Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXIV^ edizione - Milano,12 Gennaio 2019 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
Terzo classificato |
Mi sono rim QUASI GEMELLI Di FABIO TITTARELLI ROMA
Brontola, in lontananza. Tuttavia, non sembra avere in animo di sguinzagliare rabbia. Il vento non è di quelli evocatori di pioggia, un sospiro tenue, carezzevole. Fa danzare le foglie di betulla, vezzose. Sa d’estate incipiente. Renzo procede con passo lento, talvolta irregolare, dandosi pause generose, soggiogato dalle asperità del terreno. Un ritmo da confinato all’afasia urbana. Diverso, e del tutto, da quello col quale sarebbe asceso lui. Non era questione d’età, tredici mesi sono niente, difatti gli amici li chiamavano “quasigemelli”. Entrambi possedevano il medesimo soprannome, erano bonariamente definiti al plurale. Loro lasciavano fare, l’idea che fossero nati così a ridosso l’uno dell’altro li faceva sentire delle persone speciali, fuori del comune. Gradivano considerarsi insolitamente contigui. No, l’età non c’entra. Livio era più giovane solo d’un pugno di vagiti, pappine, capricci da assonnato; Renzo s’era appena avventurato a sgambettare per la stanza a braccia aperte per darsi equilibrio, che la madre già faceva risuonare l’urlo d’una nuova vita, piangendo poi di gioia nervosa, liberatoria, al rinnovare il calore del piccolo corpo sul proprio, estenuato. Ma la genetica aveva giocato a mescolare le carte, tra loro. Perché Livio è cresciuto accordando giorno a giorno il proprio fisico alla voglia di vincere ogni gara con se stesso, mentre Renzo ha dirottato sugli studi e l’introspezione, rinunciando a rincorrere il fratello lungo l’esaltante e arduo sentiero della vigoria atletica. Così, da “quasigemelli” Livio e Renzo hanno finito per distanziarsi nelle proprie scelte esistenziali, l’uno nella continua sperimentazione del proprio corpo congiungendosi, perlopiù in solitaria, alle cime più ardite quasi in un rapporto carnale; l’altro mietendo consensi e apprezzamenti come saggista e cattedratico, teorico in materia di risorse alternative. L’uno solitario per propria scelta, sentimentalmente legato alla sua unica passione, la montagna; l’altro infelicemente sposato per sua fortuna senza figli, quindi separato, quindi solo. Adesso Renzo sale col fratello nello zaino. Per liberarne l’energia nel vuoto, disperdendola a beneficio della natura che tutto assomma. Perché Livio possa riabbracciare la sua amata. Il tracciato si fa duro, nell’ultimo tratto, dove la faggeta lascia il posto a nudo pietrisco, sfarinatosi in millenni di sbalzi termici e dilavamenti. Dall’arco acuto del cielo screziato di nubi si stagliano i contrafforti della Signora, una teoria di canini raccolti come in ossequio attorno al gran molare della cima. Il suo respiro vira in ansimo, le gambe legnose rispondono solo all’inerzia, lacrime di sudore sgocciano ingrigendo per pochi istanti il candore del sentiero. È l’ultimo tratto, gli dice in un soffio, manca ancora poco, ce la faremo. Dammi la forza di arrivare, chiede a Livio. Lui non risponde, gli scarponi affondano nella fatica, ce la faremo, non dubitare, lo rassicura. Gli affiora tra rododendri e campanule il ricordo ancestrale d’una innocua canzonatura, saranno stati alle soglie della pubertà, Livio sempre avanti di qualche passo inghiottito dai mughi, lui stringendo i denti per non mostrare l’entità della propria sofferenza, frugando nei polmoni alla ricerca di un supplemento d’energia. «Andiamo lumachetta, che la vetta non aspetta. Senti che rima, dammi retta, la vetta non aspetta…», e lo intonava giocoso, scevro da fatica, squillante quasi fosse sul palco di un teatro e la sua voce dovesse giungere al fondo della sala. «Non mi vedrai sconfitto ai tuoi piedi, maledetto Carter», rispondeva Renzo affannato, parafrasando la nota espressione di un eroe dei fumetti che allora si divertivano a leggere insieme. E l’altro rideva, scevro da fatica, tornando a ripetere tra i mughi «dammi retta, la vetta non aspetta, non aspetta…». Poi, giunto in cima gli arruffava i capelli, «ce l’hai fetta ad arrivare in vetta, mannaggia la rimetta…», e lo abbracciava, felice di aver condotto l’altra metà di lui alla vittoria. Ecco, solo il ricordo è vivo. Lui, ora, riposa nello zaino, senza più canticchiare in rima esortando il fratello a salire, a salire. C’è troppo silenzio lungo il sentiero, pensa Renzo facendo leva sulle ginocchia a ogni passo, per alleviare le gambe sfinite. La scorge a pochi metri sotto l’austera croce di metallo tignato dal tempo, prima i capelli raccolti da un fazzoletto rosso fiamma, poi il corpo accosciato; davanti