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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato
COME UN ALBERO DEGLI ZOCCOLI
di Cantini Aurora
Aviatico (BG)
Sono legata alla mia terra di montagna come una radice sospesa, la sento vibrare in me in ogni respiro di vento, in ogni scricchiolare di foglia, in ogni sentiero nascosto. Il mio cuore è una porta che dà sull'orizzonte. I miei ricordi, il mio vivere e il mio divenire sono sempre con me. La mia terra palpita e consola i miei giorni stanchi, avvince il mio respiro come foglia al vento, inebria le mie notti di splendori e attese, mi fa compagnia, mi parla, mi affianca, mi ha aiutato a diventare grande, a crescere, a vivere.
Fin da piccina ho ascoltato le poesie degli alberi frondosi che muovendosi nel dolce tramonto estivo cullavano i miei sogni bambini, o quando, carichi di neve, svettavano al cielo e mi portavano fin lassù, nell'azzurro, con le loro lunghe dita di diamanti. Mi raccontavano, mi consolavano, mi inebriavano di vita, mi amavano teneramente, silenziosamente e per sempre, portandomi oltre la curva del tramonto, fino a raggiungere le stelle.
I profili delle Prealpi Orobiche hanno fatto da cornice e culla ai miei sogni e ai miei giochi di bimba. Il mio palcoscenico erano le distese di prati sui pendii, tra giochi sul selciato della chiesa e corse lungo i sentieri ombrosi e infiniti. Le donne sull’aia sorvegliavano i passi di noi bambini con cipiglio austero ma anche con bonaria condiscendenza. Ci sentivamo a casa ovunque e con chiunque. Ci sentivamo protetti.
In estate era naturale aiutare gli zii nella fienagione. Un po’ con il rastrello, un po’ giocando, un po’ con le mani, alla fine di quegli assolati pomeriggi mi ritrovavo arrossata e stanchissima, aggrovigliata di fieno e sudore, avvolta da un abbraccio infinito, quello della mia terra e quello delle zie che cercavano di ripulirmi e rimettermi in sesto.
Quando uscì “L’Albero degli zoccoli” fu come riscoprire un mondo dove avevo giocato fino a qualche anno prima: campagne infinite, profumo di erba, racconti della nonna, polenta gialla e odore di legna nella vecchia stufa…
Per gli adulti segnò il ritornare alle origini, risentire il freddo delle notti di gennaio dietro i vetri ghiacciati, il frusciare nel materasso delle pannocchie ruvide sotto la schiena, i calli sulle mani. Ricordare il bruciare delle lacrime trattenute, la desolazione della povertà ma anche la dignità del proprio orgoglio…
In quell’autunno uggioso e già presago di notti buie e cariche di neve, tutti volevano assolutamente andare a vedere quel film in cui gli attori non erano veri attori e quando parlavano lo facevano solo in dialetto. Code interminabili. Notizie in prima pagina. E mi stupisco ancora oggi di come abbia attirato subito migliaia di bergamaschi.
Infatti di solito la gente di Bergamo non è avvezza a mettersi in mostra, a esibire i propri angoli più nascosti. La propria vita. Non è abituata a mettere sotto i riflettori qualcosa che ritiene personale, intimo, privato. I bergamaschi, soprattutto quelli di una certa età e soprattutto quelli di montagna, hanno la tendenza a liquidare il tutto con quel solito tono, come dire che quelle cose lì le hanno fatte anche loro senza tante storie, senza finire in tv. Non c’era mica bisogno di fare un film per sapere come si faticava un tempo nella vita contadina.
Invece fu un successo.
Devo dire però che mio papà Mansueto non aveva alcuna intenzione di andarlo a vedere.
Non mi disse il motivo e io non glielo chiesi. Ero una ragazzina, ma immagino che in un certo qual modo gli risvegliasse ricordi di fatica che ancora lo facevano soffrire nella loro spietata realtà. Apparteneva alla classe del Venticinque, ragazzi che si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e che per questo erano stati costretti a vivere mesi e anni nascosti tra i cunicoli delle nostre montagne o nei solai delle cascine disabitate, tra il gelo e la neve, con poco cibo, portato di nascosto dalle mamme o da qualche familiare. Ragazzi costretti a convivere con una taglia sulla testa a causa dell’editto Graziani, il quale preannunciava ritorsioni e rappresaglie contro le famiglie dei ribelli se questi non si fossero consegnati.
