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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato
MUSICA PER GLI SPOSI
Paloschi Angelo Francesco
Mestre (VE)
Potremmo sposarci qui, Maria, su questo tappeto verde srotolato dal creatore. C’è il fruscio allegro del torrente, sentissi che meraviglia. Il prete potrebbe sistemarsi laggiù, sul masso dove ho lasciato la manera, è piatto come un tavolo, ci stanno il calice e le ostie. Che ne dici, ci pianterei una croce ben fatta, di larice chiaro, che ti piace tanto. Nessuna spesa per i fiori, amore mio, ne avremmo di tutti i colori, più vieni in alto e più i fiori sono accesi, per attirare svelti gli insetti prima che arrivi il freddo. Ci sarà un concerto, sai, sapessi che musica fanno qua sopra! Non ci si può credere allo schiamazzo degli uccelli, mi sa che lo fanno apposta, sti narcisi, appena tendi l’orecchio loro alzano i gorgheggi, un repertorio da perderci le ore. Uh, eccolo lì, è sfrecciato adesso nell’aria, sarà una cincia o un fringuello? Lo cerco ma non lo vedo più, il furfante, non ne vedo neanche uno eppure, lì tra i rami, ce ne sono a centinaia. Al mattino e al tramonto si sgolano eccitati. Ta-tarata-tarata-tarata. Pi-pi-piii. Chiu-iii, chiu-chiu-iii. Ci fossi qui tu, amore mio. Uno deve udirla, la montagna, la sua voce pulita. Domani è domenica, potremmo venire quassù insieme, se ti va, sempre che in paese non ci sia troppo fieno da fare.
Per i cumuli in cielo non c’è un suono da ascoltare, son taciturni loro, si fanno e si sfilacciano con calma, in un abisso di silenzio. Fossi qui a guardarli, Maria, questi fiocchi gonfi stagliati nell’azzurro, bianchi come nessun altro bianco al mondo, fossi qui a guardarli tu, con la tua bella fantasia, chissà quante storie sapresti tirar fuori. Ci si provava, io e Vincenzo, a trovare storie in cielo, con le nuvole o le stelle, nei turni di vedetta, nelle pause all’aperto, ma cosa vuoi. E poi la musica era un’altra, non c’era un prato soffice, niente ruscello né larici, scorreva via la giovinezza a dire quello che mancava.
Buon Dio, che belli i larici! Hanno rami lunghi e morbidi come i tuoi capelli bruni, basta un alito di vento e oscillano nell’aria. Sembra una danza, un valzer elegante, vanno al ritmo dell’orchestra del Padreterno. Faccio ridere, Maria? Lo so, ma cosa importa, mi va di esser poeta, saranno questi suoni, queste note naturali, la musica dei boschi che mi guarisce le orecchie. Quando finisco di tagliare lascio che prima scendano a valle gli altri, io devo distendermi un poco nell’erba, sono le montagne a invitarmi ad ascoltare. Mi fan sentire il loro canto, quello vero, mica lo schifo che ci toccava a me e Vincenzo. Non era la montagna a generare quel tormento, sono passati dei mesi ma mi vibra ancora dentro i timpani. Un giorno mi verrà la forza, e allora questa storia mi riuscirà di raccontartela. Oggi ancora non posso, quel suono nella mente mi farebbe a pezzi la voce.
Durava un’ora lunghissima, il turno d’angoscia nel budello. L’orologio non girava. Era toccata a noi, l’angoscia più enorme e buia che un uomo può sperimentare. Chi può stare in ascolto del rumore della morte? Noi invece dovevamo, amore mio, solo quello era il compito, il geofono all’orecchio e gli occhi sbarrati sulla roccia. Il caffè sul seggiolino che tremava nella tazza. Nella testa strisciava la paura e sopra il corpo le gocce d’acqua della volta. La puzza che c’era non si può raccontare, un puzzo marcio da rivoltare lo stomaco, odore di uomini sporchi, di motori a benzina e martelli pneumatici, di candele che ci facevano neri di fumo. Pensare che l’aria fuori era così trasparente che si scorgevano i monti fino al Trentino. Vincenzo mi raccontava che le montagne, lui, dalla sua Torino, le vedeva altro che bene, o meglio, le avvistava dai campi fuori città, prima della chiamata in guerra faceva il contadino e si era rifiutato di andare a chiudersi alla Fiat. Ripeteva spesso questa cosa, della fabbrica infernale, così la chiamava lui, mentre stavamo lì rinchiusi come topi nella fogna. Sulle montagne non c’era mai salito, Vincenzo, ma le conosceva, a suo dire, e lo sosteneva convinto, solo perché sapeva il nome di tutte le cime in lontananza, e d’inverno il ghiaccio, assicurava, gli sembrava di toccarlo. Che razza di matto era Vincenzo. Grande e grosso come un tronco. Suonavamo insieme nella fanfara e il suo testone con la tromba spuntava alto in mezzo al gruppo. Avresti dovuto vederlo, Maria, il primo inverno in Cadore, in mezzo ai metri di neve che dovevamo spalare. Certe volte si fermava a guardare e se la rideva a bocca aperta, come un bambino.
