Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXII^ edizione - Treviso,8 Gennaio 2017 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
Stelle cadenti Di Roberto Cipolato - Funo di Argelato (Bo)
Friuli, da qualche parte vicino al confìne, maggio 1915 Il reparto motorizzato attraversò di gran carriera il paese anticipando la lunga teoria di soldati che saliva curva e silenziosa sotto il peso dello zaino. Quei soldati appartenevano alla brigata Catanzaro diretta al fronte. Una squadra del 141° reggimento fanteria al comando del tenente Giuseppe Alberti si sganciò dalla colonna fermandosi in paese per installare una stazione telegrafica. Il giovane ufficiale poco più che ventenne veniva dall'Emilia, era di aspetto signorile, gentile ma fermo nei modi. Apparteneva a una famiglia agiata, brillante studente ai tempi del ginnasio sembrava avere sempre tutto sotto controllo e anche per questo era benvoluto dai suoi uomini. Non era convinto di questa guerra ma suo padre, avvocato e fervente interventista lo aveva spinto con orgoglio alla carriera militare facendogli abbandonare il sogno di diventare giornalista. Giuseppe mise subito i suoi soldati al lavoro, il più volenteroso si chiamava Pietro, un uomo taciturno e grosso quanto un armadio. Veniva dalla Calabria e questa guerra che l'aveva strappato alla sua terra non la mandava proprio giù. Primo di otto figli, una sera pregò il tenente Alberti di scrivergli una lettera in cui raccomandava ai suoi fratelli di prendersi cura del raccolto e degli anziani genitori. Pietro era analfabeta e istintivamente ossequioso verso gli uomini che "avevano studiato e sapevano far di conto" ma per il tenente era incondizionata ammirazione e rispetto, soprattutto da quando aveva cominciato a insegnargli a scrivere: "VÙ maestro ammia? - "Certo, non vorrai che scriva le tue lettere per tutto il tempo della guerra" gli aveva risposto il tenente. Maggio 1917, decima battaglia dell'1sonzo Erano trascorsi già due anni dall'inizio del conflitto e non se ne vedeva la fine. La mattanza per quel giorno era finita, Giuseppe provato e indurito da quella vita prese il suo inseparabile taccuino e annotò lapidario: metri conquistati zero, soldati morti tanti, troppi. All'alba i fischietti dei comandanti di compagnia avevano guidato l'assalto per prendere quel maledetto saliente ma le ondate si erano infrante una dopo l'altra contro il muro invalicabile delle mitragliatrici austriache cospargendo la terra di nessuno di morti e uomini agonizzanti. Con il passare delle ore le urla strazianti si affievolirono, una dopo l'altra. Giuseppe provò un senso di colpa quando verso mezzanotte cessarono, si sentiva ancora solo un flebile lamento. Scosso nell'animo si decise, anche se era un suicidio sarebbe andato a recuperare quel ferito che evidentemente non voleva morire. Protetto dal buio della notte uscì fuori dalla trincea strisciando sulla pancia. Si era allontanato appena di un paio di metri quando sussultò sentendosi serrare uno scarpone, si girò trovandosi davanti il faccione dell'inseparabile Pietro. Il calabrese lo guardò serio: "Adduvrì tenenti?" chiese, anche se aveva intuito le sue intenzioni. " Torna dentro la trincea, è un ordine!" sussurrò concitato Giuseppe. Il soldato arretrò contrariato e sparì dentro il camminamento. Giuseppe continuò ad avanzare, pochi metri alla volta, metri che sembravano centimetri. Si voltò indietro per vedere quanta strada aveva fatto scorgendo una sagoma massiccia avanzare goffamente dietro di lui, Pietro fece un sorriso che sembrò un ghigno. Era inutile arrabbiarsi, quello non lo avrebbe lasciato andare