Appena messo in congedo alla fine della guerra, nell’agosto del 1947, poco più che ventenne aveva dovuto emigrare in Svizzera, lasciando i genitori e i fratelli, costretto a cercare un posto nel mondo, lontano dal minuscolo borgo in cui era nato e cresciuto, perché lì in paese per lui e per molti dei suoi compagni non c’era futuro. Nostalgia, dolore del distacco, spaesamento, paura, incertezza, chissà cosa avrà provato quel giorno mentre percorreva a piedi la mulattiera per scendere alla stazione di Bergamo e portarsi in treno verso il confine con la Valtellina, Como - Chiasso.
Quindi immagino che lui conoscesse bene cosa voleva dire avere gli zoccoli rotti, vedere i pomodori che non crescevano, le mucche che morivano, ascoltare i rosari interminabili delle donne, avere la Provvidenza come unica fede, dormire in letti gelidi, vivere nella miseria.
Io invece avevo seguito con grandi aspettative l’avvicinarsi del giorno della proiezione. Quel pomeriggio di domenica mi portai per tempo all’oratorio con i miei cugini per avere i posti in prima fila. I più belli.
Per me fu una fiaba, un racconto quasi magico, un altro mondo, ma nello stesso tempo il mondo in cui entravo ogni giorno quando mi recavo nella cucina di mia nonna Angelina, la mamma di mio papà. La adoravo. Eppure non era una nonna da smancerie. Pacata, misurata nelle parole, mai arrabbiata, mi accoglieva con il suo sorriso stretto e mi dava subito qualcosa da fare. La ricordo con il suo grembiule nero e il foulard in testa, sempre in quella stanza dove era racchiuso tutto il suo mondo. Le sedie impagliate della cucina e la tavola rettangolare, lunga, di legno scuro, il paiolo sulla stufa a legna sempre accesa accanto al grande camino di pietra che usava d’inverno, le patate, la scodella di coccio, i “redecc” cioè i radicchi con le uova bollite, la cicoria, l’erba amara condita come insalata, le credenze scure e le madie profonde e cupe, il nero delle pareti e la finestrella da cui entrava poca luce.
Quando salivo in camera sua per prendere qualcosa, mi soffermavo sempre davanti a quel letto alto, dalla testiera in ferro, dal materasso bitorzoluto, con vicino il catino per lavarsi e sotto il letto il vaso da notte. Tutto scricchiolava misteriosamente, e io un po’ ne ero incuriosita e un po’ ne ero spaventata.
Fuori, il cortile e l’aia raccontati nel film, erano gli stessi in cui io giocavo a nascondino nelle lunghe sere di maggio. La cascina degli zii era poco fuori paese, in Valle Camocco, con il fienile, la lobbia e la scala in legno con i pioli per salire di sopra. Attraverso il film io abbellivo la mia infanzia di bambina cresciuta a Nutella, e ritrovavo l’enorme affetto per le persone che abitavano nel mio piccolo angolo di storia.
Al termine del film ero emozionata, conquistata, commossa, e anche arrabbiata per l’ingiustizia subita dal Batistì. Ero corsa a casa che era già buio, una sera autunnale dove il sogno aveva abitato i miei occhi.
Il lungo tragitto a piedi fino al confine del paese, al limitare del bosco vicino al torrente, dove abitavo, mi aveva dato modo di rivedere con gli occhi della mente le immagini più intense del film appena visto, sovrapponendole come carta carbone a quelle della mia terra. Quella nebbia ovattata che dipingeva di grigio l’orizzonte e lo assorbiva come in un sudario, le sterminate alture solitarie tra cascinali sparsi, quel silenzio che aleggiava perenne da stella a stella e che più di tutto mi aveva colpito. Il fosso costeggiava lo stretto tratturo e lo avvolgeva come in un abbraccio. Immensità. Ma anche un mondo chiuso visto da dietro i vetri di una piccola cucina. Le famiglie pioniere alla conquista di spazi e radici. Quel senso ineluttabile di malinconica consapevolezza che un giorno tutto sarebbe finito.
