Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXIII^ edizione - Vittorio Veneto,7 Gennaio 2018

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

Secondo classificato

GAS

Di D’AGARO PAOLA

 PORDENONE

 

«Pensavo: non ci sono più foglie sul monte, né cicale, né grilli; e c’è rimasta la mia morte, viva»

 

«O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza!
Dolorosa ci fu la partenza
che ritorno per molti non fu.»

 

 

 

            Alle cinque del mattino le bombole vennero aperte.

            Si sente un sibilo, tanti sibili. Una nebbia verdastra che odora di fieno e di muschio avanza verso il vallone di San Martino, silenziosa raggiunge la  “trincea delle lunette”, scende verso la Cappella Diruta fino alla “trincea dell’albero storto”,  la “buca carsica” e la “difesa delle bombarde”: giù, fino al Dente del Groviglio e al Ridottino, fino alle valli di Sdraussina, al saliente della “trincea delle frasche”, a Castelnuovo, a Quota 197 di Bosco Cappuccio e a Quota 143, dove si trovano le  postazioni della Brigata Regina.

 

            La sera prima avevo marcato visita nel posto avanzato di medicazione dietro la prima linea nel Valloncello di Cima 4 a San Michele.  Tremavo di febbre e battevo i denti. Un infermiere mi disse di stendermi dove trovavo posto, che poi il dottore sarebbe venuto a vedere come stavo. Trovai posto su un vecchio cappotto grigioverde incrostato di sangue e abbandonato contro il muro bianco d'intonaco della stalla che fungeva da infermeria, in mezzo a soldati inebetiti appoggiati alla parete o distesi su un fianco. Attorno solo gemiti, uomini grandi e grossi che chiamavano la mamma e l'odore forte di fenolo e di etere. I barellieri uscivano di corsa e rientravano  reggendo barelle su cui giacevano giovani in divisa sballottati come fantocci,  e ogni tanto ce n'era uno che si contorceva e si lamentava, non si sa se per le ferite o per gli scossoni. Subito fuori dalla baracca, in un angolo, avevo intravisto entrando un sacco da cui affioravano arti e pezzi di budella. Sono gli stessi sacchi da cui i cucinieri scodellano carne lessa imputridita che ha addosso l'odore e i peli ispidi della iuta bagnata.  Sa di rancido e della cenere con cui hanno cercato di  disinfettarla e di farla tornare fresca. Quella sera solo minestra calda, che rifiuto, e qualche arancia che succhio con avidità. Ma è meglio così, perché al solo pensiero di quella carne sento montare la nausea. Le latrine sono terra di conquista di ratti grandi come conigli e di certe bisce scure che a volte fanno capolino dalle vasche di liquame gonfiate dalla pioggia. Ci giro attorno, vedo una quercia, mi ci appoggio con tutte due le mani e vomito. Cristo, dove sei?

            Soffice, ecco cosa vorrei adesso: qualcosa di soffice su cui lasciarmi cadere, come il divano rosso del bordello di Tolmezzo, dove la madama ti fa accomodare intanto che aspetti. Soffice come le piume di struzzo con cui dopo, in camera, ti accarezzano la schiena signorine sorridenti.

            Attorno alle 9 di sera il dottore viene a visitarmi. Sono già pentito. Pentito di aver creduto a questa guerra, pentito di aver voluto fare l'eroe a tutti i costi presentandomi come un cretino al Comando con la smania partire per primo, pentito di essere nato, persino. E pentito di essere seduto lì, a guardare le luci delle ambulanze  che caricano i feriti per l'ospedale militare, e il lavorio delle squadre che prendono in carico i cadaveri. Perché lo so che non c'è malstare  che tenga in un posto così, che nessuno è disposto a prenderti sul serio per un problema del mondo di là che qui, al massimo, può fruttarti un'accusa di diserzione. E con i disertori non si scherza, è una delle prime cose che si imparano al fronte. Una volta condannati, vengono legati mani e piedi e gettati come sacchi di stracci in un greppo o scarpata del monte e nessuno si cura di controllare se sono morti o se si sono soltanto rotti un braccio o una gamba. Tanto è gente che deve morire. Rantolano e il loro rantolo non ha nulla di umano, sembra il rantolo di bestie strozzate. I sopravvissuti hanno facce di dementi e vanno ripetendo, come presi da fissazioni: “Dio, Dio, Dio” oppure: “Mamma, mamma, mamma” e consumano così la loro agonia.

            Ora che Gorizia è solo un maledetto puntino sulla carta geografica dove generali impettiti e corrucciati infilzano bandierine e tracciano linee immaginarie, ora che so, sono convinto che comunque sia, comunque la pensi, io dovrò attraversare quelle pietraie che chiamano monti, strisciare lungo la terra di nessuno, lanciarmi nelle trincee nemiche, superare a nuoto l'Isonzo  e prendere Gorizia. “Che tu sia maledetta!” penso.

            “Prendi questo e cerca di dormire”, il dottore mi dà un bicchiere con del chinino e poi mi passa una pasticca scura e spugnosa avvolta  in una cialda trasparente che pare una particola.

