Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXIII^ edizione - Vittorio Veneto,7 Gennaio 2018 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
Il disertore Di BOSCHIERO MAURIZIO CHIUPPANO (VI)
In un giorno di giugno, sarà stato, credo, intorno al ‘64, ero andato a trovare un mio vecchio prozio, Bepi Comparin, fratello di mia nonna Silia, che abitava giù in Bessè a Chiuppano. Classe 1885 aveva fatto la prima guerra come soldato, non so bene dove e né in che corpo. Forse me l’aveva anche detto, ma a quei tempi avevo altro per la testa. Mi è rimasto solo un dialogo, che mi riferiva sarcastico, di un suo commilitone con un superiore al fronte. “Teloficco Luigi?" “Signorsì!” rispondeva impettito e ignorante il soldato. Purtroppo gliel’avevano ficcato davvero, perché morì tragicamente in un assalto all’arma bianca. Lui invece bene o male se l’era cavata e tornò al suo lavoro di carrettiere. Trasportava la ghiaia che scavava dall’Astico e rivendeva; faceva anche dei noli al lanificio DAL BRUN, quello del LODEN, che in quegli anni funzionava in Bessè. Ci aveva lavorato anche mia nonna, prima come operaia, poi in ufficio, credo come contabile. Questo mio prozio un po’ grossiero e lamentoso era sempre fiacco, forse malato di ipocondria. Aveva sempre qualcosa che non andava e tormentava sua moglie, la Rosa, con lagne e richieste di medicine, tisane, papette, unguenti o di quant’altro. “Come vala zio?” gli chiedevo quando lo incontravo o lo andavo a trovare. “A go un cerchio in testa e son storno”, rispondeva con una liturgia sempre uguale a se stessa. “Anca mi”, gli rispondevo, “a go un cerchio, sarà el tempo”, tagliavo corto. lo avrò avuto dieci anni o giù di lì e cercavo di distrarlo dalle sue pittime. Stavo lì, ma con gli occhi guardavo da un’altra parte, specialmente le cavre che poco più in là brucavano per la corte e le galline che con il gallo se la intendevano. Quel giorno passò per la strada a piedi il vecchio Gabréle che io conoscevo perché quando di notte tornava dalle osterie di Bastianon, di Volpato o Della Riva, cantava a squarciagola sotto il lampione della casa di Toni Brigo, nella corte dove abitavo vicino al ponte in via Costo. Io di solito lo ascoltavo dal tetto, perché quando tornava era tardi. Mi piaceva sentirlo e ormai avevo imparato qualche strofa delle sue arie. All’alba vincerò.... “Basta ramengo!” si udiva ogni tanto gridare. Mai saputo chi fosse sto qua con le balle girà e pien de sono. Cantava col gelo d’inverno anche sotto la neve, cantava con l’afa d’estate con o senza la luna, quando le finestre erano aperte. Che fosse caldo, che fosse freddo era là sotto il lampione. Alla fine, s’incamminava dondolando, traversava Bessè, il ponte del Maio e tornava nella sua casa vicino all'Astico. “Bongiorno!" disse quando ci passò davanti senza fermarsi e a me aveva strizzato l’occhio. “Bongiorno!” rispose mio zio senza aggiungere altro. “Ciò, quel lì el xe sta un disertore sto fiol d’un can!” aggiunse mio zio sottovoce, dandomi un colpo di gomito che per poco non mi fece cadere dalla carega. lo non avevo ben chiaro chi fossero i disertori, però avevo la percezione che fossero dei poco di buono, dei figuri che in qualche modo avevano tradito i compagni o la Patria. O avevano fatto qualcosa di male o robà. “Cossa gaIo fato?”gli chiesi. “EI se ga imboscà de qua e de là nei magazini invense de nare in tricea”, aggiunse, suto suto, mio zio. Ne ricavai una sensazione sgradevole, di un uomo senza valore, di un furbastro, di un poco di buono. Mi smontava quell’immagine simpatica che avevo di lui che di notte cantava. Non aggiunsi altro, ero solo un po’ stomegà, guardavo da lì la mia casa tra i campi piantata in fianco al vento. Mio padre come sempre era giù per le balze della riva tra le visele e le siaresare che faticava. Non avevo più sentito Gabréle cantare quell’estate, o forse solo una volta e credo di aver messo la testa sotto le coperte per non sentire. Era il DISERTORE!! “Cossa gavaralo tanto da cantare?” mi chiedevo sgomento. Un giorno, sotto Natale, mio