Segnalato 3 28 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Segnalato 3 28

Tutte le edizioni > Edizione28
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato

LA BONIFICA DEL VERSANTE OCCIDENTALE

di D'Amore Michele
Milano (MI)


L’incendio scoppiò nella notte.
Fu anche per questa ragione che, in paese, nessuno se ne accorse nel breve periodo.
Partito dal lato destro della statale che attraversa la valle, rallentato dal buio e dall’umidità dell’ora, ci mise del tempo prima di svilupparsi tra la vegetazione secca e bruciata dalle correnti d’aria autunnali.
Il primo ad accorgersene, fu Manlio.
L’uomo aveva mandato via gli ultimi avventori un paio d’ore prima, chiudendosi dunque in cucina per le pulizie di fine giornata.
Riemerso dall’intenso lavoro della sua birreria, si affacciò sull’ingresso verso le tre e mezza, respirando un forte odore di fumo, diverso dall’aroma dolce dei caminetti del circondario.
Voltandosi a destra, oltre la linea d’asfalto della statale, notò un bagliore rossastro, inconfondibile.
Tornare dentro al locale e digitare il numero d’emergenza fu un attimo; ma ormai l’incendio si era già attaccato alle prime creste, correndo in salita senza nessuno sforzo, trascinato da invisibili correnti ascensionali che ne favorivano l’ossigenazione.
L’uomo, lasciato aperto l’ingresso con noncuranza, camminò come in tranche fino alla strada, attirato dal crepitare e dalle tinte vivide delle fiamme.
Rimase così, fermo, nel freddo della valle, fino all’arrivo delle prime camionette che, vista l’ora, non avevano neanche attaccato le sirene e si erano limitate a illuminare le strade col blu dei loro lampeggianti.
“Corre eh” disse il primo operatore che, sceso dal mezzo, si apprestava a indossare il sottocasco ignifugo, il casco e i guanti.
“Riuscite a raggiungerlo da qui?” domandò l’oste, con le mani sui fianchi, tranquillizzato dall’arrivo dei soccorsi.
“Non credo, il fronte è corso via, lo vede come sale? Tutto quello che possiamo fare è bonificare la zona. E attendere la luce dell’alba per il supporto aereo”.
“In cima c’è il rifugio Cartoni” commentò, laconico, l’uomo, senza aggiungere altro.
“Ora che raggiunge il rifugio Cartoni abbiamo fatto a tempo a spegnerlo e bonificarlo” rispose il soccorritore comunale, con una punta di arroganza.
L’oste alzò le spalle, fissò per l’ultima volta le fiamme attaccarsi alle creste degli alberi e tornò al suo locale, salutando con un gesto il gruppo d’intervento.
Camminando, notò che in paese le luci delle case si accendevano a una a una, come se l’odore d’incendio avesse risuonato nelle narici degli abitanti, intenti a dormire della grossa.
Tra queste luci, l’abat jour di una camera d’hotel.
“Amore, c’è odore di incendio” disse Franco, con gli occhi aperti e le narici spalancate.
La sua compagna, immersa nella morbidezza del piumone, aprì un occhio e scosse la testa.
“Amore, ti prego, rilassati. È impossibile. Non è più estate, la stagione degli incendi è finita e non c’è più nessuna emergenza. Siamo venuti qua proprio per quello, ricordi? Per riposarci dopo tutti questi mesi. Tu per rimetterti da tutti quei pattugliamenti e io dai turni della sala operativa”.
Il ragazzo era già in piedi.
Vestito dei suoi boxer, nel freddo dell’orario, spalancò gli stipiti della finestra che dava sul costone. Il bagliore dell’incendio notturno fu una botta al cuore; una sorta di spostamento d’aria, una scossa elettrica.
Era la prima volta che vedeva coi suoi occhi un incendio di montagna.
Nei turni d’estate, nelle lunghe ore di pattugliamento, succedeva che incontrassero turisti del nord i quali, parlando di roghi, raccontavano di questi fuochi tra gli alberi, sui lati delle montagne, inarrestabili e irraggiungibili.