 

            E' il giorno della prima comunione, spalanco la bocca e allungo la lingua perché l'arciprete possa appoggiarvi il “corpo di Cristo”. Ho paura di avere la lingua troppo piccola e che la particola finisca per cadere a terra. Sarebbe la catastrofe. Le cronache da oratorio parlano di pavimenti in cui è ancora impresso il segno del sacrilegio e di bambini segnati per questo dalla dannazione eterna. Non è caduta, ce l'ho fatta a stringerla forte con le labbra, perché i denti non la devono toccare, ma ora si è incollata al palato e resiste a tutti i miei sforzi per staccarla. Ho le mani giunte, la fronte bassa e non so cosa fare, finché la sento sciogliersi sulla lingua. Un attimo e non c'è più. Il corpo di Cristo è dentro il mio, sciolto, liquefatto, evanescente.

            Evanescente, come i suoni, le luci, il profumo del corpo di una donna, il frinire delle cicale in estate, i temporali d'agosto, il belare delle pecore al pascolo. Sogno tutto questo mentre penso che qui nulla è evanescente, ma tutto è provvisorio.

 

            “Signor tenente, quando finirà?”

            Lui sta per andare e si volta a guardarmi. Ficca le mani nelle tasche del camice e non dice nulla, alza solo un po' le spalle e scuote la testa. Forse è troppo stanco anche per rispondermi. Poi dice: “A Natale saremo a casa”.  E io capisco che non ci crede neppure lui. Mi alzo e torno dai miei compagni in prima linea.

            Cammino verso i ricoveri più vicini, a ridosso della trincea. Per questa notte dormirò lì,  sono troppo stanco, domani tornerò al mio reparto. Nei camminamenti la fanghiglia abbonda. Mi muovo guidato dalla luna su strati di coperte da campo e mantelline fradice disseminate ovunque,  tracce di umanità da cui esala un puzzo di fermentazione. Cerco un varco verso l'asciutto di una baracca da cui filtra la luce tenue di una candela, o forse di una sigaretta. Poi inciampo su qualcosa di duro, cado con le mani in avanti e quando mi rialzo scopro che si tratta di una scarpa.  E' una scarpa di ottimo cuoio, porta un paio di larghe uose di forma sgraziata che sembrano però molto  più pratiche delle nostre mollettiere. Il numero potrebbe essere il mio. Scavo tra il fango, i detriti, le schegge di granata e di shrapnel in cerca dell'altra. Scarpe comode, finalmente, e calde.

            Morbido, il posto perfetto dove infilare i piedi, per sentirli liberi come quando cammini in cerca di gamberi sulle pietre levigate del Leale, e dopo un po' non senti neppure il freddo dell'acqua che scende impetuosa dalla montagna, ma solo il sole che ti pizzica la pelle nuda delle spalle e ti sembra di camminare sulle acque come Cristo. Se, guardandomi indietro, dovessi cercare la felicità in un posto come quello la ritroverei lì, nell'attesa di un paio di scarpe morbide, le scarpe di un crucco.

            Ma l'altra non si trova. Trovo invece il piede che c'è dentro la prima, e un brandello di gamba recisa proprio sopra al ginocchio. Un pezzo di austriaco lanciato da una granata nelle nostre trincee. Succede. Vai a sapere dov'è il resto con la sua scarpa d'ordinanza. Ad ogni scoppio di bombarda vengono lanciate per aria braccia, gambe, teste, che poi vanno a sfracellarsi sulle rocce del Carso. Peccato.

            Sono nel ricovero. Fa caldo, si soffoca, o forse è solo la febbre. Scavalco i corpi dei compagni addormentati che si arricciano in posizione fetale e mi conquisto un posto infilandomi tra due fanti che sembrano dei bambini da tanto sono magri. Uno di loro lo riconosco. “Pardi” sussurro “fammi stendere”. L'amico comprende, ma non può. Alla sua destra ha un altro soldato, per cui non può muoversi e poi l'equipaggiamento glielo impedisce; pur tuttavia, adagio adagio, scambia il posto alla baionetta, alla borraccia, alle giberne, al tascapane e piano piano riesce a voltarsi. Ha dimenticato la maschera antigas. “Tieni, è tua” gli dico. “Te la regalo”, borbotta mezzo addormentato, “tanto, per quello che vale”. Io la ficco tra la camicia e i calzoni, così non impiccia. Passa qualche minuto ed è lui a pregarmi: “Boschian, fammi il piacere, girati un po' tu a sinistra che non ce la faccio a stare sempre nella stessa posizione”. L'alba ci sorprende così: un enorme gregge di pecore infangate. Cerco di rimanere aggrappato al sogno che se ne va con la luce e i colpi di fucile lontani. Sono seduto davanti allo spolert e sto inzuppando la polenta fredda nel latte caldo mentre da fuori arriva l'odore del letame appena spalato che fuma ancora sulla concimaia.

            Dolce, il profumo del latte che si mescola con quello della polenta e del letame. Come vorrei che fosse dolce questo risveglio: il bacio di mia madre, poco più che ragazza, che mi sorprende nella beatitudine di un sogno infantile e alza le coperte da cui si sprigiona l'odore aspro di miele, sudore, e foglie di pannocchia.

