Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXVI^ edizione - Arcade,12 Giugno 2021 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
Primo classificato
LA MANTELLA DI PANNO “Le dico che il camino non fumava! Ho provato anche a bussare ma la porta era chiusa e non ho sentito alcun rumore provenire dall’interno! Deve essere successo qualcosa al vecchio!” Il tono di voce lascia trapelare, oltre ad una certa preoccupazione, anche una punta di esasperazione. “Mi faccia capire, lei bussa alla porta di questo signor Tibolla e, non ricevendo risposta, si convince che debba essergli successo qualcosa? Ma perché? Me lo vuole dire? E poi che ci azzecca il fatto che il camino non stava fumando?” “Signor Maresciallo, glielo ripeto! Florindo Tibolla non si sposta dalla montagna se non una o due volte al mese, quando scende in paese per acquistare quelle poche cose che non può coltivare o costruire da se. Non parla con nessuno, non ha amici o parenti, passa le giornate a camminare sui monti, sempre solo come un orso. Ma una cosa è sicura, anzi, due: la porta della sua baita è sempre aperta e dal camino si alza sempre un filo di fumo perché la stufa a legna, il vecchio, non la fa spegnere mai! La mattina ci butta dentro un ciocco o due e riaccende la fiamma sulle braci che si son tenute calde dalla sera prima. Ed io ho trovato la porta chiusa e il camino spento. L’ho anche chiamato, ma non ho avuto risposta. Quindi… è successo qualcosa. Io, venendo a riferirglielo, ho fatto il mio dovere ed ora spetta a lei decidere quello che c’è da fare. Arrivederci”. Luigi Cencio, alzandosi, fa un cenno con la mano che può sembrare il gesto di chi manda a quel paese qualcuno ma che il maresciallo interpreta come l’abbozzo di un saluto militare al quale risponde militarmente scattando istantaneamente in piedi e battendo i tacchi. E resta così, impettito sull’attenti e teso, la mascella contratta, anche dopo aver sentito il tonfo del portone della caserma che si richiude alle spalle dell’uomo. “Spetta a me fare qualcosa… ma che si deve fare in questi casi? Non c’è un reato e neppure un problema di ordine e sicurezza pubblica. No, non mi pare proprio. Il camino non fumava, dice quello, ma non ci si deve mica preoccupare se un camino è spento, o forse si? Certo che quassù sono tutti strani… Che avrò fatto di male per essere stato assegnato a questo paese di montagna sperduto in mezzo al nulla. Bei monti, questo è vero, ma non c’è null’altro. Poche case, tanto freddo. Uomini e donne duri come roccia. Gran lavoratori ma in quanto a divertimento… ” Il maresciallo Lo Presti lascia che la mente si perda in connessioni confuse fino a quando la voce pacata dell’appuntato Boninsegna lo riscuote. “Che voleva il Cencio, signor Maresciallo?” “Il Cencio?” “L’ho visto uscire dalla caserma un minuto fa. Ha parlato con lei? Di che aveva bisogno?” “Mi ha raccontato una storia strana su un certo Tibolla che abita in una baita in montagna. Dice che questa mattina, di ritorno da una partita di caccia, si è fermato a bere alla fontana che si trova a fianco della casa di questo Tibolla, di aver notato che il camino era spento e di provato inutilmente a bussare. Temendo che fosse successo qualcosa è venuto a raccontarcelo. Probabilmente è una persona ansiosa e fantasiosa che vede fantasmi dappertutto. Voglio dire, mi pare un tantinello esagerato preoccuparsi se qualcuno non si fa trovare in casa o se uno decide di non far fuoco nella stufa, non trova?” Il maresciallo si rivolge all’appuntato sorridendo, convinto di trovarlo concorde alle sue riflessioni ma il sorriso si raffredda sulle labbra quando si accorge dello sguardo preoccupato del suo sottoposto. “Ma… Lei ritiene…” “Maresciallo, lei sa che conosco bene sia il paese che i paesani. Cencio è una persona seria e ponderata che non si lascia spaventare dalle fantasie. E anch’io a questo punto sono preoccupato se le cose sono così come gliele ha raccontare Cencio.” “Ma non dica sciocchezze. Perché dobbiamo preoccuparci del fatto che questo Tibolla questa mattina non era in casa? Perché dobbiamo pensare che gli sia successo qualcosa?” “Preparo la Jeep e andiamo a dare un’occhiata alla baita di Florindo. Lungo la strada le racconto la storia di questo vecchio, così capirà. E, mi raccomando, giacca a vento e scarponcini da montagna perché l’ultimo tratto di strada lo dovremmo fare a piedi e l’inverno sta arrivando, farà freschetto.” Il fuoristrada si inerpica con prudenza sui tornanti sterrati che portano verso la forcella Cerdon, sobbalzando a causa del fondo sconnesso del sentiero. “Non so di preciso quand’è stato che il vecchio Florindo si è trasferito qui in valle, è successo prima che io venissi trasferito qui.” inizia a raccontare l’appuntato Boninsegna con un tono pensieroso e serio. “Mi