I ragazzi delle squadre sarde ridevano ogni volta, all’idea.
Per loro, abituati alla vegetazione bassa e rapida della macchia mediterranea, quei resoconti equivalevano a storie lontane, folcloristiche, sicuramente di altri.
Gli incendi si spengono col naspo, non con pale e zappe, rispondevano ogni volta, per puntualizzare la propria estrazione.
Franco rimase per qualche secondo immobile, chiedendosi come facesse il fuoco a sviluppare tutta quella combustione malgrado la bassa temperatura notturna.
Poi un flashback, una frase.
… e invece da noi la stagione degli incendi comincia in autunno.
Non si ricordava bene chi l’avesse pronunciata, né dove. Retaggio di tutte le conversazioni che un volontario, nelle decine di turni stagionali, si trova ad avere con centinaia di persone diverse.
Il ragazzo raccolse i vestiti, indossandoli con fretta, senza dire nulla.
La sua compagna fece capolino dal piumone.
“Dove vai adesso?”
“Vado a… vedere”.
Lei si tirò su, protendendosi verso il compagno che stava oltre la montagna di piume d’oca.
“Io te lo dico. Non prendere la tuta, ho visto sai che l’hai portata con te. Domattina, alle nove, abbiamo appuntamento in malga per quella degustazione. Se non ci sei a quell’ora, per me questa storia è finita. Prenderò il primo autobus e non ci vedremo mai più”.
Franco annuì, con le mani sulla porta, prima di scomparire nel silenzioso corridoio dell’hotel.
Gli scalini tre alla volta, un cenno al concierge mezzo addormentato davanti alla tv, le porte scorrevoli fino alla strada.
Tenendo gli occhi sulla corsa delle fiamme, aprì con il telecomando il bagagliaio dell’auto, prendendo il borsone e facendo attenzione a chiudere lo sportello senza rumore.
Sul ciglio della statale, adesso, si era radunata una folla cospicua, tenuta a bada dalle autorità che, con nastri e transenne, avevano delimitato la zona di partenza dell’incendio.
Franco fotografò la situazione in pochi attimi: gli investigatori nei pressi del punto d’origine, la municipale, le squadre di soccorso comunali e i forestali. Questi ultimi, con sguardi seri e preoccupati, seguivano la corsa delle fiamme, in attesa del supporto aereo.
Mancava poco all’alba. Eppure ogni minuto appariva decisivo.
Il rifugio Cartoni, situato in altitudine oltre il bosco, e dopo un pascolo, era già stato avvisato.
Franco recepì tali informazioni dalle chiacchiere dei presenti e si immaginò l’agitazione delle persone su al rifugio. Attendere un incendio in arrivo, senza poterlo vedere ma, intanto, sentirne l’odore, l’intensità acre, nel buio che fa spaventare, dopo una corsa folle e rapida, violenta quasi.
E tutte quelle domande, senza risposta.
Franco si voltò verso l’hotel; la luce della sua camera era tornata a spegnersi. Guardò l’ora, le quattro e mezza, e pensò che, di sicuro, non sarebbe tornato più tardi delle otto.
Avrebbe avuto tutto il tempo di fare una doccia, rilassarsi, forse chiudere gli occhi qualche minuto.
Sempre che lo avessero accettato.
Così non perse tempo.
Raccolse il borsone e percorse la distanza che lo separava dal mezzo dei soccorritori, raccogliendo allo stesso tempo il tesserino dalla tasca.
“Buongiorno, sono un volontario, posso esservi d’aiuto?” disse, rivolto a quello che, per comportamento e sicurezza, sembrava essere il caposquadra.
L’uomo, alzando lo sguardo dallo smartphone, fissò prima lui e poi la sua tessera di riconoscimento.
“È diverso rispetto al posto da cui vieni, lo sai vero?”
Franco annuì, sentendo nel cuore una fitta che aveva dimenticato: quella dei primi interventi quando, da ragazzino, l’incendio da spegnere rappresentava ancora un territorio sconosciuto nella geografia della sua vita.