padre doveva copare el mas-cio. Nevicava, non forte, ma tanto bastava per colorare di bianco la corte, i campi e gli alberi stecchiti e scuri; la vecchia rete malmessa intorno alla casa sembrava una ragnatela immacolata. Sotto il portico sulla stufa, un pignattone di acqua a bollire, la mésa per terra e un tavolaccio sbilenco di legno; io e mia madre e le mie sorelle, in un angolo avevamo costruito un piccolo presepe con il lispo, le vecchie statuine, la neve con la farina, il laghetto con un pezzo di specchio rotto e la culla messa sotto a dei sassi a forma di grotta. Mancava il bambinello, perché quello si doveva mettere solo alla vigilia. Ero a casa per le vacanze di scuola, mia madre mi tendeva d’occhio che non combinassi qualche guaio e per distrarmi mi aveva preparato il libro di scuola aperto sulla pagina che dovevo studiare. Una storia sulla Prima Guerra: Soldati in trincea. Ma quella mattina avevo proprio la testa da un’altra parte. Altro che guerra mondiale! Poi arrivò il masc-iaro con tutto l’armamentario, coltelli, barattoli, e robe strane. Ad un certo punto davanti al cancello e in mezzo a quel biancore apparve un uomo intabarrato. “Xe qua anca Gabréle a darne na man”, disse mio padre. “Bongiorno, che fredo, gavio l’acqua gelà?” “No a go lassà un filo che’l vae”, rispose mio padre. “Alora ghe sémo”, replicò il vecchio. Entrò in corte lasciando le pecche sul saliso, si tolse il tabarro e il cappello, sbattè i piedi dalla neve e andò su per la stufa a scaldarsi fregolandosi le mani. Tremavano un po’, erano pallide e magre. lo ero assorto a guardare le seleghe infreddolite sulla rete, ma avevo visto mio padre col mas-ciaro parlottare sottovoce. Quando si diressero verso la stalla con un coltello, io li volevo seguire. “No, ti sta fora, daghe na man a Gabréle”, disse mio padre. Allora avevo capito che per la povera bestia era giunta ormai la sua ora. Infilai el stroso di fianco al portego e in fretta mi ritrovai dietro la casa. Passando, vidi Gabréle chinato sulla pagina aperta del mio libro; leggeva. La neve, adesso, era tanta a venir giù, lontano la sagoma scura dell’Astico. Ai confini del campo, verso la Sengela, il giallo dei cachi coperti di bianco con i merli neri che svolazzavano intorno. Ero agitato, mi poggiai sulla marela di fieno e feci pipì. Sulla neve lo schizzo dorato sembrava quasi un rosario; feci un pensiero che non soffrisse troppo. Avevo passato un’estate con quella bestiola, che piano piano era cresciuta e diventata proprio un bel maiale. Quando cominciai a sentire strillare forte mi accucciai e mi tappai forte le orecchie, non volevo sentire! Non so quanto rimasi così, finché un tocco sulla schiena mi fece girare. Ero coperto di neve e di mestizia, ma quella mano calda sciolse per un attimo il gelo. Era Gabréle, mi prese per mano e mi accompagnò, togliendomi i fiocchi, sotto il portico. Nino era disteso e già Io stavano immergendo nell’acqua. Mi voltai dall’altra parte, non volevo proprio vedere, anche l’odore del vapore spanto per l’aria mi faceva star male; e andai dritto davanti al presepe. “No sta piansare, dai belo, la xe la vita sta qua”, mi disse, asciugandomi con la mano gelata le lacrime che mi rigavano il viso. Belo el presepio”, esclamò, “lo ghetu fato ti?” “Sì, mi e me mama e me sorele”, risposi. “E quela storia de guerra la ghetu leta?” mi chiese, forse per imbagolarmi e portarmi col pensiero da un’altra parte. “Sì, la go leta”, risposi e anca la maestra Piccini la ne conta delle belle storie dei soldà”, risposi. “Se te vui te conto calcossa anca mi ca ghe son sta”, aggiunse quasi sospirando. "Si grassie”, risposi. Allora si sedette su una vecchia carega e cominciò a raccontarmi del Natale in trincea, di uomini che non volevano uccidere e che nella Santa Notte si erano scambiati del pane e del vino tra i reticolati. Di Austriaci e di Italiani che erano fratelli. Dei poveri soldati costretti a uccidersi anche senza capirci niente. E lui che aveva fatto un piccolo presepe dentro una scatola di cartone delle munizioni incrociando dei