solo. Quando lo raggiunse gli mostrò una tenaglia da reticolato: "Chista tagghia u filu". Giuseppe gli schiacciò la grossa testa sul terreno "Vienimi dietro, senza far rumore. Mi darai una mano a tagliare il reticolato ma senza seguirmi oltre, altrimenti ti sparo, mi hai capito?" Pietro annuì. "Ora andiamo, silenzio assoluto, mi raccomando". Venti minuti dopo arrivarono sotto i pali inclinati dei cavalli di frisia che spuntavano minacciosi dalla nebbia, il nemico era vicino, poteva sentire i passi delle sentinelle austriache. Giuseppe si girò sulla schiena facendosi passare le tenaglie. Quando tagliò il filo spinato il rumore secco gli sembrò forte come una cannonata. Si girò verso Pietro: "Tu non passeresti, resta qui e tieni aperto il varco ma se cominciano a sparare dattela a gambe". Il tenente s'infilò oltre le spire del reticolato e sparì inghiottito dal buio guidato dai lamenti del ferito. Quando lo raggiunse capì che ci sarebbe stato poco da fare. Era riverso su un fianco, intrappolato nei reticolati della prima linea di difesa austriaca. Poco distante da lui c'era il moncone dilaniato del suo braccio destro e tutt'attorno altri corpi di soldati italiani morti. Lo riconobbe, si chiamava Francesco e non aveva ancora vent'anni. "Francesco" sussurrò Giuseppe. "Tenente, non voglio morire" mormorò il soldato riconoscendo la sua voce nella notte. "Non morirai" mentì. La perdita di sangue l'aveva ormai indebolito, le sue parole nell'agonia uscivano smozzicate e scivolò nell'incoscienza. I minuti passarono, terribili, poi le ultime stille di vita lo abbandonarono. Un'ora dopo il tenente ripassò dal varco dove il fedele calabrese lo attendeva, bastò uno sguardo. Tornarono nella trincea, Pietro aveva imparato a conoscerlo e lo lasciò solo. Giuseppe si chiuse in un cupo silenzio, prese il suo taccuino e vergò un pensiero, come aveva fatto per ognuno dei suoi soldati morti. Ottobre 1917, XII battaglia dell'Isonzo. Caporetto nacque prima della battaglia, germinò all'inizio della guerra nella mente di ogni singolo soldato italiano prima che sulle montagne del Colovrat. S'insinuò nel morale di ogni fante e di molti ufficiali attraverso la sottile ma inesorabile breccia dello sconforto che si era fatto largo in chi era partito nel '15 con l'idea di una guerra di poche settimane. Dopo il pesante bombardamento iniziato alle due del mattino, le tre divisioni tedesche di supporto all'esercito austroungarico cominciarono la loro incontenibile avanzata e fu il panico. Come un effetto domino si cominciò a scappare, prima verso il Tagliamento, poi venne l'ordine di attestarsi sul Piave come ultimo baluardo per resistere all'inarrestabile avanzata del nemico che sciamava giù dalle montagne. Migliaia di soldati in rotta e civili sfollati parte di un unico esercito di disperati. Le strade divennero un caos inenarrabile, le truppe italiane si ritiravano scompostamente dal Carso lasciando sul campo cannoni, munizioni, animali da soma morti per sfinimento sotto il peso del carico e soldati caduti che non c'era tempo di seppellire. Giuseppe arrivò con i superstiti del suo reparto in quel paese che conosceva bene e si diede da fare per cercare di regolare il flusso di civili in quelle strade diventate crocevia della disperazione. Fu proprio in quel tragico momento che un giornalista al seguito del regio esercito smise di armeggiare attorno al treppiede della sua macchina fotografica e colse l'immagine di quel giovane ufficiale che sembrava non aver paura, lo sguardo rivolto verso la montagna, fermo come roccia a far da spartiacque alla fiumana di disperata umanità. Dall' altra parte