Quando arriviamo a baita?
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2007
Segnalato
Quando arriviamo a baita?
di Gianfranco Andorno - Genova
Mi sono addormentato sul pullman. Se non mi svegliava quella signora finivo a Tenda: sconfinavo addirittura. Accidenti! Eh, care penne mozze, ho compiuto ottantasei anni.
Dicono che li porto bene, sempre impettito, ma purtroppo ci sono. Comunque, l’impegno l’ho mantenuto. Una volta all’anno sono sempre venuto quassù, a trovarvi. Ma non so se ci riuscirò ancora...
Sentite come sbuffo ad affrontare la salita. In questi anni è tutto cambiato. Hanno costruito tante case, per gli sciatori, sgranocchiando la collina. Il sentiero è diventato mulattiera e poi carrozzabile, sempre più polverosa. Lo scroscio prepotente del ruscello è stato imprigionato nelle condutture ed è ammutolito. Domato a sordo borbottio.
Ottantasei anni, eppure mi sembra appena ieri che entravo baldanzoso e fiero nel castello di Rivoli, ufficiale del Quinto Alpini. Fresco di nomina al corso di Spoleto. Quanti signorsì e quante mangiate: agnolotti e bagnacauda, e il vino? Barolo, nebbiolo a scelta. La freisa spumeggiante.
E poi? e poi... la partenza per il fronte. “Cosa sono questi musi? Tenente, li faccia cantare. Così si rincuorano. E stia attento che qualche imbranato non resti a terra.” E siamo saliti sulla tradotta. Nei carri bestiame gli alpini, e negli ultimi vagoni i muli. Per dove? La Russia, si sussurrava. La Russia? Forse.
Gomez aveva una bella voce tenorile, e rallegrava con le sue cantate, i suoi acuti. Alle fermate, frequenti ed improvvise, quando si sporgeva dal finestrino, la gente lo applaudiva. In Polonia, a Varsavia.
Il ponte sulla Vistola era stato bombardato, c’era soltanto un binario e non si capiva come reggesse. E, da entrambe le parti, il vuoto a strapiombo sull’acqua giallastra. Il treno arrancava a passo d’uomo, lentamente. E tutti... immobili, trattenendo il respiro, augurandoci di raggiungere al più presto l’altro argine.
E poi su quei camion a girovagare senza meta per la steppa. Campi di girasoli, stoppie. Le isbe requisite e trasformate in ricoveri di fortuna. Destinati non più alle cime del Caucaso, da attaccare con i nostri passi lunghi e lenti, ma alla riva del Don. Ridotti svolgere compiti di fanteria, fantaccini mangiabratta.
E quella fanciulla bionda che sembrava spiga di grano. Dapprima diffidente ma quando ha visto che facevo distribuire lo stesso nostro rancio ai bambini, si era sciolta. Sorrideva... Irina. Era la figlia dello starosta, il capovillaggio. Quando cercavo di baciarla mi fissava negli occhi, sgranando i suoi azzurri più del cielo, e mi chiedeva: “pacimu?” Perché?
E un giorno il solito motociclista con la busta gialla, contenente l’ordine della partenza immediata. E Irina piangeva, ed io a promettere. “Ti vengo a prendere quando voina kaputt. Quando guerra fine. Hai capito?” E lo avevo ribadito aiutandomi con le mani. A lei, fattasi di marmo lacrimante. “Non mi credi?” In ogni luogo e tempo nell’amore c’è sempre il dubbio, ed è bello anche per questo.
Parlando, con lo stesso motociclista, seppi della morte di Gomez. Povero Gomez, i suoi gorgheggi troncati. Era già partito malato di cuore, avrebbe potuto farsi esonerare. Ma ci aveva detto:“non posso abbandonarvi. Come fareste senza la mia voce. ”Ed aveva intonato un bel: “vincerò, vinceròòòò!”
E quando eravamo arretrati a Rossosc, al comando, la sorpresa di trovarci i carri armati russi. I famigerati T 34: i nostri cannoncini 47/32 neppure ne scalfivano la corazza. Era accaduto che gli ungheresi se ne erano andati senza avvertire ed il fianco era rimasto sguarnito. Compagni insalutati di... sventura. Causando una falla nella quale i nemici si erano precipitati a capofitto. Con la complicità del Don ghiacciato.
“Gettate tutto, distruggete le scorte!” Ed in certi magazzini trovammo i cappotti mai distribuiti, che sarebbero stati comodi per il gelo sopravvenuto. Mai consegnati: per incuria o per difficoltà logistica? E dai generali la parola terribile da non far sapere alla truppa: accerchiamento. “Siamo accerchiati!”
E dall’infangamento alle terribili tempeste, con la temperatura che scendeva a quaranta gradi sotto zero. A complicare quella ritirata, tramutata presto in rotta, con le colonne degli sbandati che ci ostacolavano.
I feriti abbandonati a congelare e travolti, schiacciati, dalle slitte dei tedeschi. Che si erano impossessati di ogni mezzo di trasporto. E noi a piedi e nel contempo a combattere, come potevamo, per salvare quelli che ci precedevano. Con le armi che s’inceppavano. E chi si fermava spossato, o si toglieva gli scarponi, era perduto.