han detto che era già vecchio quando è arrivato in paese ed è andato ad abitare nella vecchia baita che era stata del padre o del padre di suo padre, che erano di qua. Una vecchia baita disabitata da decenni. Poco alla volta se l’è sistemata, gli ha rifatto il tetto, messo i vetri alle finestre, costruito un bagno, cambiato le assi dei pavimenti. Il riscaldamento non c’è, scalda le stanze con una stufa a legna e una stube. Ecco perché il camino di Florindo fuma sempre, l’aria in montagna è fresca anche d’estate e di legna da ardere in giro ce n’è tanta. Sul fuoco c’è sempre un paiolo che bolle, pronto per buttarci dentro un po’ di farina di mais per fare la polenta o le verdure a tocchetti per un buon minestrone. Coltiva verdure in un piccolo orticello. Va a caccia e a pesca e in cerca di funghi e frutti di bosco. Quando ne trova tanti scende in paese a venderli ai turisti o ai ristoranti ma in genere cammina per le cime, si arrampica, scava, fruga, raccoglie cose. Credo che il vecchio Florindo conosca questi boschi meglio di quanto li possa conoscere il guardiacaccia comunale.” “Ho capito. Un vecchio scontroso e solitario che ha scelto di vivere come un eremita. O forse come un troglodita.” “Aspetti maresciallo, non ho finito. È vero, Florindo è un tipo solitario ma non è un troglodita. È stato uno stimatissimo professore di storia all’università di Trento. Figlio unico di madre vedova. Il padre, militare in tempo di guerra, è morto in Russia durante la ritirata quando lui aveva solo pochi mesi. Un alpino scomparso tra la neve e il gelo della steppa, uno dei tanti che non sono più tornati a casa. La madre ha allevato il figlio da sola e non credo sia stato facile. Faceva la domestica, mi pare. Non so come ma è riuscita a farlo studiare, prima il liceo e poi l’università dove infine è stato assunto. La madre e l’università. Questa è stata la sua vita fino al momento in cui, trovatosi solo ed in pensione, ha deciso di lasciare la città per stabilirsi nel paese del padre, tra queste montagne che sono state teatro di atroci battaglie che, nella Grande Guerra, quella del 15/18, ha visto contrapporsi italiani e tedeschi. Lui, il Tibolla, professore di storia, quella guerra la conosceva bene. L’ho incontrato un giorno sulla cengia Martini che raccontava ad un gruppo di escursionisti delle fatiche e dei pericoli che i soldati, di entrambi gli schieramenti, avevano vissuto tra quei sassi, su quelle cime, in quei cunicoli scavati a mano nel granito. Ne parlava con voce calma ma le parole che diceva, il tono che usava mi avevano fatto venire un nodo in gola. Pareva che raccontasse del suo passato, che fossero suoi ricordi. La fatica, gli stenti, i camminamenti, le mine. La solitudine e il freddo. Mi pare ancora di sentirlo descrivere del vapore che saliva dalle mantelle di panno a contatto con l’aria gelida e dell’odore di lana umida delle giacche della divisa. O quello dei pidocchi, buttati a scoppiettare sul fuoco. Parlava delle fasce che attorte ai polpacci, gelando, diventavano dure e graffiavano la pelle, e degli scarponi con la suola di legno che facevano sanguinare i piedi contorti dai geloni. Raccontava del rancio che gelava nelle gamelle. Delle slavine e delle frane che hanno causato più morti che le bombe. Pareva proprio che il dolore fosse suo. Il vecchio ce l’aveva nel sangue, la guerra. Nel sangue, nella testa, nel cuore. Come una malattia. Da quando si è trasferito qui, non c’è stato giorno in cui non sia andato in giro per i monti cercando cose…” “Lo hai detto anche prima. Cosa intendi per cose?” “Lo vedrà quando ci troveremo alla baita. Adesso lasciamo la Jeep qui, che più su si può salire solo a piedi” lo avverte l’appuntato mentre manovra per posteggiare sotto un grosso larice. I primi minuti li passano in silenzio, camminando lentamente sullo stretto sentiero che si inerpica tra vecchi abeti grigiastri. Un passo avanti all’altro, la schiena un po’ china in avanti per aver una maggior stabilità, l’aria fredda che si addensa davanti al naso. “Senti Boninsegna, ma come mai conosci tutte queste cose del Tibolla? Lo descrivi come un anacoreta, come un orso e poi mi racconti vita, morte e miracoli neanche fosse stato oggetto di un indagine di polizia.” “Ma che dice, maresciallo. Intanto lo conosco perché ogni tanto viene in caserma per il rinnovo del porto di fucile, glielo ho detto che è cacciatore, no? e poi sono stato su in baita un paio di anni fa, in primavera, quanto proprio lui ha trovato i resti di quel soldato. Oddio, erano poche ossa e qualche lembo di divisa marcia. Ovviamente niente riconoscimento. Non abbiamo potuto nemmeno capire se fosse stato un soldato italiano o un nemico. In ogni caso, tra il recupero dei resti e le carte da compilare, abbiamo potuto scambiare quattro