della piazza Giuseppe vide Don Gerindo, il parroco cercava invano di calmare una donna. Era la Caterina, la zia di Giovanin, un ragazzino nato nel 1901 in America, primogenito di una coppia di emigranti. Cresciuto a pane e racconti patriottici era tornato da qualche mese nel paese d'origine dei genitori a prendersi cura dei campi del nonno morto da poco. Ci mise un po' ad attraversare la piazza facendosi largo a fatica tra la folla. "Cos'è successo?" chiese al parroco. "Giovanin ... ha preso una mitragliatrice! Stamattina l'ha caricata su un mulo ed è salito sulla montagna". Non c'era tempo da perdere, Giuseppe aveva conosciuto il ragazzo e sapeva che era una testa matta. Il tenente partì subito ma disse al parroco di recuperare Pietro prendere carretto e mulo e di raggiungerlo sulla montagna. In un paio d'ore di marcia arrivò in cima alla sella che separava due aspre vette. Stava per scatenarsi un temporale e il vento prese a sibilare rabbioso. Si fermò per riposare un momento vicino alla grande croce di ferro quando il crepitio di una raffica di mitragliatrice echeggiò tra le pareti di roccia. Giovanin si era rifugiato in una dolina trecento metri più in basso cercando di fermare l'avanzata di una pattuglia tedesca intenta a risalire il costone. Quei tedeschi facevano parte di una delle tante squadre d'assalto artefici dello sfondamento a Caporetto. Rimanendo al riparo di alcuni grossi massi i soldati tenevano il ragazzo sotto il fuoco incrociato. Giovanin sparava brandeggiando la mitragliatrice ma dopo un'ultima raffica le munizioni finirono. I tedeschi se ne accorsero e iniziarono una manovra di accerchiamento. Il ragazzo si alzò di scatto e cominciò a correre. "No, sta giù!" gridò Giuseppe dall'alto scaraventandosi giù per il pendio con la pistola in pugno. Lo raggiunse spingendolo dentro una buca mentre il fuoco nemico s'intensificava sollevando schegge di roccia dappertutto. Ormai era questione di minuti, Giuseppe li si piazzò davanti afferrandolo per le spalle: "Ascoltami bene, sparerò gli ultimi colpi che mi rimangono per coprirti, tu corri senza fermarti fino in cima e stai giù". Giovanin lo guardò, il tenente aveva un'espressione grave negli occhi, quello sguardo durò un attimo ma il ragazzo se lo portò dentro tutta la vita. Si alzò di scatto e con la velocità dei suoi sedici anni salì carponi verso la sella dove Don Gerindo e Pietro erano appena arrivati. Quando lo vide in salvo e fuori tiro il tenente gridò loro di andarsene ma il prete rimase immobile a fissarlo, scuro in volto, aveva capito. Giuseppe sapeva di non aver speranze, quella pattuglia non avrebbe fatto prigionieri, si sedette rassegnato pensando alla sua fidanzata, mentre le pallottole gli fischiavano attorno. Prese dal taschino il suo taccuino e un lapis, il prete avrebbe fatto il resto pensò. Nel giro di pochi minuti i soldati comparvero sull'orlo della buca con i fucili spianati e fumanti ma non spararono più. Forse fu il cielo cupo e i boati del temporale che squassavano la montagna ma al sergente tedesco quel prete lassù, vicino alla croce, con la lunga tonaca che il vento faceva garrire come un nero vessillo sembrò un segno dell'apocalisse. Ordinò ai suoi uomini di proseguire e sparirono oltre il crinale verso la pianura italiana. Le nuvole si squarciarono, cominciò a piovere forte, Pietro portò il carretto sull'orlo della buca. Giovanin ammutolito aveva lo sguardo fisso a terra. Don Gerindo pensò al rimorso che questo povero ragazzo avrebbe avuto per tutta la vita e quando raccolse il taccuino intriso di sangue e un fiore reciso che era caduto dalle mani di Giuseppe per un