Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXV^ edizione - Arcade,4 Gennaio 2020 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
IL VECIO E IL BOCJA DI KATIA TORMEN TRICHIANA BORGO VALBELLUNA (BL)
Aldo Melis scosse stancamente la testa, poi si pinzò la base del naso, tra gli occhi, con pollice e indice. Non poteva sempre dire di no, qualche concessione doveva pur fargliela a questi poveri cristi…Prese la penna e vergò un ghirigoro in fondo al foglio: la “Festa della birra” avrebbe avuto la sua diciassettesima edizione, in barba alla scaramanzia e a chi, vista la sua presenza su quella sedia, la dava già per spacciata. Afferrò il telefono e compose l’interno dell’ufficio protocollo. Trenta secondi dopo la ragazza era già davanti a lui. «Le serve qualcosa, dottore?» L’uomo le passò il foglio. La ragazza intravide la firma sul fondo e si lasciò sfuggire un sorriso. Gli stava simpatica quella giovane, apprezzava in lei la voglia di imparare e la rapidità con cui lo faceva. Forse la sentiva vicina anche per il fatto che erano entrambi nuovi nell’ambiente. Lui, però, sarebbe rimasto per poco. Lei, glielo augurava di cuore, per molto tempo. Stava per congedarla quando Marco, il vigile, fece capolino senza bussare. «Chiedo scusa, vi volevo solo avvisare che sta arrivando il vecchio Celeste, e quando Celeste scende da Costabella di solito c’è qualche rogna in arrivo!» La porta si richiuse prima che il Melis potesse porre la domanda che gli premeva in gola e che esternò, quindi, alla ragazza: «Chi è questo Celeste?» «E’ un tipo strano, una specie di eremita che vive da solo su a Costabella, non so se ha presente il posto, sono una decina di vecchie case semidiroccate alle quali si arriva continuando per Via Mazzini, saranno tre chilometri dal paese, tutti in salita ovviamente. Non so di preciso quanti anni ha, credo una settantina.» «Settant’anni? E se ne sta lassù da solo?» L’ingresso dell’uomo lasciò la domanda senza risposta. «Signor Celeste, il cane…» «Il cane viene dove vado io!» - tagliò corto l’uomo chiudendo la porta in faccia al vigile e sedendosi senza tanti preamboli sulla sedia di fronte al Melis. «Tu non sei dei nostri!» – sbottò appoggiando gli avambracci sulla scrivania e scrutando l’uomo di fronte – «Come han fatto a farti sindaco?» «Non sono sindaco. Aldo Melis, piacere”» – la mano tesa non ne trovò nessuna da stringere – «Sono il commissario mandato a reggere il comune fino a nuove elezioni e no, non sono da qui. Le mie origini sono sarde» «Sotto naja, ho fatto l’alpino io, avevo un amico da Sassari. Mi scroccava sempre le sigarette, sto gran pezzo di…» «Si certo, capisco. Posso fare qualcosa per lei? A cosa devo la sua visita?» L’anziano strabuzzò gli occhi: «E me lo chiedi? Mi stai prendendo in giro? Non fare il finto tonto con me!» Il Melis sobbalzò sulla sedia. Si voltò verso Teresa con sguardo interrogativo, ricevendo in cambio solo un’alzata di spalle. «Signor Celeste, mi perdoni ma davvero non capisco cosa intende. Sono qui solo da due mesi, conosco il paese e i suoi abitanti in modo molto marginale, la prego di farmi partecipe dei suoi problemi o delle sue rimostranze e vedrò in che modo posso venire incontro alle sue esigenze.» «Va bene, tu non mi conosci ma qui in paese tutti sanno chi sono e come la penso. Io non rompo le palle a nessuno, me ne sto tranquillo per i fatti miei, pago le tasse, rispetto la legge ma non mi va di essere preso in giro. Quello che si sta facendo nei miei confronti è un affronto bello e buono!» Il tono di voce dell’anziano salì di un’ottava. Scattò in piedi con un‘ agilità sorprendente, imitato dal cane, un grosso esemplare di pastore tedesco con un foulard rosso legato attorno al collo. Anche il Commissario si alzò: «Signor Celeste, la prego non si alteri! Su, si sieda e ne parliamo con calma…» «Un corno! Io ho le mie idee lo sanno tutti! Sarò anche vecchio ma non sono stupido! Tu lo sai cosa devi fare e vedi di farlo in fretta! Adesso vado perché la strada è lunga!» Il vecchio stava per uscire quando Teresa attirò la sua attenzione : «Signore, per favore… il cane!» La bestia la stava annusando insistentemente mentre lei, tremante, non riusciva a muovere un muscolo. «Ben! Dai Ben vieni qua! Ben…BENITO!» Il cane scattò verso il padrone e lo precedette fuori dalla porta che si chiuse alle spalle dell’anziano con un tonfo. «Accidenti, credo di aver capito!» – sussurrò Teresa accasciandosi sulla poltrona lasciata libera da Celeste.