chiacchiere. È un vecchio di ottant’anni ma colto, riflessivo, quasi un filosofo. È stato lui a raccontarmi che la porta della baita è sempre aperta, quasi fosse un bivacco al quale tutti possono accedere, perché la montagna è splendida ma esige attenzione e non tutti sono in grado di arrangiarsi su queste crode. Pensi che ha intagliato il tronco di un larice dentro il quale ha fatto confluire l’acqua di una fonte per dissetare chi passa vicino a casa sua, pulisce i sentieri, installa segnali con i quali indica i cammini e fa tutto da solo. Insomma, meglio del CAI. Ma eccoci, siamo arrivati.” Il maresciallo si ferma ai bordo della radura. La baita, sferzata da folate di vento freddo, seppur curata ed in ordine, ha un aspetto malinconico, come una valigia svuotata dimenticata sul letto. È vero, pensa, il camino non fuma. Sente un peso sul petto. Come un respiro troppo a lungo trattenuto che si fa breccia nei polmoni. In un punto dove il sentiero prosegue verso la cima c’è un capitello. Il legno è nero, marcio ed il Cristo è un bozzolo di fil di ferro arrugginito. Ai piedi del palo che lo sorregge ci sono elmetti e gamelle corrose e contorte dal tempo, che contengono rami dai quali pendono lunghe pigne scure. In una gibernetta c’è quel che resta di un bel rododentro, ora quasi spoglio. E poi frammenti di metallo forse un bossolo di mortaio, spranghe di ferro deformate, sistemate con grazia, quasi fossero abbellimenti da giardino. “Ecco le cose che il vecchio raccoglie” spiega l’appuntato “Reticolati, reperti di guerra, pezzi di divise lacere e infeltrite, cinghioli e portamunizioni” “Signor Tibolla! Signor Tibolla, apra! Sono l’appuntato Boninsegna.” grida bussando forte. La voce fa alzare in volo un uccello che fino a poco prima era nascosto sui rami di un pino. Il carabiniere muove la maniglia della porta che sia apre dolcemente. I due entrano a piccoli passi, con rispetto, come se stessero entrando in chiesa. Gli occhi del maresciallo spaziano nella vasta stanza che li accoglie, un po’ cucina, un po’ salotto. Tutto è pulito, ordinato ma vuoto. Nell’aria un sentore acido di cenere bagnata. “Posso entrare?” chiede al silenzio che li circonda. Il maresciallo avanza piano verso una porta socchiusa che si rivela una piccola cameretta. Sul letto c’è Florindo, freddo, solo, morto. Il maresciallo si avvicina, gli tasta inutilmente il polso, la carotide. Scuote la testa. “Appuntato, chiama il dottore e digli di salire ma non fargli fretta che a quest’uomo non serve più alcun aiuto.” Boninsegna esce dalla baita in cerca di un po’ di campo per poter telefonare al medico e il maresciallo sospira, guardando quel corpo rigido le cui spalle sono avvolte da una lacera mantella di panno infeltrito che porta ancora cucite sul colletto quel che resta di due mostrine di stoffa. Gli guarda il viso dalla pelle scura che pare corteccia, i candidi capelli e radi che lasciano intravedere la cute, le grandi mani nodose. In una stringe una penna a sfera. Cerca con lo sguardo tra le pieghe delle coperte finché lo nota. Un piccolo quadernetto dalla copertina scura che dev’essergli scivolato dalle dita assieme all’ultimo respiro. Lo apre, lo sfoglia lentamente. Le pagine sono fitte, ricoperte da una calligrafia antica ed ordinata. Non ci sono date, non c’è interruzione, solo un flusso ininterrotto di pensieri che pare poesia. Cerca le ultime pagine scritte e legge, mentre un nodo gli serra la gola. “e continuo a cercarti ogni giorno, tra queste montagne, per scoprire che il tempo ha cancellato di te ogni orma. Tra i molti odori del bosco, nessuno è il tuo odore. Tra i molti suoni nessuna eco, che rimbalza tra parete e parere, mi restituisce, da un passato di cui non ho memoria, la tua voce. Ti ho cercato tra le tue montagne, tra le tue cime, per rubare con gli occhi ciò che i tuoi occhi hanno conosciuto ed amato, per esserti simile, per riconoscerti in me. Solo, ho vagato tra questi alberi centenari inseguendo l’immagine di te che, un tempo, hai calcato questo suolo, calpestato il muschio, smosso le pietre e i sassi. Solo, per riempiere questo vuoto che urla e arde, questa assenza che corrode la mente. Dove sei, padre, se non nel mio cuore? Sei nei pensieri, nei sogni, nella luce del tramonto, tra il gorgogliare dell’acqua del ruscello. Sei nel bramito del cervo, del grido del falco. Nelle nuvole che corrono in cielo e nella pioggia che strappa le pigne dai rami. Ma questa notte ho freddo e sono stanco. Mi avvolgo nella mantella infeltrita che odora di muffa, di terra e di paura, tanto che mi pare di essere sdraiato al tuo fianco. Mi stringo in questa vecchia mantella e mi illudo che sia il tuo abbraccio nel quale mi lascio cadere, offrendomi ad un sonno che non darà risveglio.“
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