Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXIII^ edizione - Vittorio Veneto,7 Gennaio 2018 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
Lettere amaranto di Pelosi Michele Robbiate (LC)
14 aprile 1915 Mia Amata, quando un mese fa ho svestito i panni del maestro di scuola elementare, costretto a indossare l’uniforme d’alpino, non immaginavo che sarebbero bastati solo trenta giorni perché la mia casa, i miei studenti, la mia valle e la mia montagna divenissero un ricordo in apparenza lontano. È in questa memoria che una sottile malinconia si è insinuata al punto da costringermi ad afferrare carta e penna per darle sfogo. L’inchiostro che disegna parole, è uno scrigno dove racchiudo i pensieri che a nessun’altro posso rivelare certo che, un giorno, tu rileggendo questi passi, comprenderai le mie emozioni. Ho lasciato l’amata terra della Valtellina, la vista sul silenzio del Bernina, il sussidiario sulla cattedra e le abitudini di quasi trent’anni, per raggiungere Udine con la brigata alla quale sono stato assegnato. Siamo stati alloggiati in una caserma e non posso lamentarmi, anche il morale della camerata è alto. Sono tutti bravi ragazzi, la maggior parte contadini, gente semplice che conosce il sudore della fronte e il valore di una stretta di mano ma che la guerra non l’ha mai fatta. Ho stretto amicizia con un giovane delle parti di Treviso, si chiama Corazza, mi supera di venti centimetri in altezza e ha due grandi baffi che fan da cornice a una bocca sorridente. Ieri il tenente ci ha concesso tre ore di licenza che abbiamo speso per un giro della città. Udine è davvero grande, molto di più della mia Chiesa. Ha larghe strade sulle quali si affacciano eleganti palazzi e ci sono fontane, sculture e piazze. Corazza ha studiato qui e m’ha fatto da guida. Abbiamo chiacchierato come fossimo stati amici da tempo. A un tratto, senza spiegarmi il perché, mi ha chiesto di seguirlo. Aveva una sorpresa, ha detto. Così mi ha condotto al castello sopra la città, un luogo antico e carico di storia. Siamo saliti fermandoci solo quando abbiamo raggiunto una balconata che dominava un panorama di tetti, distesi sotto un cielo abbagliante d’azzurro. Ha indicato un punto lontano e io ho capito: quel ragazzo aveva colto la malinconia nelle mie parole e mi stava regalando un pezzetto di casa indicandomi la cintura di montagne che disegnava l’orizzonte. «Le vedi? Son sorelle di quelle della tua Valtellina. Presto le conoscerai e capirai», ha detto. Dolcissima Amata, ti riferisco questo per assicurarti che sono in salute e sto bene. Non ti preoccupare, sarà una guerra veloce di pochi giorni e dopo tutti faranno ritorno a casa, orgogliosi di aver aiutato la Patria e il Re. Io lo so che tu, Amata mia, non esisti, che sei il frutto della fantasia, ma ho bisogno di scrivere a qualcuno, a un affetto che purtroppo ancora non ho trovato. Non sono pazzo, e proprio per questo non oso affrontare i prossimi giorni nella solitudine. Ho bisogno di coraggio e della certezza che un giorno potrò raccontarti quello che sto vivendo, mentre ti stringo la mano e mi perdo nel colore dei tuoi occhi. Se riesco a crederci avrò un motivo per andare avanti anche quando arriveranno i momenti difficili, perché arriveranno. E dunque mi abbandono alla fantasia, pensando a come sei, immaginando che abiti qui, tra le genti del Piave e che presto ci incontreremo. Fino a quel momento, conserverò gelosamente ogni missiva, lasciandone che il foglio resti legato al quaderno come fa l’albero con la foglia. Quando ci innamoreremo, queste pagine diverranno tue e comprenderai perché t'amavo ancor prima di conoscerti. Antonio
24 giugno 1915 Bellissima Amata, ho trovato il modo per scriverti ogni sera. All’ora più buia mi siedo sulla branda e approfitto del chiaro di una lanterna esterna che mi regala una lama di luce attraverso la finestra vicina. Mi fa da candela, fioca, tuttavia sufficiente a segnare le parole più care. La guerra è iniziata e le diverse compagnie si sono mosse secondo gli ordini ricevuti. In tanti sono partiti per il confine che non è molto distante qui ma non temere, io sono al sicuro, almeno per ora. Il fato ha voluto che fossi parte di un piccolo drappello affidato a un tenente bresciano. Con altri cinque alpini, tra cui Corazza, trasportiamo quello che serve tra Udine e i centri di collegamento. Munizioni, pezzi di ricambio ma anche vettovaglie. Accatastiamo le casse sui camion e con quelli saliamo su per strade che fiancheggiano i monti. Scortiamo il carico fino al luogo della missione, scarichiamo e torniamo indietro. Stamattina, quando siamo arrivati al campo, eravamo molto vicini alla prima linea e ho udito il fragore della battaglia. È la prima volta che