Devid ne aveva sempre sentito parlare come “il matto di Costabella”, ma era la prima volta che lo incontrava di persona. Se lo era immaginato come un vecchio malvestito e dalla barba lunga che camminava appoggiandosi a un bastone nodoso e invece quello che si era trovato davanti era un uomo la cui età era tradita solo dalle rughe del viso sbarbato di fresco. Se ne stava in piedi sull’uscio di casa con un grosso cane accucciato accanto. Non aveva risposto al suo saluto, se ne era stato fermo a osservarlo armeggiare coi contenitori sul retro del furgone. «Lascia pure lì» – gli aveva intimato con voce ferma quando aveva chiuso i portelloni. «Lì dove? »– aveva chiesto Devid. «Lì per terra! » «Ma…per terra? È sicuro? Non vuole che…» «Accidenti ma sei sordo? Ho detto lì!» Il ragazzo aveva appoggiato a terra la scatola grigia che teneva in mano. Che fosse un tipo strano lo sapeva, glielo avevano detto tutti. Quindi si era limitato a risalire sul vecchio “Fiorino” salutando con un: «Ci vediamo domani!» - cui, ovviamente, non era seguita replica. Prima che la vecchia casa di sassi scomparisse alla vista, a Devid era parso di vedere il grosso cane avventarsi sul contenitore lasciato in mezzo al cortile. Nei giorni seguenti la situazione era sostanzialmente rimasta invariata, tranne che per il fatto che Celeste non si era più fatto vedere. Devid trovava il contenitore vuoto a terra, lo rimpiazzava con quello pieno e tornava in paese. Nonostante questo “intoppo” gli piaceva quel lavoro perché gli permetteva di stare a contatto con la gente e soprattutto di racimolare qualche soldo e non dover pesare sulle spalle dei genitori per le sue piccole spese da universitario. Consegnare i pasti agli anziani del paese lo teneva impegnato per poche ore a cavallo di mezzogiorno lasciandogli tutto il tempo necessario per concentrarsi sulla sua tesi per la laurea in veterinaria. Era felice di essere tornato di nuovo fra le sue montagne, dopo anni trascorsi a Padova e il suo sogno, una volta diventato dottore, era restarci per sempre. Sognava di aprire un ambulatorio dove magari poter curare anche gli animali selvatici.