Senti che venticello. Non sai la fortuna di poter respirare quest’aria, mia cara, questo flusso libero e sano, gli facciamo gonfiare e sgonfiare i polmoni come fosse una cosa da niente e invece è un regalo del creatore, un capolavoro di madre natura. Dove manca l’aria si ferma il cervello, e mi vengono i brividi a ricordare i pensieri che facevamo là sotto, dove la guerra inquinava la mente. Come lupi nelle caverne, eravamo ridotti. Ci hanno imposto una condotta immorale, raspare la montagna, grattare e far esplodere la roccia per andare a uccidere altri esseri umani, schiere di giovani uguali a noi altri. E dover stare a spiare come scavava il nemico, per venirci a colpire, a chiuderci gli occhi per sempre, noi che negli occhi avevamo la stessa polvere bianca, la stessa umidità nelle ossa, e come loro lo straccio sulla bocca, un accessorio che non si concedevano né i generali nostri né i loro. Nella testa bacata degli alti comandi, alle montagne che ci regalavano bellezza noi si doveva sventrare le budella, crivellare i pascoli di bombe, deformare le cime, credo con l’unico fine di conquistare gli spazi per le tombe del regno e per quelle dell’impero.
Maria, mia futura sposa, bisognerà che un giorno ti porti su al Falzarego, a prender visione dello scempio, dobbiamo solo lasciare che passi qualche tempo. Non sono facili da digerire il sangue e la pietra. Per devastare la montagna c’erano tecniche precise, dentro la pancia del Lagazuoi noi italiani avevamo i compressori e con i martelli pneumatici scavavamo veloci, mentre i soldati austroungarici usavano mazze e picconi, le loro gallerie erano più strette e il ritmo d’avanzata più lento. Entrambi, in quei visceri di dolomia, usavamo tonnellate di esplosivo, per far saltare tutto in una frazione di secondo, in quel paradiso che c’erano voluti millenni a costruirlo. La guerra, amore mio, oltre che il mostro della storia è un sacrilegio meschino. Sul fronte verticale dove ci eravamo cacciati, noi alpini occupavamo una cengia a metà parete e gli austroungarici stavano trecento metri più in alto. Dagli elevati osservatori sull’altro versante, muniti di binocolo, i nostri tenevano d’occhio i soldati imperiali e aggiornavano per telefono gli ufficiali. Studiando il materiale che portavano fuori le carriole si aveva la misura, dall’Averau, della progressione nemica nel ventre del Lagazuoi. Noi, dall’interno, dovevamo indovinare la direzione e la distanza degli scavi, ascoltando i colpi, le vibrazioni della roccia, con l’ansia che da un momento all’altro ci facessero saltare, o che finissimo intrappolati vivi in un sepolcro di pietra. Ci si logorava dentro giorni sempre uguali, poca luce e molto buio, sempre più incastrati in una notte smisurata, nella speranza che gli altri continuassero a scavare, dato che, per assurdo, quello era un buon segno. Il silenzio era minaccia. A ogni silenzio troppo lungo trattenevamo il fiato, perché poteva essere il preludio dell’esplosione finale.
E’ una benedizione il lavoro che facciamo, Maria, non avremo grandi ricchezze ma possediamo la pace, abbiamo bisogno di pace come i polmoni dell’ossigeno. Che immensa idiozia, se ci si pensa, è stato sprecare tanta vita e tanta energia per contendersi montagne di cui nessuno potrà mai essere padrone. Solo la pace porta giornate che hanno un senso, tu puoi falciare l’erba e raccogliere il fieno, prendere il latte e il suo profumo, farne uscire quel miracolo che è il nostro formaggio, e io posso venire quassù, con gli altri uomini, senza rischiare che qualche bomba ci massacri, liberi dall’orrore e dall’angoscia, a governare i boschi e a far legna per l’inverno, la legna generosa che donerà calore al paese. Chissà cosa staranno facendo gli altri soldati tornati a casa, chissà cosa facevano i morti prima della guerra. Quanti mestieri, quanto impegno, quanto bene sincero hanno la colpa di distruggere i loschi signori della guerra.
“Intorno a Torino i ragazzi più stupidi lavorano la campagna con gli occhi che sognano la fabbrica”, dichiarava Vincenzo muovendo in aria quelle mani che sembravano badili. Diceva di non conoscere un mestiere più onesto e necessario di seminare e far germogliare la terra. La fidanzata di Vincenzo si chiamava Rita e a uno veniva da immaginarsela bella come una regina, dalla luce che, parlando di lei, gli illuminava il grugno da cavallo. Chissà qual era la verità, ma guai a chi dubitava. Non si stancava di ripetere che voleva sposarsela appena tornato a casa. La guerra faceva entrare in confidenza, si sa che mettere il cuore sul tavolo aiuta a spartire la paura. Avevamo stretto un’amicizia sincera, io e Vincenzo. In segno d’amicizia, tra quelle rocce anguste, ci si scambiava qualche effetto personale e lui mi diede da tenere uno dei suoi bocchini per la tromba. Io avevo solo il mio misero flauto, preferii lasciargli in custodia una mia penna, quella più nuova, con tanto di serbatoio, me la facevo ridare quando gli scrivevo le lettere da spedire a casa.