Sulla soglia dei loro miseri casolari, dalle mura di calce e sterco, i vecchi assistevano muti a quella mesta processione. Le donne ci offrivano quel poco che avevano, qualche patata, e ci benedicevano alla maniera ortodossa. “Spassiba, spassiba,” a ringraziarle con fatica. Un groppo in gola ti bloccava la voce, quasi si fosse congelata anch’essa. Un presepe dalle luci fioche. Con una folla di pellegrini infagottati che arrancava stremata e smarrita, nel vento gelido, a cercare il brillio della cometa.
Gennaio 1943. Quindici giorni di passione, di disperazione, fino alla battaglia finale di Nikolajewka. La discesa dal costone con lo sbarramento dei katiuscia, falcidiati dalle raffiche dei kalashnikov. E oltre c’era la salvezza, la fuga dalla sacca... Ma migliaia di compagni sono rimasti per strada. E tra loro i miei ragazzi, che mi erano stati affidati dai loro genitori. Ragazzoni forti e schietti della Valcamonica e Valtellina. “Tenente...“ “Cosa vuoi?” “Le scrive due righe ai miei?” E io a scrivere che erano dei valorosi, e loro a farsi promettere che, una volta tornati a casa, sarei andato a mangiare da loro. Avrebbero ammazzato un capretto, la bestia più bella. “Come per il figliol prodigo?” avevo celiato. Una festa ora tribolato miraggio.
E quando si trascinavano, ed io li incitavo a continuare il cammino, mi chiedevano:“ma quando arriviamo a baita?” E per “baita” intendevano la loro casa, la famiglia. E io a singhiozzare sotto la mia maschera di pelle indurita e ingrigita, la barba incolta, perché impotente. Condannato a tradire la fiducia che riponevano in me. Cosa avrei potuto dire, se mi fossi salvato, alle loro madri?
“Tenente, quando arriviamo alle seconde linee?” Come confessar loro che le “seconde linee” non esistevano?
Ah ecco la cappelletta, mi siedo un poco. L’hanno chiusa per i vandali, ma è inutile scrutare nei vetri inscuriti. Voi non state di certo chiusi là dentro, siete in giro. Su ogni vetta dei nostri campi estivi, di manovra. Dove la sfida alla montagna impone purezza d’animo, eguale all’aspra bellezza dei pendii scoscesi, delle ferrate. Pretende, esige, la lealtà del compagno che ti accompagna nella scalata.
E ora siete tutti qui con me. Lo sapete che non ci siamo mai lasciati. Ci sei anche tu, Pinone. Una sera per la grappa ti sei lasciato andare a parlare della tua Teresa, e così poi tutti ti prendevano in giro. Ti chiamavano Teresa, e:“oggi è domenica. Sarà a ballare?” Oppure:“cosa starà facendo?” insinuavano. Ma te bonaccione, ti facevi una gran risata. Chissà se la tua Teresa ti ha già raggiunto. Qualche lacrima? No. Sono gli occhi che piangono per conto loro. È l’età, l’età.
Cos’è questo schiamazzo? Dei ragazzi, forse una scolaresca che invade lo spiazzo. Si spingono sul ciglio, rischiano di cadere. “State attenti!” Non mi stanno a sentire. Come se non ci fossi. E giocano con gli obici della prima guerra, murati a ricordo ed a monito. Ma i ricordi servono? E cosa abbiamo raccontato, spiegato, a questi giovani? Siamo stati sinceri?
Mi hanno chiamato al liceo linguistico di mia nipote. Per uno scambio culturale, della scuola, con San Pietroburgo, ai miei tempi Leningrado. E sono venuti con le telecamere, mi hanno fatto parlare. E c’era un russo vecchio come me, più piccolo però, che aveva fatto la guerra. Un mio nemico.
Che buffo vedere noi due vecchietti e pacifici che, se ci fosse stato l’incontro, ci saremmo sparati. Io un po’ imbarazzato, perché in fondo siamo andati a casa loro... e non invitati. Comunque abbiamo brindato:“prosit!”... All’amicizia tra i popoli. Ma possiamo decidere noi? Adesso dicono di sì, allora solo obbedire obbedire.
Ma quello che più mi ha impressionato è che parecchi allievi non sapevano che c’è stata una guerra tra l’Italia e la Russia. Che diamine!
Umhh si è fatto tardi, devo ridiscendere. Auffa devo ritornare dalla nuora. Ma perché mio figlio si lascia comandare? Non sarebbe stato da “Tridentina”! Neanche il mulo avrebbe potuto fare, i nostri muli avevano più carattere. E la sua consorte mi rompe... che lascio il lavabo sporco quando mi faccio la barba, che gocciolo per terra. Adesso sì che mi servirebbe l’attendente. Gli attendenti... Ben due, spazzati via dai colpi di mortaio. Era rimasto solo un buco, da ciambella, di loro e del mio corredo. E si era sparsa la voce. Così nessuno voleva farlo: per superstizione. Perché non c’è il due senza il tre.
Quella megera, mi viene dietro a spegnere le luci... Ma si, le prenderò dei biscotti, dei malfatti... come lei. Pazienza ci vuole, tanta pazienza. Ragazzi devo andare, altrimenti perdo la corriera. Ma aspettatemi, ci vediamo presto. Tra un anno o... prima. Dove? A baita, alla nostra baita!
No. Non sono io il Tenente degli Alpini, classe 1920, protagonista della vicenda. È un mio caro amico. Ma è come se io fossi lui, perché lui è tutti noi. Con il suo vissuto, con i suoi ricordi.