«Se n’è andato a metà degli anni sessanta, non appena finito il servizio militare. Si dice non andasse tanto d’accordo col padre, un reduce di Russia che ogni tanto alzava troppo il gomito, ma comunque un gran lavoratore. All’epoca Costabella contava una cinquantina di residenti, una piccola comunità che sopravviveva con quello che offriva la terra. Ogni famiglia aveva qualche mucca, qualche gallina, conigli, pecore, il maiale… C’erano i campi da coltivare, i prati da falciare, il bosco da tenere curato…Servivano braccia forti! Ma forse a Celeste tutto questo andava stretto. Allora come oggi la sua frase preferita, quella che metteva fine a ogni discussione, era: “Ho le mie idee!”» Aldo Melis ascoltava con attenzione il vigile che, seduto di fronte a lui, gli parlava del “matto di Costabella”. Quando Teresa gli aveva spiegato quale fosse, con molta probabilità, il problema il commissario aveva voluto approfondire la cosa. Si trovava in paese da poco, non conosceva molte persone. Lo avevano spedito lì, in quel villaggio incastrato tra le montagne, a fare le veci di un sindaco che non era stato eletto alle recenti elezioni comunali per il mancato raggiungimento del quorum. D’altronde, una buona parte dei 914 iscritti all’anagrafe, risultava residente all’estero e riuscire a comporre due liste, cosa che avrebbe evitato il dover raggiungere la percentuale necessaria, non era stato possibile. Così avevano mandato lui a tenere in piedi la baracca il tempo necessario affinché l’ameno pesino trovasse il suo primo cittadino. Non aveva certo fatto i salti di gioia, specie dopo aver visionato il dato relativo all’altitudine sul livello del mare, mare che per quasi tutta la sua vita lui non aveva avuto sotto, ma di fianco: 1109 metri. Era stato accolto da una pioggia battente e da un vento freddo che scuoteva gli alberi, perlomeno quelli che erano rimasti in piedi perché la gran parte erano riversi a terra e quando ne aveva chiesto il motivo alla donna che gli aveva mostrato l’appartamento in cui avrebbe abitato temporaneamente, questa si era presa il viso fra le mani e gli aveva raccontato di una tremenda tempesta di fine autunno, una cosa spaventosa che sperava di non dover vedere mai più! Proprio dopo quel catastrofico evento, salendo a Costabella per liberare la strada dagli alberi caduti, gli uomini della protezione civile avevano trovato Celeste molto provato. «Era stanchissimo, pallido, non aveva nemmeno la forza di prenderci a male parole quando lo abbiamo caricato sulla jeep per portarlo all’ospedale, ha solo insistito perché facessimo salire anche il cane. Tempo qualche giorno e gli infermieri ci hanno implorato di andare a riprendercelo: stava facendo impazzire tutti! Per farla breve, da analisi ed esami vari è risultato che l’alimentazione del caparbio vecchietto non era sufficientemente varia e adatta alle sue esigenze. D’altronde uno che scende in paese una volta al mese e torna su invariabilmente con: farina da polenta, 5 pacchi di pasta, una stecca di Nazionali senza filtro, due litri di grappa… qualche vitamina carente la dovrà avere!» «Ma niente carne? Niente verdura?» Il Melis era visibilmente perplesso. «Celeste da ragazzo era un eccellente bracconiere. Evidentemente lo è ancora. Inoltre alberi da frutto e appezzamenti di terra per farci un orto a Costabella non mancano di certo.» Quando il vecchio matto era stato dimesso, gli assistenti sociali avevano stabilito di inserirlo nell’elenco delle persone che ricevevano i pasti a domicilio e questa era la prima settimana che il ragazzo col Fiorino scassato si inerpicava fin lassù.
