Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXIII^ edizione - Vittorio Veneto,7 Gennaio 2018

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

Terzo classificato

Mi sono rim

NERO

3° classificato

Di MAZZON RITA

PADOVA

 

 

Mi sono rimasti ancora impressi sulla pelle l’odore e la solitudine della Missione. In Nigeria, dove sono nato, c’è un sole che divampa e poi si spegne, sbriciolandosi nella notte in tante stelle. Di giorno mi scaldavo e restavo a bruciarmi per ore, come se volessi ricevere una carezza calda, accogliente da quel sole unico, tutto mio, ma nello stesso tempo così distante.

Andavo a cercare l’amore di una madre dentro gli occhi di ogni suora. Nelle parole di chi incontravo mi piaceva sentire il suono della voce. “Sei tu la mia mamma?”.  Una domanda che in cantilena andava e veniva, arrivava alla superficie, poi sprofondava giù dentro il cuore.

E sì che me l’avevano pur detto che i miei erano morti. E sì che ricordavo tanto sangue nero in una notte di luna piena. Il sangue cambia colore, quando non c’è luce e tutto si oscura. Ci sono colori buoni e colori cattivi. Io li ho conosciuti tutti. In Africa perdono consistenza ed i contorni si sfocano, diventano fluttuanti nei miraggi. Strisciano come serpi che si insinuano e tu stai immobile, perché credi di non sentire più niente, ma tra le pieghe ti iniettano il veleno della disperazione. Gli incubi arrivano. Colorano il tuo cervello. Tempestano i tuoi sogni.

“Quel giorno dimenticalo!”. E’ un imperativo che si frappone tra me e quell’altro. Tra me che ora vivo lontano dalla mia terra e quello che ha visto ed ha bevuto il dolore.

Mi ricordo mia madre che cantava piano, quando cercava di addormentarmi. Una notte il corpo dondolava seguendo una musica trasparente, che lei sola sentiva e poi c’è stato un unico grido, uno solo. Un colpo lancinante che è balenato un poco, per poi espandersi in sangue scuro. Quel colore rappreso aveva coperto tutto, anche il mio corpo. Navigavo dentro a mia madre.

Ero ritornato dentro la sua pancia. Mi ero fatto piccolo per diventare un pugno di ossa e pelle. Regredivo nell’idea di figlio. Ed il suo corpo è stato la mia salvezza, anche se adagiato sopra di me mi stava soffocando. Per sciogliermi da quell’abbraccio troppo pesante mi ero messo a piangere, ma mi sentivo al caldo.

I miei erano stati uccisi ed ero troppo piccolo per ricordare altro.

 

“Che hai amore mio? Sempre il solito incubo? Vieni qui. Non aver paura!”.

La mia mamma nuova ha i capelli gialli e la pelle rosa. La sua voce sa di zucchero in polvere. Quando sono arrivato mi ha preparato la torta ed ha setacciato la polverina magica che addolcisce. Piagnucolo e mi piace perdermi nel suo buon odore di vaniglia. Mio padre lavora tutto il giorno. Porta gli occhiali, perché così vede più lontano. Un giorno gli ho chiesto se con i suoi occhiali posso vedere la mia terra. Lui ha sorriso e mi ha dato una carezza. Qui sto bene. Sono un figlio nero di due genitori bianchi. I contrasti stanno bene assieme. Esaltano di più i colori.

 

Questa notte, o forse è stata un’altra notte ho sentito rimbombarmi dentro la testa lo schianto. Uno stridio di freni. Una nota stonata che batteva continua. Un acuto che mi ha spezzato il sogno in tanti frantumi di specchi. Pezzetti di ricordi sparpagliati sul cuscino. Schegge che mi penetrano di nuovo e sempre nella pelle.

“C’è stato un incidente… i tuoi genitori non ci sono più!”.

Mi hanno estirpato l’anima dal corpo. La rabbia in confusione mi ha graffiato, come un animale feroce mi ha sbranato ed ha reso la mia vita a brandelli. Ed ora?