ascolto la rabbia dei cannoni ruggire. È un suono che mette paura, più dei tuoni nelle notti di montagna. Ne ho il ricordo di quando bambino dormivo in baita con papà e certe volte, d’estate, arrivava il temporale, con i lampi e i boati, e io spaventato mi rannicchiavo sotto al lenzuolo facendomi piccino piccino. Lui mi rassicurava: «Stai tranquillo», diceva, «finché la terra non trema puoi dormir sereno». Qui invece la terra ha tremato cento volte: erano le bombe nemiche e per ognuna di esse ho immaginato un angelo sollevarsi. Stanotte ho recitato un Padre Nostro anche se non lo ricordavo bene, ma sentivo di dover chiedere un po’ di pietà per quei poveretti che stanno lassù. Cara Amata, non ti rabbuiare delle mie frasi, gli italiani avanzano riprendendosi le terre strappate e presto sarò di ritorno. Ho parlato di te a Corazza, ma non ho detto tutta la verità. Gli ho lasciato intendere che sei bellissima, che ci vogliamo bene ma che non ho trovato il coraggio di chiederti in moglie. Lui ha imprecato qualcosa, poi ha detto che era meglio così, perché i soldati al fronte non possono fare promesse e le vedove servono solo a innaffiare i fiori sulle tombe. È un gran tipo Corazza, dovrò presentartelo. Tuo Antonio
03 gennaio 1916 Dolce Amata, Il nuovo anno mi ha regalato una inquietudine acuminata che mi punge al solo pensiero di casa. Ci sono sere che fatico ad addormentarmi, anche quando sono stanco. È in quei momenti che penso a te, allora ti trovo un nome - mi piace molto Anna - e poi ti sogno distesa accanto, la pelle chiara delle ragazze di qui, la mano morbida che mi accarezza il viso e la voce, dolce, che allontana il rumore della guerra. Un santo sconosciuto mi protegge perché non ho ancora ricevuto l’ordine di avvicendamento in prima linea, invece Corazza è dovuto partire l’altra settimana e starà lassù per ventuno giorni, o forse anche di più. Credimi, non ha perso il sorriso nemmeno l’alba in cui m’ha salutato anzi, mentre il camion lo portava via, ha gridato: «Bada a te maestro! Tra un mese voglio ritrovarti come t’ho lasciato!». Se da queste parti siete tutti così non vedo l’ora di conoscerti mia Amata. Io invece continuo a trasportare aiuti e munizioni alle retroguardie, ma la novità è che ora al ritorno, sempre più spesso, carichiamo dei feriti per riportarli a valle. Li sistemiamo nel cassone come meglio possiamo e io mi siedo dietro con loro, a dar conforto. Non posso far molto, gli parlo, ma la maggior parte è assente, isolata in mondo oscuro di tremiti, paura e dolore. Quando saliamo a Carnia ammiro le montagne immacolate di neve fresca, i pendii, gli strapiombi e perfino la roccia selvaggia. Ora comprendo cosa intendesse quel giorno Corazza quando chiamò “sorelle” queste vette, poiché è vero, sono figlie della stessa Patria, gemelle di quelle della Valtellina e rendono noi, montanari, un po’ tutti fratelli. C’è tanta terra qui, buona per i pascoli o per far crescere frutta e cereali. In primavera deve essere bello stendersi sul prato a contemplare la caccia dei falchi, o magari arrampicarsi sulle cime più alte per scorgere il limite del panorama. Oggi, invece, su quelle cime si combatte e si muore. Io credevo che l’inferno fosse seppellito nelle viscere della terra e non sulle vette che sfiorano le nuvole, ma devo ricredermi ogni volta che uno di quei ragazzi distesi nel cassone, mi muore tra le braccia. Sempre tuo Antonio
02 ottobre 1916 Mia Amata, è diventato più difficile scriverti, anche poche righe, poiché alla fine l’inevitabile è accaduto: mi trovo al fronte. Avevo vagheggiato della durezza di questi luoghi ricamando sui racconti ascoltati dai tanti che ho conosciuto. I pericoli, il filo spinato, il freddo e la paura, eppure mai avrei mai potuto immaginare la realtà. Viviamo nelle trincee che feriscono questi monti, muovendoci come topi timorosi di alzar la testa. Stiamo ammassati, pronti a respingere un nemico che non ho ancora visto ma che so essere nascosto poco più in là. Corazza è morto. Me l'ha detto il tenente senza giri di parole: un colpo di cannone ha colpito la sua buca mentre dormiva trasformando la fossa in una tomba. Io non ho replicato nulla perché non c’era nulla da dire, però poi ho pianto. Scusa se ti ho rattristata. C’è anche una cosa bella di cui non ti ho ancora scritto: prima di venire qui, durante l’ultimo trasporto, ho visto il mare! Oh amore mio, sapessi quant’è bello e quanto è immenso. È così grande che non se ne scorge la fine. È stato merito del tenente che dopo aver scaricato del rame ad Aquileia m’ha domandato: «Ma te che arrivi dalla montagna, l’hai mai visto il mare?», e io gli ho risposto di no, ma che avevo letto Moby Dick e Verne. Allora lui ha guidato verso sud fino a quando non l’abbiamo incontrato, il mare. Credo che abbia voluto farmi un omaggio prima che partissi per il fronte. È una brava persona. Ci siamo seduti su un muretto, il sole tramontava lontano, e abbiamo acceso una sigaretta. Siamo stati in silenzio a osservare lo spettacolo, poi mi ha chiesto se avevo una donna che mi aspettava a casa e io ho risposto la verità: «No, signor tenente». Lui non ha aggiunto nulla e fino alla fine di quella sigaretta la guerra è sembrata non esistere. Sempre tuo Antonio