a lei due gracchi svolano chiamandosi con secche strida, che il vuoto amplifica e rende vibranti. Si solleva al sentirlo giungere affranto, trito di sudore, gli lancia un pallido sorriso che subito smorza, si porta sul ciglio dello strapiombo, torna a piegarsi sulle ginocchia, plastica, dandogli le spalle. È giovane, ma d’una giovinezza che si direbbe collaudata, le movenze lente e sicure di chi non si teme e lo sguardo che ha già conosciuto dolore. Renzo si toglie lo zaino, frettoloso ne estrae un pile, lo indossa. Solo dopo ha cura di tergersi il sudore, di affidare all’aria un soffio profondo a bocca semiaperta nel tentativo di regolarizzare il respiro. Lancia un’occhiata obliqua alla ragazza, non si aspettava di trovare qualcuno sulla cima, non è ancora la stagione vacanziera ed è giorno lavorativo. Questa presenza lo disorienta. Lei si muove verso un masso affiorante dal terreno, vi si siede. Prende una barretta di soia dallo zaino, la porge a Renzo, gli occhi dritti su quelli di lui, senza riserbo. «Ne vuoi?». Renzo ha un’esitazione nell’accettare, pensa che così facendo potrebbe prolungare la permanenza della ragazza sulla cima, e per ciò che deve fare non desidera testimoni. Però lei seguita a tendergli lo snack energizzante, lo invita a condividere, gli sembra sgradevole rifiutare. «Grazie», dice stringato. Poi, «io sono Renzo». E inizia a scartare la barretta. «Elvira. Ma tutti mi chiamano Elli». Fa un sorriso più aperto, vagamente ironico. Non c’è più traccia di temporale. Il cielo ha preso a sgranchirsi in fettucce di nuvole d’un bianco polveroso, scoprendo ampi spazi di sereno. A tratti salgono dal vallone attraversato da un rivolo d’acqua sentori floreali, come promesse di quiete. Elli non dice altro, si limita a guardare verso l’abisso. Per un po’ resta così, muta e immobile. Quindi si accomoda sul brecciolino ai piedi del masso usando lo zaino da guanciale, chiude gli occhi. Si fa invadere da quell’incanto di silenzio e sole ammiccante. Renzo estrae suo fratello imprigionato nell’urna di ceramica marezzata di verde intenso. Gli era sembrata amichevole per Livio, come un richiamo all’intensità delle abetaie. La ragazza mostra di non avere alcuna fretta, e lui arde per quell’incarico che ha preteso di assumersi, vuole estinguere Livio consegnandolo alla montagna e al vento per l’ultimo matrimonio col suo mondo perduto. Se lei si addormenta, pensa, faccio che non ci sia, che possa salutare Livio da solo a solo. Ma in quel momento Elli riapre gli occhi, li porta su di lui, sull’urna che stringe a sé quasi schiacciandola. «E’ mio fratello», si sorprende a dire Renzo, dopo un istante d’imbarazzo. «Me l’ha fatto promettere. Quando ancora mi pareva che non dovesse mai venire questo momento…». Fa un gesto vago con la mano, adagiando Livio a terra. Pensa a questa stranezza di spiegare a una sconosciuta l’inspiegabile, di rivelarle particolari intimi tra l’urlio dei gracchi e lo sfilacciarsi delle nuvole. «E’ stato un alpinista. Non sapeva cosa fosse la paura, mentre conosceva a perfezione il rischio, e se ne beffava. Una volta di troppo. La montagna, chissà, ha finito per sentirlo come un eccesso d’invadenza. Invece per lui era solo e soltanto amore. Travolgente amore». Elli non parla, non muove un muscolo. Seguita a fissarlo seria, rispettosa, offrendosi al suo sfogo. «Avrebbe potuto, io credo, sopportare la propria residua esistenza su una sedia a rotelle, ma non si è mai perdonato di aver mancato quell’appiglio. Forse non puoi capire…». «Invece capisco», risponde lei, quasi piccata. «Capisco bene. Anch’io amo arrampicare. E sempre, quando sono in parete, rischio con me stessa un letale atto di superbia…». Renzo non ribatte, ha bisogno di recuperarsi, stemperare l’angoscia di aver perduto metà di se stesso. Finora si è costretto a indossare la maschera del lutto freddo. Asciutto. Ora sente che è venuto il momento del rimpianto. «Mi ha scritto solo due righe, nient’altro. Due righe per dirmi che avrebbe desiderato volare da una cima e schiantarsi al suolo e riposare lì, annullandosi come parte della terra, ma inchiodato com’era su quella maledetta carrozzella non poteva che trovare un altro modo per chiudere i conti; così ha scelto il gas, che pure dalla terra proviene. Aggiungendo una postilla: ricordati la promessa». Inizia a piangere, dapprima lento, poi vinto da singhiozzi. Elli gli s’avvicina, lo abbraccia. Lui abbraccia il fratello, che riposa tra i due. «Se ti va, lo salutiamo insieme», sussurra al suo orecchio. Renzo fa sì col capo. La cenere, affidata al vuoto da quattro mani commosse, illuminata da un raggio di sole appare polvere d’argento. |