momento la sua fede vacillò. Il volto di Pietro era una maschera esangue, lo sollevò tenendolo tra le braccia come un figlio addormentato adagiandolo nel cassone. Poi, come sapesse cosa fare, il mulo si avviò con il suo mesto carico e il carretto ondeggiò nel tratturo ridotto dalla pioggia ad una mota rossastra sbattendo uomini e anime. Quando giunsero in cima alla sella il temporale era passato, il cielo tornò limpido tingendosi dei colori dell'imbrunire. Don Gerindo e Pietro alzarono lo sguardo quando una stella cadente tracciò una lunga scia luminosa nel cielo. Si guardarono e provarono conforto nel pensiero che li accomunò in quel momento. "Ora è lassù" disse il parroco e finalmente il soldato pianse. Mia adorata Amelia non trovo le parole per dirti quanto ti amo e quanto più doloroso delle ferite sia il mio struggimento per avertelo detto per così poco tempo. La vita terrena mi sta abbandonando, questa vita che avrei voluto vivere con te per sempre, ma l'amore che provo andrà oltre tutto questo, lo sento, forte e dirompente. Spero che quanto abbiamo vissuto non possa più accadere, che non scenda più l'inverno nel cuore degli uomini e che nessuno possa più rubare il nostro tempo. Ti lascio un fiore che avevo raccolto per te, se un giorno verrai da queste parti potrai riportarmelo. Non dovrai cercarmi perché sarò ovunque, in ogni zolla di questa terra intrisa di sangue, in ogni anfratto di queste montagne assieme ai miei compagni e quando la guerra finirà sarò nel vento gentile che accarezza l'erba dei prati, in quello impetuoso che sferza le creste ammantate di neve. Sarò in queste aspre colline, nei vigneti dorati del collio al tramonto, nell'acqua fresca dei ruscelli d'estate e in questo cielo, assieme a tutta questa bellezza che all'uomo non è bastata. Sarò nella speranza di aver donato la vita per fare del mondo un posto migliore per chi verrà dopo di noi. Epilogo Ancora oggi, se qualcuno si trovasse a salire su una certa sella della catena montuosa che fa da spartiacque tra Italia e Slovenia, prendendo il sentiero che dalla cima scende nella dolina incontrerà un piccolo cippo di pietra. Non c'è nessuna data inscritta, ma solo una nicchia che protegge una vecchia fotografia color seppia. Fu scattata nell' ottobre del 1917 in un paese vicino al confine nei giorni della disfatta di Caporetto. Gli anziani del paese raccontavano che subito dopo la fine della guerra e per molti anni a venire, un uomo avanti con l'età, un famoso avvocato che veniva dall'Emilia dicevano, ogni mese d'ottobre e sempre nello stesso giorno, sole, vento o pioggia che fosse, si faceva portare con un carretto in cima alla montagna. Se ne stava in silenzio vicino alla grande croce, poi scendeva da solo sino al cippo e rimaneva laggiù per diverse ore. A detta del contadino che lo accompagnava, ogni volta che risaliva sembrava più vecchio. Né il gelo dell'inverno né il vento impetuoso che soffia da quelle parti è riuscito ancora a scalfire la bellezza di quell'immagine che ritrae un giovane, lo sguardo volitivo e risoluto. Ha il viso rivolto verso l'alto, verso la montagna e sembra raccontare una storia, la nostra. Pietro Partecipò alla seconda guerra mondiale con l'ottava armata in Russia salvando dal congelamento un tenente che aveva la metà dei suoi anni. Catturato durante la battaglia di Nikolaevka sopravvisse alla deportazione nel campo di concentramento russo di Rada, tornò in Italia nel 1946. Prese la licenza elementare, ebbe molti nipoti, tutti laureati. Non si mosse più dal suo paese in Calabria sino alla morte avvenuta negli anni sessanta. Non raccontò mai della guerra. |