29 ottobre 1917 Mia Amata, la guerra mi trasforma e questi mille giorni mi hanno inaridito facendo di me l’uomo che non sarei voluto essere. Non mi riconosco più, il maestro che ha lasciato la valle è svanito e ora nel mio corpo dimora un assassino, un bestemmiatore, un’altra persona. Ci sono state terribili battaglie e l’ultima è durata molti giorni. Una mischia feroce, tra carni trafitte, fumi asfissianti e urla dannate. Io ero nel mezzo, a sparare contro ombre e figure lontane, assordato dal fragore degli scoppi e circondato dall’incessante fischiare dei proiettili. All’imbrunire, mentre la vista ancora bruciava di polvere e di lacrime del giorno, è accaduto l’inaspettato. Gli austriaci sono apparsi a ridosso delle nostre linee e noi ci siamo sentiti persi. Alle spalle avevamo l’esplodere dei loro colpi di cannone e dinanzi l’avanzare di mille fucili. Sono saltati nella trincea ed è stato il caos. Le urla si sono mescolate agli spari e le grida ai pianti. Uno si è gettato su di me con la baionetta issata ma nella foga è scivolato, rovinandomi addosso, proprio sul pugnale che stringevo tra le mani. Ho affondando con forza la lama nel suo torace, spingendo con una furia che era figlia della paura e non del coraggio. Siamo caduti in terra in un abbraccio mortale, faccia a faccia. Il suo volto aveva i tratti di una giovinezza perduta, i brufoli, il rossore delle guance e grandi occhi azzurri che mi fissavano spaventati, inchiodati dal dolore, quasi volessero chiedermi se stava morendo davvero. L’ho ucciso eppure non ho scorto la gloria dell’eroe. Invece porterò con me il ricordo di un dettaglio: la sua bocca aperta e il vomito amaranto di sangue. Quel rosso si è impresso nel fondo dei miei occhi e da allora tutto ciò che mi circonda, anche queste parole, ha lo stesso colore. Sono fuggito, sopraffatto dalla furia dei nemici e aiutato dagli alpini, miei fratelli. Mentre correvo a testa bassa ho provato il batticuore della preda che viene braccata. È stata una lezione: ora comprendo l’ironia della vita che non pone differenza tra la paura e l’amore, poiché in entrambi i casi lascia il cuore impazzire. Tuo Antonio
14 giugno 1918 Splendida Amata, ho deciso che l’ultimo dei miei gesti sarà scriverti una lettera. È notte fonda e sono solo, al buio, attraversato da brividi funesti. Giaccio disteso tra i sassi del Monte Grappa, vetta tanto bella e tanto dolorosa. Mi ricorda il mio Bernina e anche adesso non riesco a far a meno di pensare alle cime “sorelle” di Corazza. In fondo, morire qui è un come se accadesse a casa. Qualche ora fa, in quattro stavamo perlustrando un tratto di trincea a nord. C’è grande movimento in questi giorni e voglia di vittoria. Eravamo tutti attenti e sereni, procedevamo in silenzio, quando un fragore è esploso tra di noi. Forse è stata una bomba piovuta dal cielo, forse qualcos’altro, non saprei dire. Ne ricordo il boato, il calore che divampa sulla pelle e poi più nulla, solo il nero. Ora mi risveglio qui e osservo i brandelli di me mescolati allo scuro della terra e mi tornano in mente i ragazzi trasportati nel cassone. Intorno il nulla, però posso sentire i colpi dei nostri e veder i bagliori dei cannoni italiani. Io non resisterò molto, lo so, tuttavia la luna piena ha avuto pietà di me, mi accarezza e mi concede un po’ di luce per scrivere quest'ultima missiva. Devo combattere il tremore della mano per trattenere la matita affinché possa dedicarti questa lettera d’addio. A te, la donna che non ho potuto amare e alle terre, belle e martoriate, che ho scoperto in questi anni terribili. Ti avrei condotto su quelle montagne “sorelle”, ma senza parlare di questi giorni, solo per restar con te ad ammirare il silenzio. Poi, tornando verso valle, ti avrei raccontato di Corazza, e tu mi avresti insegnato il dialetto di questi paesi, a modo tuo, sussurrandomi frasi d’amore. Sarebbe stato bello vivere qui con te. Una macchia rossa amaranto s’allarga a sfiorare il bordo del quaderno. Lo sposto, non voglio che rovini le lettere mai inviate. Ora vado, sono stanco. Grazie mia Amata, grazie per essere stata compagna e amica; e non fartene un cruccio se non ci siamo incontrati. Tuo Antonio
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