chiodi. “Quel presepio ce l’ho ancora nel cuore e c’è una croce di sangue al posto del CRISTO”, mi disse in italiano. Capii che era un uomo diverso e cominciava a stupirmi e a piacermi, ma in testa ormai avevo un po’ di confusione. A scuola mi avevano detto che il nemico era al di là delle trincee divise dai reticolati, che doveva essere ucciso chi aveva un’altra divisa. Che chi uccideva un nemico faceva la sua parte di buon soldato. “Quanti ne ho visti morire di uomini, di padri, di ragazzi e di animali” aggiunse Gabréle pieno di lacrime. Io, quando canto, mi piace pensare che la mia voce raggiunga in cielo i miei compagni di guerra che sono morti e non hanno avuto il tempo di vivere. E nell’inverno nei fiocchi di neve o nell’estate con le lucciole penso alle anime che tornano sulla terra magari per un attimo, il tempo di un niente. Ma tornano!! Mi colpivano le sue lacrime e quell’italiano che non avrei mai pensato. Poi si alzò in piedi, andò verso la rete coperta di neve e con un pezzo di reticolato fece una piccola croce. La intinse nel sangue del maiale che avevano raccolto in una pentola e la depositò nella culla vuota del presepio. lo non sapevo più cosa pensare, non sapevo più nemmeno dov’ero, mi ricordo che vidi i miei occhi riflessi sul pezzo di specchio che fungeva da laghetto. Mi sembravano smarriti, confusi, persi dentro quelli di un vecchio disertore... No so quanto tempo restammo così, mi girai che la stanga era piena di salami, salsicce, sopresse e pancette; il mio Nino ora era lì così trasformato e da mangiare. Mio padre e il masc-ciaro erano stanchi morti e sfiniti e affamati. Si fermarono per un bicchiere e una fetta di polenta brustolà. La neve ormai era alta, Gabréle che abitava lontano ad un certo punto disse: “Mi scapo, che a go tanta strada da fare a pie, e ti”, rivolgendosi a me, “non sta dismentegarme.” “E ricordete che anche le bestie lega un’anima, parfin anca le piante.” Mio padre gli dette lo stesso qualcosa anche se era stato quasi tutto il tempo con me. Forse aveva capito che era stato più importante del far su el mas-cio. Gabréle si rimise il tabarro, il cappello e riguadagnò la strada, adesso le orme erano profonde e faceva fatica ad avanzare strascicando i piedi tra la neve che cadeva. In un attimo lo vidi sparire nella tormenta. lo avevo nel cuore le sue orme profonde. Poi anche il mas-ciaro se n’era andato all’imbrunire. Una piccola cena con la carne del masc-io in casa mia. Io di malavoglia trangugiai un po’ di caffellatte. Quel Natale nella culla del presepe ho tenuto la croce, il bambinello non l’avevo nemmeno scartato. Mia madre guardando per aria sospirando esclamava: “Mariassantissima cossa diralo l’ansiprete che’l ga da passare sti giorni?” La sera nel letto pensavo a quella giornata sotto il tepore delle coperte. “Che gelida manina...” Gabréle il mio amico cantava che sembrava una preghiera. Tirai appena su la persiana e tra le sfese Io vidi sotto la neve in quel biancore immacolato con la luce della lampada di Toni Brigo che colorava la scena. Lo ascoltai finché non finì l’aria, non sentivo altro, nemmeno il freddo della rigida camera. Lo rividi verso l’estate e allora, con la finestra aperta, ascoltai la sua preghiera in un nugolo di lucciole a punteggiare la notte. Forse erano i suoi compagni che tornavano, forse c’era tra loro anche Teloficco Luigi, chissà porocan! Poi non lo vidi più e un giorno seppi che anche lui se n’era andato. “X’e morto el disertore”, mi disse mio zio Bepi. Lo guardai male, forse Gabréle era stato tra i pochi UOMINI a vedere al di là del reticolato. Il suo insegnamento l’ho portato nel cuore. Da quel giorno infatti mangiai poca carne, poi sempre di meno, fino proprio a cancellarla del tutto; quanto ai disertori...c’è molto da discutere e gli alberi, per me, come un fiore o un filo d’erba soffrono, amano e hanno un’anima... Quella LUCE accesa lassù sul Cengio in questi anni per il centenario della Prima Guerra, per me è GABRE’LE’ che torna e mi strizza l’occhio. Questo è il mio modo per non dimenticarti!! |