           

            Sono le cinque del mattino, qualcuno si muove nel sonno leggero che precede il risveglio, le sentinelle si stropicciano le mani assaporando la fine del turno.  Io, inquieto e ancora febbricitante, esco a a fare qualche passo e a fumarmi la prima sigaretta della giornata quando accade qualcosa. Un  fumo giallognolo emerge  da becchi invisibili, ma sinistramente numerosi,  e comincia a spingersi, col favore del vento, verso la nostra linea. E' un attimo, poi le sentinelle capiscono e corrono disperatamente ai grandi barattoli di latta che funzionano da improvvisati campanelli d’allarme: ma il gas è più veloce di loro. Non vedo altro che una nube che cammina a passo d’uomo, abbassandosi appena due palmi da terra. Poi  il caos.

            Che si fa quando ti uccidono col gas? Cerchi di scappare ma non sai dove, mentre attorno gli ufficiali gridano di accendere gli apparati Nicolaidi per disperdere il fumo e di indossare la maschera. Intanto i compagni là in basso, ancora avvolti nel sonno, respirano e muoiono senza neppure accorgersi di quello che sta succedendo. D'un tratto mi  ricordo della maschera del Pardi e la sfilo dalla pancia. La museruola di garza e filo di ferro non funziona, almeno non abbastanza. Tossisco, sento gli occhi bruciare come se si stessero accartocciando. “Uscite tutti! Cercate di salire, andate più in alto che potete!” gridano. D'accordo, ma dove? La maschera ti annebbia quel po' di vista che ti rimane, il respiro si fa sempre più greve. Vorrei lasciarmi cadere lì e non alzarmi più, sia quel che sia. Il respiro si fa sempre più affannoso. Merda! Che ne sarà di me? Mamma! Nina! Papà! Sono morto, non piangete, sono morto per la Patria...ma quale patria? È allora che li vedo. Hanno lunghi pastrani bigi e si aggirano come monatti tra i morti e i feriti. Appena sentono un rantolo, un lamento o un respiro  calano la loro mazza ferrata sulla testa del nemico agonizzante. La chiamano morgenstern, stella del mattino. Dov'è la Patria adesso? Eccola è lassù, in cima a quella croda. Allora scavalco i reticolati che mi strappano il panno delle braghe – e non solo, perché sento il sangue colare lungo il polpaccio – e corro, corro. Quando arrivo davanti alla croda mi ci arrampico con le poche forze che ho e quando sto per svenire dal dolore opprimente che sento nel petto mi strappo la maschera e finalmente respiro. Uno, due, tre boccate profonde che squarciano i polmoni e poi più niente.

            Non so quanto tempo ancora sono rimasto lì a terra, con la morte addosso, ma si vede che non era destino che morissi, non subito, almeno. Mi sono svegliato con il corpo in subbuglio, il respiro faticoso e un forte bruciore agli occhi. Lentamente mi sono avviato giù verso i ricoveri. Si stava facendo l'appello e già mi avevano dato  per morto.

            Non ci reggiamo in piedi, sembriamo moribondi o folli. Per due giorni e due notti,  automobili, autocarri, carri e carrette caricano cadaveri di soldati uccisi dal  gas, che da verdi sono diventati neri come il carbon fossile, e li trasportano al cimitero di Sdraussina. Lì, centinaia di soldati del Genio hanno aperte delle buche dove saranno sepolti. Nel giro di qualche minuto, dai seicento agli ottocento uomini nel pieno della vita sono morti in silenzio, colti nel sonno, come se fossero stati colpiti dal pugno di un fantasma, senza che nessuno di essi si sia reso conto di quello che avveniva.

 

            Data la perdita quasi totale degli uomini della Brigata Regina, il nemico è riuscito ad occupare momentaneamente la trincea di Monte Cappuccio ma l'ha dovuta subito abbandonare e ritornare sulla posizione di partenza poiché la nostra artiglieria, con tiri di sbarramento lo ha respinto. Il 9° e il 10° Fanteria, componenti la Brigata Regina, non esistono più, ma la guerra continua.L'8 agosto di quello stesso anno un giovane sottufficiale del regio esercito, Aurelio Baruzzi, ha il permesso di attraversare a nuoto le acque dell'Isonzo portando con sé una bandiera italiana. Dopo pochi minuti, raggiunta l'altra sponda, Baruzzi  issa la bandiera nei pressi della stazione ferroviaria. Gorizia è italiana.

            Io sono ancora vivo, malridotto ma vivo. Le notizie mi raggiungono nel letto d'ospedale dove stanno cercando di rimettermi in piedi dopo l'intossicazione da fosgene perché possa tornare al fronte per l'offensiva finale ed essere protagonista dell'ormai prossima vittoria. Ora che Gorizia è presa, i giornali dicono che la guerra finirà presto e che il Natale 1916 lo passeremo a casa. Soffice, evanescente, morbido e dolce, come tutti i Natali.