaggio di montagna: è immenso, ma ora è quasi triste nel suo grigiore, è sublime eppure incombente, stupendo e misterioso. è stata un’impresa oggi giungere fin qui da solo.
Dopo un po’ mi riavvio, riprendo la mia escursione, scendendo sul ciglio del precipizio di questa montagna d’inverno. Nel gelo passo passo m’ingegno di non precipitare nel vuoto.
È ancora inverno. Anche ora sto scalando una montagna, una Montagna Impossibile.
Col cuore in gola affronto questa Montagna tremenda. Mi sto inerpicando in tutti e suoi cinque piani che si susseguono l’uno di seguito all’altra. Ci sarebbe l’ascensore in quest’immensa cupola di cemento armato. Ma io non prendo mai scorciatoie, faccio tutto a piedi nel modo più lento che mi riesce.
In questa Montagna Impossibile, tu ora stai tentando l’ascensione più ardua di tutta la tua vita.
Quando ti raggiungo, stai dormendo. Hai gli occhi socchiusi. Ti hanno riempito di intrugli.
Dopo un po’, quasi presentendo la mia presenza vicino a te, riapri le palpebre. Mi guardi, scuoti la testa, sorridi.
Io mi chino su di te e ti abbraccio.
Ridi divertito per tanta espressione di calore fraterno, per quest’affetto mai esibito in precedenza in modo così esplicito nella nostra rude e virile amicizia.
«Fra poco arriva la sbobba! - ti dico sorridendo. - Devi mangiare! anche se non ne hai mai voglia. Mangia! Che sei secco come uno stecco!».
Fai segno di sì con il capo; continui a sorridere, a scuotere il capo, a esprimere ironia, a prendermi in giro per la mia sollecitudine quasi materna, pensando che sono sempre troppo preoccupato per quello che accade e per quello che potrebbe capitarci.
«Poi in primavera - aggiungo - riprenderemo a scalare insieme! A giugno faremo insieme Cima Brenta!».
Le tue labbra si atteggiano a un sorriso divertito. I tuoi occhi brillano d’ironia e di amicizia; mi osservi sorpreso per la mia inusitata intraprendenza di scalatore di punto in bianco instancabile, che propone ascensioni difficili, lunghe, con corde doppie sul tratto di ritorno in mezzo a tratti ghiacciati: davvero una novità!
(“Carissimo amico mio, penso guardandoti con un sorriso anch’io sulle labbra e con l’angoscia nel cuore, anche in questa tua scalata tanto ardua io tento di rimanerti vicino; sento il fiato corto, il cuore che mi palpita a tamburo nel petto; mi manca quasi il respiro. Tu stai affrontando di slancio anche quest’ultimo passaggio, il più arduo della tua aspra ascensione, la scalata più difficile di tutta la tua esistenza. Ma anche appeso a un filo sottilissimo e che di giorno in giorno si sta assottigliando, sembri sempre prenderti gioco in ogni caso con ironia di qualsiasi cosa, anche della sorte, qualsiasi essa sia. Irridi gli dèi invidiosi del tuo splendore, della tua forza, della tua bellezza di Bronzo di Riace montanaro e scalatore. Beffeggi chi ha deciso di farti pagare la tua spavalderia di eroe quasi invincibile dei monti. Quali insegne di ordine cavalleresco ti appunteranno sul petto per questa tua sfida irridente al destino? Quale encomio di valore alpinistico ti verrà rivolto per il coraggio con cui affronti come sempre anche quest’ultima montagna che stai sfidando, questa Montagna Impossibile?”)
È di nuovo l’inizio dell’estate sulle nostre montagne. La nebbia mi ha accompagnato fino all’imbocco del sentiero. Ma ora è apparso il sole.
Risalgo il crinale tra i boschi che fremono della loro nuova vita, del verde sgargiante dell’erba e delle foglie. Avanzo su in alto fra ghiaioni, ancora ricoperti qua e là da cumuli di neve e da strati di ghiaccio.
Man mano che acquisto altitudine la vista si apre su un orizzonte di vette innevate: il Catinaccio, il Sella, la Marmolada, l’Adamello, le Odle.
Gli occhi si deliziano di tanta sterminata purezza, di tanta fine bellezza.
Arrivo al lastrone di basalto prima dell’ultimo strappo senza eccessiva fatica.
Qui mi fermo. Riprendo fiato. Ma stavolta non tiro fuori la mia leggerissima e preziosissima stuoia per leggere un libro, l’ho lasciata a casa; tiro fuori invece moschettoni, rinvii e quattro cordini.
E così mi arrampico ancora più su. Salgo con irruenza, ma con calma e con impegno, sentendo in cuore anche timore.
Prima del passaggio più difficile mi riposo a lungo.
Non c’è nessuno oggi a farmi sicurezza.
Infine tiro su me stesso con tutte le forze che ho in queste mani, in queste braccia. Tremo tutto. Mi schiaccio sulla parete. Mi manca il respiro. È inimmaginabile il peso che sopportano in questi istanti le mie mani. A queste dita, che si tendono, si avvinghiano, si aggrappano come artigli agli spuntoni minimi di roccia, in questo momento sono affidati tutto il mio corpo e la mia vita. Faccio il contrario di quanto suggerisce il buon senso: dovrei non rischiare, dovrei fermarmi, tornare indietro, il che sarebbe già un grosso problema alpinistico. Ma invece non mollo la presa e mi tiro ancora più su. Riesco a superare a fatica, una fatica estrema, mai provata prima in nessun’altra attività, in nessuna scalata, il passaggio quasi impossibile.
Poi tiro il fiato. Dopo un po’ riprendo a salire. M’inerpico su tre passaggi più facili. E infine raggiungo la cima, che dovevamo scalare assieme io e te, amico mio.
Alla croce hanno appeso un nastro che sventola al vento come sull’Himalaya. E mi sembra davvero di essere giunto in cima alla vetta più alta della terra, al mio personale Himalaya.
C’è un’aria fresca con un vento continuo che permea ogni atomo del mio corpo e s’intride fino all’anima.
Fradicio di sudore mi passo il dorso della mano sullo zigomo per asciugare.
Mi guardo attorno: il cielo, le vette, l’immensità. E resto così in silenzio per il mio amico. Scuoto la testa a pensare come il destino sia così ingiusto, così tremendo con chi ha vissuto senza mai fare del male a nessuno, portando solo amicizia, aiuto a chi gli stava a fianco.
Quando mi riavvio e m’incammino lungo la cresta innevata, vengo pervaso dall’emozione di volare sopra un mare immenso di nuvole. Qualche striatura di grigio, ma qui il sole sfolgora come in un vivido altare. Lungo i declivi di quieta dolcezza mi sento più solo di quanto mai mi sia sentito in vita mia, eppure vivendo fino in fondo, fino ad ogni atomo del mio essere, il mio essere qui, nuvola fra le nuvole, cristallo di brina nella sacralità della montagna: un piccolo grumo di libertà nell’universo infinito.