 Ora che mi poteva succedere ancora di cattivo?

“Ora vai a vivere con tuo nonno!”.

Io, il nonno non l’avevo mai visto. Sapevo solo che viveva lontano. Certi parenti che conoscevo da poco mi hanno preparato la valigia. Ho preso il treno e la corriera, mentre in quel viaggio la mia vita ancora una volta cambiava. Il paesaggio frastornato correva all’indietro. Lasciavo la mia casa, la mia città, lasciavo il profumo di vaniglia per un qualcosa di ignoto, sconosciuto, che mi faceva sentire vuoto, indifferente.

Il nonno abitava in un paese di montagna. Non mi è venuto a prendere alla fermata. Non mi è venuto incontro. Stava in una casa vicino al bosco. Siamo arrivati a piedi con la valigia che pesava, mentre lui ci osservava dalla finestra ed ha aspettato che suonassimo per aprire la porta.

“Ecco, questo è Marco!”. Lo zio mi ha presentato al nonno che ci ha lasciato sulla soglia.

Era alto, grande con la barba bianca, però in mezzo a tutto quel bianco c’erano gli occhi della mia mamma. Era di poche parole. Mi ha mostrato che aveva preparato il latte nella tazza con le fette biscottate e mi ha detto. “Mangia!”. Poi ha sussurrato in un mugugno. “Sei nero come il mio cane Black.”.  Ed io allora ho sentito dentro di me un nuovo schianto.

Il nonno mi ha iscritto alla scuola del paese e tutti i miei compagni mi guardavano come si osserva qualcosa di diverso, di strano. C’erano troppi silenzi a scuola e a casa ed anche se non mi mancavano un letto, il cibo e l’istruzione, mi sentivo un escluso.

Il mondo stava fuori con le sue contraddizioni, mentre io mi rintanavo nel mio incubo continuo. Era perché avevo la pelle nera che mi venivano strappati via tutti i miei affetti? Provavo un senso di colpa. Un desiderio di espiare il peccato originale tatuato su tutta la mia pelle.

 Poi ho scoperto lei. Lei che mi ha donato i suoi silenzi pieni e si è messa così vicina che ancora adesso ne sento perfino il respiro.

E’ stato in giorno in cui ho seguito il nonno. Si era preparato quella mattina come ogni tanto faceva. “Io salgo. Tu stai qui con Black.”.

Si era messo gli scarponi, la giacca grossa di fustagno. Nello zaino aveva messo le funi ed il picchetto. Mi aveva salutato con la mano. Io l’ho osservato, convinto che questa volta l’avrei seguito. Gli avevo chiesto più volte. “Posso venire con te?”. Lui mi aveva risposto sempre di no.  Al terzo no ho desistito. Me ne rimanevo allora chiuso in cucina, oppure giocavo con il cane. C’era troppa distanza tra me ed il nonno, troppi discorsi non conclusi, che rimanevano a mezz’aria. Io obbedivo, ma ribollivo dentro. Ero una bottiglia di acqua frizzante mal chiusa che scoppiettava di continuo, sempre sulla difensiva. Mi ero convinto di essere per lui un impiccio. Un grosso problema scaraventatogli addosso, a cui cercava di porre rimedio, col cibo e l’istruzione, mentre io avevo bisogno solo di un po’ di affetto.

Non mi ero mai allontanato dal paese. Ero incuriosito da quella macchia bianca in mezzo ad un grigio scuro, che vedevo da lontano. La roccia si assottigliava, diventava esile in una punta affilata, temperata dal freddo gelido. 

Vedevo il nonno con passo lento, ma sicuro incunearsi dentro il bosco, salire con sicurezza nel sentiero, mentre io arrancavo. Lo perdevo ad ogni curva, per poi ritrovarlo all’improvviso. Su, sempre più su, un punto nero sull’orlo del costone. Guardavo avanti, perché avevo paura di cadere. Il baratro era così vicino, che potevo toccare con gli occhi la paura. Mi entrava nelle ossa un vento freddo, come il senso di abbandono che mi avevano lasciato i miei cari.