L’uomo, il caposquadra, rimase qualche secondo in attesa di una risposta; ma già il ragazzo aveva aperto il borsone e, sul ciglio della strada illuminato dai bagliori delle fiamme in lontananza, cominciava a vestirsi.
Tuta, stivali, cinturone, torcia, casco, guanti, bottiglia d’acqua, sottocasco.
L’uomo sorrise, poi scelse di aggiornarlo sul piano della squadra.
“Gli elicotteri arriveranno con le prime luci dell’alba. Ma il fuoco sta correndo veloce. Per cui abbiamo pensato di fermarlo al pascolo, in prossimità del rifugio Cartoni. Sai usare l’atomizzatore?”
Il ragazzo annuì, emozionato, col cuore che batteva forte. Fare la cosa che conosci meglio nella tua vita in uno scenario diverso è un po’ come ripartire da zero. E gli atomizzatori, quegli zaini strutturati con motore, serbatoio e combustile, erano un vago ricordo del primo corso da operatori. Mai utilizzati in fase operativa, ma familiari.
“Ok, questo è il tuo” disse l’uomo, trascinandone uno fino al borsone del ragazzo “Puoi lasciare la tua roba nel mezzo, partiamo tra cinque minuti dal sentiero che vedi lì, sulla destra”.
Franco lo fissò in silenzio.
L’uomo sorrise per la seconda volta: “Come ti ho detto, è tutto diverso dalle tue zone. Non ci sono strade fino al rifugio”.
“Ma… e i turisti?”
L’uomo si voltò, indicando una striscia di bosco aperta, una sorta di linea svuotata dalla vegetazione che saliva verticale fino al limitare del bosco.
“Con la seggiovia. Ma è spenta. E, visto l’incendio, penso che nessuno, al momento, la metterà in funzione”.
Il ragazzo chiuse nel borsone i suoi abiti da civile e lo porse a un suo coetaneo, dal viso simpatico e dagli sguardi eccitati.
Prima di imboccare il sentiero, in coda alla squadra, nell’applauso degli astanti, il ragazzo si voltò per l’ultima volta in direzione dell’hotel. Tutto a un tratto, i tempi si erano dilatati.
E quell’appuntamento delle nove sembrava, adesso, lontano solo pochi attimi.
La salita si fece subito feroce.
Franco aveva già provato quella sensazione, correndo verso il fronte di un incendio attraverso i campi zollati o inseguendo le fiamme sui picchi di granito, diretto alle scale arabili del suo territorio.
Ma, qui, era tutto diverso. I cento metri lasciavano spazio alla maratona. Uno sforzo continuo e costante che piegava il respiro e inaridiva la gola: un misto di profumi, vento, ghiaccio, aria secca, fatica, sudore.
I ragazzi della squadra, che percorrevano il sentiero precedendolo, si inerpicavano leggeri e aggraziati come stambecchi, trovando anche il tempo di scherzare, raccontandosi battute e barzellette in una lingua che faceva difficoltà a seguire.
A un tratto, essendosi abituato allo sforzo e acquisito confidenza con il peso dell’atomizzatore sulle spalle, Franco si guardò attorno.
Il sentiero, in quel punto, aggirava un massiccio trovandosi, così, libero dalla vegetazione.
Sulla destra, in basso, scorse la pianura: sembrava una coperta buia, ma illuminata a giorno nelle sue linee di comunicazione, nei suoi comuni, nelle sue autostrade. La cosa più vicina all’ammirare l’Italia dal satellite.
“Come sta il marittimo?” chiese il capo che, in testa, incitava la squadra facendola divertire e tenendola ben determinata.
“C’è ancora” rispose una ragazza del gruppo, strappando una risata a tutti gli altri.
L’alba era già arrivata ma, trovandosi sul pendio rivolto a ovest, la squadra non poteva ammirarne i colori tenui e, contemporaneamente, intensi.
Sulla sinistra il fuoco aveva quasi concluso la scalata del versante, preparandosi ad affacciarsi verso il pascolo, a poche centinaia di metri dal rifugio Cartoni.