I grandi occhi di quei bambini e di quelle mamme mi pungevano come spilli, mi chiedevano di non lasciarli soli. Di non lasciare che la polvere del silenzio cancellasse per sempre la memoria della loro fatica. E io non potevo deluderli.
A cena, mentre sorseggiavo la quotidiana minestra, continuavo a parlare, decantare, a spiegare quella vita millenaria che anche io, seppur bambina che guardava la tv e i cartoni animati di Heidi, sentivo avere nel cuore. Mio papà ascoltava e ogni tanto, mentre si portava le cucchiaiate alla bocca, faceva qualche cenno di assenso, ma non diceva più di tanto.
“Ma perché non dice nulla?” pensavo tra me. Ad un certo punto non riuscii più a trattenermi.
«Ma insomma, papà! Devi andare a vederlo! Non puoi non andarci! È troppo importante! Cosa penseranno il Batistì, e la vedova Runk, e il nonno Anselmo della tua assenza? Dov’è l’orgoglio di essere figlio di contadini?»
Cosa successe negli occhi di mio padre non lo saprò mai. Mi osservò in silenzio per un lungo momento, e io già mi ero pentita di quello sfogo impulsivo e anche sfacciato.
Poi mi chiese quando l’avrebbero proiettato di nuovo.
«Questa sera, alle otto e mezza» sussurrai timidamente. Gli occhi sul piatto.
Mio papà si alzò e senza dire nulla andò in anticamera, dove lo sentii staccare dall’attaccapanni il suo giaccone e il cappello. Poi mi chiamò.
«Vieni con me, Rori?»
E mi rividi “L’albero degli zoccoli” una seconda volta in meno di tre ore.
Da quel lontano 1978 tutto è cambiato. Le vaste distese di campi hanno lasciato il posto alle case a schiera, interminabili sequenze di orizzonti grigi di nebbia densa che assorbe il respiro come un sudario. I ruderi delle antiche cascine si mostrano indifese allo sguardo di chi transita sulla strada. Patetiche ombre che cercano di nascondersi per pudore, ricoprendosi di rampicanti e di edera. Profonde ferite di pietra. Crollano muri e tetti, si affossano cortili e aie, si incurvano i divelti cancelli.
Ma io le rivedo ancora, le nostre nonne, apparire dalla veranda delle cascine di campagna, avvolte nei loro grembiuli, attaccate alla terra dei loro padri e ai loro uomini lontani.
Donne che parlavano poco, gli sguardi silenziosi ma fermi, pungenti come capocchie di spillo, severi. Scavate nel volto e nel cuore, col rosario in mano, riservate ma attente, nell’attesa di un ritorno.
Mi sembra di rivederle, appoggiate al silenzio di pietre vecchie, mute figure mescolate alla notte, senza sonno, il volto brunito sfaldato dalle intemperie dell’amore, ad osservare il cielo e i campi: sapevano che il loro tempo e quello del loro cammino stava per finire. Ma se aguzziamo un poco lo sguardo oltre le case tutte uguali, ecco riapparire le immagini e i miraggi di terre fertili, di passioni tenaci, di amori taciuti, di ricordi racchiusi, laggiù, in fondo al filare sperso nella bruma, laggiù, dove il sole si scioglie tra il grano, dove i canti si mescolano al vento nei sussurri fra i rami, le mani ferite e dure, le carezze fugaci e schive, i passi frettolosi e silenti, gli occhi socchiusi sulla tenerezza calda del pianto.
Raccogliamo noi le loro storie, continuiamo noi il loro passo, portiamole lontano, oltre la fatica e il distacco, oltre il sentiero lungo i pendii, oltre l’alba buia di gennaio; diamo voce ai loro sogni di donna, di ragazza ancora leggera, di mamma china sulla culla.
Per non dimenticare chi ha tracciato il cammino affinché nessuno di noi si perda e trovi sempre la luce oltre l’orizzonte, per non lasciare che la polvere dell’indifferenza ricopra la memoria della montagna e il respiro delle contrade ormai svuotate, per non lasciare che gli ultimi vecchi vedano spegnersi per sempre la storia della loro terra, echi di genti e di fatiche. Di loro cosa rimarrà se non i ricordi che solo noi possiamo portare avanti? Ricordi e memorie che raccontano la speranza e il futuro. Come le radici tenaci di un albero degli zoccoli.