Ad ogni passo non c’era il compimento di un altro passo, ma bensì provavo un crollo. Lo spazio che i sentimenti avevano aperto nel mio animo ora erano diventati la mia caduta, il mio smarrimento. Le azioni erano una resa alle parole perdute delle mie madri. Ogni mio atto era passivo. In me non c’era slancio o stupore. Seguivo un uomo, solo perché non volevo sentirmi solo.

Poi ecco alla svolta decisiva, tutto è cambiato. E’ stato come se mi sentissi più vicino a un che di indefinito e nello stesso tempo palpabile da tutti i miei sensi. Stavo in mezzo all'abbraccio della montagna, che non mi soffocava, ma anzi mi stava offrendo l’infinito. Non respiravo, non ansimavo, mi sembrava di essere respirato dalla montagna.

Ho sentito la libertà esaltare il mio spirito. Mi sono spogliato di tutta la sofferenza ed ho guardato in alto, aggrappandomi ad uno spicchio di cielo azzurro che si intravvedeva tra le cime. Più su c’era un bianco abbagliante, compatto, più su c’era quella cosa che io non aveva mai visto: la neve. Stava là la mia liberazione?  Il nonno aveva cominciato a scalare ed io avrei avuto la forza di raggiungerlo?

Il grido mi è uscito fuori da tutto quel silenzio azzurro e bianco. Sono scivolato. Le mie scarpe di ginnastica non erano preparate a quella scalata. Allora, solo allora quel vecchio burbero si è accorto della mia presenza ed ha lasciato la presa. Ha abbandonato quel possesso momentaneo della roccia ed è ritornato indietro. E’ corso verso di me e mi ha aiutato. Il braccio cercava nello sforzo di allungarsi. Le sue dita si sono uncinate alla mia mano e con fatica mi ha issato su, vicino a lui.

Mi ero ferito al viso e ad una mano. Sentivo il caldo sciogliersi dal sopracciglio ed arrossare tutto il paesaggio intorno.

Il rosso scuro gocciolava, scomponeva a pezzi la montagna.

Mi si era annebbiata la vista. Il corpo aveva cominciato a rabbrividire, sconquassando il silenzio pieno di quel luogo antico. Contaminavo con il mio sangue la sua integrità senza tracce, mai calpestata dal dolore.

Il nonno non parlava. Le parole gli si erano conficcate in gola per lo spavento. Discorrere poi in quel momento non aveva più senso. L’esterno era troppo denso per combattere ancora. La rabbia, la sofferenza si erano arrese. Erano venute a galla e si erano vaporizzate più su, verso la cima.

Ho osservato in controluce la sagoma di quel vecchio che mi stava serrando tra le sue braccia vigorose. Era un’ombra scura, più nera della mia pelle. Noi eravamo completamente neri in quel mare bianco che brillava intorno. La montagna aveva scarnificato la scorza dura dei nostri caratteri ed ora li aveva vivificati, come una levatrice. Lei ci ha aiutato a far rinascere l’affetto reciproco attraverso la spinta delle nostre emozioni. E quello è stato l’attimo esatto in cui, dall’espressione dei nostri volti e dei corpi uniti, ci siamo venuti incontro, fermi, saldi, sicuri.

Ero rassicurato ormai dalla presenza di mio nonno, verso il quale avevo provato solamente un minuto prima soggezione. La montagna aveva fatto esplodere il nostro concepimento emotivo. Una vera conquista per uno come me che non era stato ancora in grado di viaggiare dentro il suo essere. Diventavo l’attore protagonista della mia storia. Utilizzavo le mie perdite per aprirmi a tutto l’amore che avevo ancora da donare.  

Il nonno mi ha tamponato le ferite e mi ha stretto a sé forte, tenendomi nel calore delle sue braccia. Ed io allora ho riscoperto mia madre e mio padre d’Africa, ho ritrovato mia madre e mio padre d’Italia in lui.