Del sorgere del sole, se ne accorsero finalmente dal suono: quello creato dalle pale del primo elicottero, in arrivo dall’eliporto a valle.
Lo sentirono riempire con i suoi battiti tutta l’atmosfera e poi, in un cielo che tendeva a divenire argenteo, oltre le creste degli alberi, lo notarono volare a bassa quota, ruggente e illuminato dalle sue luci di posizione.
Durante tutta la salita, Franco, non aveva mai respirato, nemmeno per un istante, l’odore di fumo.
Ma adesso, quasi giunti al pascolo dove le correnti d’aria turbinavano in uscita dal versante, il mix composto dal suono dei rotori e dall’odore acre dell’incendio lo fecero sentire, in un certo senso, a casa.
Sullo sfondo, prima che il pendio si inerpicasse per divenire, d’inverno, pista da sci, il rifugio appariva nitido e illuminato, con le sue pareti bianche e il tetto spiovente di legno: i fiori sui balconi.
Il ragazzo lo vide, facendo caso alle persone che, sulla terrazza, attendevano lo sviluppo della situazione.
Uno sbuffo di fumo bianco, nei colori dell’aurora, rivelò alla squadra il lancio del primo carico d’acqua.
Da adesso in poi il volo degli elicotteri si sarebbe susseguito meccanicamente, facendo spola tra il laghetto situato all’ingresso del paese e il fronte dell’incendio.
Le fiamme, conclusa la salita del versante pochi attimi dopo i soccorritori, si abbassarono verso terra come un uccello che, dopo aver volato tra gli alberi, si posa sul terreno in cerca di cibo.
“È il momento, adesso!” esclamò il caposquadra, accendendo l’atomizzatore seguito da tutta la squadra, compreso Franco.
Con la certezza del supporto aereo, che avrebbe contenuto il rogo ai lati, l’azione consisteva nel fermare le fiamme che ora erano tornate basse e rapide, simili al fuoco che corre su una traccia di alcol.
La squadra si mise all’opera, per spegnere al più presto la linea e mettere in sicurezza il rifugio.
Anche Franco che, dopo il primo spaesamento, adesso tornava a sentirsi a suo agio nel teatro dell’emergenza.
Un quarto d’ora dopo, svuotati gli atomizzatori e spente le fiamme, il caposquadra comunicò alla sala operativa il termine della fase di fiamma attiva.
I ragazzi sorrisero, assetati, madidi di sudore e stravolti dalla marcia forzata di mille metri in verticale.
“Non è stato così diverso dai miei scenari” commentò Franco, sfilandosi l’atomizzatore dalle spalle “sai, pensavo che spegnere gli incendi in montagna fosse solo zappe e pale”.
Il caposquadra lo fissò senza rispondere, con un sorriso cinico stampato sul viso.
Franco se ne chiese il motivo e poi, adesso che l’emergenza era terminata, controllò l’orario.
Erano le nove meno un quarto.
Sulla destra, tutto a un tratto, la seggiovia prese vita.
“Un quarto d’ora per raggiungere una malga” si disse, spaesato. Impossibile.
“Che succede?” gli chiese uno dei ragazzi.
“Devo… devo raggiungere una malga, in un quarto d’ora. Se no la mia fidanzata mi lascia e questa volta non scherza”.
“E come si chiama questa malga?”
“Non so” disse il ragazzo, cercando sul telefono la mail di prenotazione.
“Si chiama… si chiama…”
Rifugio Cartoni.
Esplose in una risata.
“Che succede?”
“Niente niente, forse è meglio che mi avvicini alla seggiovia” disse, con un sospiro di sollievo.
Il caposquadra, vedendolo allontanarsi, alzò un braccio.
“Aspetta” disse “dopo che hai finito la degustazione ti aspettiamo qui”.
“Ah sì?” chiese il ragazzo, a cui la missione compiuta aveva restituito la giovialità di sempre
“e come mai?”
“C’è da fare la bonifica adesso, del sottobosco. Proprio come hai detto tu”.
“Io? E che ho detto?”
“Zappe e pale” rise il caposquadra “Benvenuto in montagna, volontario”.
Torna ai contenuti