Devid non riusciva a capire dove aveva sbagliato. Gli era appena arrivata una telefonata nella quale gli era stato comunicato che purtroppo dovevano destinarlo ad un'altra mansione e non ne comprendeva la ragione. Sapeva solo che c’entrava “il matto “e lui era fermamente intenzionato a chiedergli spiegazioni. Fermò il furgone in mezzo al cortile e scese. Il cane, che di solito gli correva incontro abbaiando come un forsennato, era sdraiato in fondo all’aia, vicino alla sua cuccia. Celeste uscì prima ancora che lui avesse il tempo di bussare, evidentemente stava spiando dalla finestra. “Che vuoi?” – lo aggredì. «Buongiorno signore. Mi hanno comunicato che lei si è lamentato del mio servizio, vorrei sapere per quale motivo. È stato lei a dirmi di lasciare il contenitore e…» «Sarò chiaro: non mi piacciono quelli come te, tutto qua, non voglio averci nulla che fare!» «Quelli come me?» – Devid ci mise qualche secondo a realizzare: «Non dirà sul serio…io sono nato e cresciuto qui, parlo il dialetto, mio padre vive in paese da sempre!» «Puoi raccontarmi quel che vuoi, non mi interessa! Ho le mie idee e non sarai certo tu a farmele cambiare! Adesso vattene o ti mollo il cane! Ben, vieni qua! Ben!» Celeste si incamminò verso l’animale che non si era mosso di un millimetro. Devid lo seguì istintivamente e ancora prima che il vecchio si mettesse ad urlare lui aveva già capito tutto. «Ben, Benito… noooo! Cosa ti è successo? Ben…» Celeste piangeva come un bambino, ma non osava toccare il suo amico che giaceva su un fianco. Devid si inginocchiò vicino al cane: «È ancora vivo, ma dobbiamo portarlo in fretta da un veterinario, deve essere operato urgentemente!» «Non toccarlo, sta fermo! Che ne sai tu? » «Io studio veterinaria e le dico che questo povero animale o viene operato al più presto o muore: gli si è rigirato lo stomaco!» Senza attendere l’autorizzazione Devid prese in braccio la bestia e corse verso il furgone. Mentre adagiava Ben tra i contenitori dei pasti, notò Celeste salire dal lato del passeggero. Volò lungo i tornanti, le sospensioni che mandavano sinistri lamenti ad ogni sobbalzo, attraversò il paese infrangendo tutti i limiti e coprì in pochi minuti i sette chilometri che lo dividevano dal più vicino veterinario. Né lui né Celeste proferirono parola.
Costabella è l’ultima tappa del giro e Devid non ha fretta di andare da nessuna parte. Così ha preso l’abitudine di sedersi con Celeste su una vecchia panca addossata al muro di casa e fargli compagnia mentre si fuma una sigaretta. Tra un tiro e l’altro l’uomo gli mostra, indicando con un bastone, i sentieri ormai quasi scomparsi che si inerpicano sulle montagne e i posti dove una volta c’erano i vecchi alpeggi. Gli racconta la sua infanzia tra quelle case, gli parla delle persone che una volta camminavano tra quei viottoli, degli uomini che salivano per monti con un fucile e tornavano anche dopo giorni con l’ambita preda. «Durante la Grande Guerra il fronte correva lassù, vedi? Da qui se ne erano andati tutti, ma poi tornarono e ricostruirono le case e le stalle. Poi venne un’altra guerra e se ne andarono solo gli uomini. Qualcuno tornò, come mio padre, qualcun altro no. Ma adesso che guerra c’è? Perché se ne sono andati tutti?» Celeste se ne sta in silenzio per un po’. «Io dovrei solo tacere, visto che sono stato il primo ad andarmene, anche se non avrei voluto. Ho lasciato che fossero gli altri a decidere della mia vita, a decidere ciò che era meglio per me: che lavoro fare, cosa mangiare, come vestire, chi votare…Così ho lavorato per 40 anni in una schifosa fabbrica, ho mangiato cose che mi hanno rovinato il fegato, ho avuto armadi pieni di vestiti inutili e ho odiato persone solo perché qualcuno mi ha detto che era colpa loro se la mia vita non era come avrei voluto che fosse. Lo so che giù in paese mi chiamano “il matto di Costabella”, ma credo che in realtà sarebbe più giusto “il mona di Costabella” ...suona anche meglio, non ti pare?» Celeste sghignazza, da di gomito a Devid che lo fissa con sguardo interrogativo. «Al vecio mona e al bocja scur!» - e scoppia a ridere, una risata ruvida, di chi ha fumato sigarette per una vita oppure è tanto che non ride più. Anche Devid si lascia prendere dall’ilarità e l’eco che rimbomba tra i vecchi muri sembra far rivivere per un attimo il borgo deserto. |