Le campane! E’ ora di andare. Che bel suono fanno, le nostre campane, anche in lontananza sanno di casa. La manera la infilo sotto gli alberi per domattina, assieme alle altre, qui dove ho lasciato la corda e il zapin. Ecco, Maria, arrivo, ho pensato che scendo e vengo a casa tua per un saluto. Così la finirò di rivangare e magari mi uscirà dalla testa sto rimbombo del demonio che mi si è acceso, sempre lui, si mette in mezzo, mi perseguita da mesi, è il rumore della sera maledetta, delle trenta tonnellate di tritolo. Il fragore della montagna che si squarcia nel buio, lo scroscio del pietrame, la cengia che trasmette il terremoto alle suole, lo strato di polvere sui nostri corpi, il gas velenoso che serpeggia nell’aria, l’atmosfera densa impregnata di calore. Non ti immagini, Maria, che apocalisse. Ci colse improvvisa ma non inaspettata, aveva dato i suoi segnali, come la grandine in quota. Arrivò dopo una pausa di silenzio micidiale in cui i crucchi si percepivano come ad averli lì davanti, intenti a preparare la camera di mina, l’esplosivo, la miccia, sgomenti ma coraggiosi, gli stessi volti giovani di quando, mandati dai loro ufficiali, si calavano in parete con le corde, appesi nel vuoto, pazzi, disperati, per lanciarci le bombe dall’alto, urlando in tedesco, o in ungherese, presumo, agitati come scimmie sulle liane, logorati e confusi quanto noi che stavamo sotto a mitragliarli, a rendergli pan per focaccia con il piombo e con le nostre fibrillazioni nascoste nel petto.
Conobbi la notte più cupa, quella notte di maggio. Per me che stavo con gli altri a cantare all’estremità integra della cengia, non avendo la forza d’andare in cerca del flauto, l’esplosione più atroce fu l’assenza di Vincenzo. Sì, Maria, amore mio, proprio così, dopo lo scoppio ci avevano mandati a suonare, il maggiore Ettore Martini, che era un grand’uomo, unico alto ufficiale che stava sul campo con noi, in mezzo al fumo e alla confusione diede ordine alla fanfara del Val Chisone di suonare al massimo del volume, per farci coraggio e impressionare il nemico, e chi non aveva strumenti doveva usare la voce. Barcollanti, simili a spettri vestiti di polvere, e meravigliati di esser vivi, intonammo E tu Austria che sei la più forte fatti avanti se hai del coraggio, ma io che non vedevo più Vincenzo, che non sentivo la sua tromba, cantavo con gli occhi umidi e la voce che tremava. La musica risaliva la parete, intrepida e surreale, e davanti a noi si consumava la battaglia, un fuoco incrociato di colpi e di grida che infiammavano la cengia come un inferno. Riuscimmo rapidamente a contrastare l’incursione, vennero su a darci man forte anche dal passo sottostante, i nemici furono sbaragliati con un apice di ardore bellico e quelli che si salvarono risalirono tremanti il budello. Poveri cristiani anche loro, sti disgraziati degli austriaci, usciti dal buco in cerca di gloria fecero la fine delle formiche stanate nella dispensa. Vincenzo era rimasto nei pressi dello scavo con un manipolo di volontari, pronto ad accoglierli per primo. Il suo corpo dev’essere ancora lì, sotto la frana. La montagna lo tiene con sé e a chiudersi in fabbrica non ci andrà mai. Io feci una fatica enorme a partecipare alla battaglia, quella sera, più che aver voglia di vendetta ero schiacciato dal dolore. Fu una notte eroica, a detta di tanti, per me resta la notte in cui ho perduto Vincenzo.
Mentre cammino verso valle ho nello sguardo il paese, la montagna dipinge scenari che rinfrancano il cuore. Calando piano sui crinali il sole esalta i dettagli e i colori, è la cura migliore che conosco per lavare via l’assurdo, il buio di quei cunicoli da cui non sono uscito del tutto. In certe sere come questa mi si bagnano gli occhi, non sento il dovere di vergognarmi. Dalla roccia che trema non ho staccato l’orecchio, dell’odore di morte ho ancora piene le narici. Maria, mia gioia, mio amore più grande, io e la montagna ci prenderemo del tempo, l’aria libera dei boschi ha un’infinità di melodie, molte raccolte di poesie da farmi ancora sentire. Mi piacerebbe tanto che salissimo un po’ insieme, ti porterei a toccare quel prato meraviglioso, vicino al torrente, ascolteremmo quei concerti diretti dal creatore.
Un giorno ti racconterò questa storia, Maria, ne troverò la forza, e ti chiederò un favore: in un angolo sopra l’altare delle nozze vorrei posare il bocchino da tromba di Vincenzo. Cosa vuoi, io lo so che tra la gente vedrò spuntare il suo testone. Non ho dubbi che al matrimonio sentiremo quel matto suonare.