Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXII^ edizione - Treviso 8  Gennaio 2017

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

Primo classificato

 

L’Attilio

TALAMINI STEFANO

Torri di Quartesolo (VI)

 

“Mi no, la guera no la voi far pi”.

Attilio Giobatta De Pellegrin fu Bortolo e fu Marietta Corazza aveva battuto forte un rabbioso pugno sul tavolo dell’osteria prima di pronunciare, con una pacatezza quasi irreale, la sua avversione alla chiamata della patria.

Il Duce aveva appena tuonato dalla radio la sua sfida al mondo e tra gli avventori era sceso un vuoto raggelante, nonostante tutti fossero convenuti al cospetto di quell’unico apparecchio sapendo già – immaginando, temendo – quel che stava per essere annunciato. Al silenzio degli uomini perfino il canto serotino degli uccelli s’era zittito e il vento pareva aspettasse una spinta per riprendere a soffiare, come se la natura avesse percepito e fatta propria l’ansia che aveva attraversato i cuori di quel manipolo di ormai prossimi soldati. Solo più tardi, nell’intimità delle alcove, lontano dalle orecchie dei bambini, qualche pianto sommesso avrebbe condiviso con la sua sposa la preoccupazione per l’immediato futuro.

Di lì a poco erano cominciate ad arrivare le “convocazioni” e a uno a uno i giovani della valle erano stati divelti dalle loro famiglie. Dopo qualche tempo anche i meno giovani dovettero partire e infine anche quelli che la guerra l’avevano già vista e ora gli toccava – boia can! – andare a vedersene un’altra. Per ultimo, quasi fosse il disegno di un sadico stillicidio, la cartolina arrivò anche all’Attilio, che nel frattempo aveva messo a punto il suo piano di resistenza per evitare la divisa e continuare a confidare che quella brutta faccenda finisse presto. Quando bussarono alla porta di casa con la règia intimidazione, la moglie rispose che Attilio era andato a lavorare dai suoi parenti a Santa Lucia e che lo potevano trovare lì. 

Due ore dopo l’Attilio era già ben incamminato verso la casa di quei parenti.

E quando dopo una decina di giorni il Re lo andò a cercare al nuovo domicilio, gli risposero che Attilio era stato lì fino al giorno prima ma che ora potevano trovarlo a casa sua, in Val di Zoldo. Quattro volte il messaggio bussò alla porta, ora dei De Pellegrin di Zoldo, ora dei De Pellegrin di Colle di Santa Lucia, finché il Re si stufò e mandò a dire all’Attilio che si presentasse lui, a Belluno entro tre giorni, o sarebbe stato considerato disertore.

 Il personale piano di resistenza del “ragazzo del 99” prevedeva che, qualora gli inviti alle armi fossero diventati minacce, la sua seconda guerra l’Attilio l’avrebbe fatta da solo, a vivere nei boschi e nei pascoli alti. Prima che scadesse l’ultimatum era già partito, con uno zaino e due bisacce sulla schiena e l’accordo con un cugino adolescente e sveglio di trovarsi ogni due domeniche nel tal posto sopra al paese per i rifornimenti di viveri e di notizie. Venne così a sapere che dopo qualche strepito iniziale i pennacchi non si erano più fatti vedere e che ormai solamente il farmacista, fedele al fascio e apprezzato delatore, di tanto in tanto cacciava qualche improperio contro il disertore; che si diceva che la guerra procedesse male, al contrario di quel che sostenevano i giornali; che al Neto era nato un altro bambino nove mesi dopo che era partito e che con quella scusa si era evitato la Russia; che invece il Severino era dovuto andare e che aveva pianto tutto il congedo e diceva che lui non sarebbe tornato, che lo ammazzavano i Russi, e aveva baciato mille volte la sua Maddalena anche mentre andava via.

A sentire del Severino l’Attilio pianse anche lui, ed era la prima volta da quando aveva lasciato il paese. Ma il Severino era il suo migliore amico: glielo avevano affidato che era poco più di un bambinetto perché imparasse a districarsi con gli attrezzi del falegname e lui lo aveva tirato su con l’affetto che avrebbe riservato a un fratello minore, se lo avesse avuto. Poi anche il Severino si era fatto uomo, erano divenuti amici e sodali di caccia e quando il Severino aveva deciso di prendere moglie, l’Attilio era divenuto il suo compare d’anello. E, come da tradizione, sarebbe stato anche il “santolo” del primo figlio, se quella porca di una guerra…

La seconda volta che Attilio pianse – e questa da solo – fu la notte di Natale del ’42, quando nascosto tra i primi alberi del bosco, ben acquattato in una buca di neve, vide le donne e i vecchi che uscivano dalla messa, sparuti, macilenti, incerti nel cammino. Aveva gettato via con rabbia – che lo mangiassero i cervi! – il pane dolce che gli avevano fatto avere da casa e aveva bagnato la lunga barba di lacrime presto ghiacciate.

 Con l’anno nuovo arrivò la notizia che la campagna di Russia andava male. Poi, nonostante l’avvedutezza di chi elargiva un boccone amaro alla volta, si venne a sapere che andava molto male e poi che era stata ordinata la ritirata. In primavera si aspettavano i superstiti, che però tardarono ancora qualche tempo. E furono pochi. Troppo pochi. Al contrappello domestico solo rare voci risposero.

E del Severino nessuna notizia, né buona né cattiva: ma già l’assenza di buone notizie era di per se stessa una notizia cattiva. Ogni quindici giorni, prima di ogni altra cosa, l’Attilio chiedeva dell’amico disperso, talché la staffetta aveva preso la consuetudine di informarlo già da lontano, mentre lo raggiungeva, ruotando avanti e  indietro l’indice e il pollice aperti a elle, che voleva dire “non se ne sa ancora nulla”. L’Attilio allora propose che, se mai il Severino fosse ritornato a casa, anche con i piedi in avanti, mettessero per cortesia un drappo colorato alla finestra della sua camera: lui ogni giorno o quasi avrebbe cercato di raggiungere un punto propizio alla visuale e poi avrebbe fatto “quello che poteva” per salutare l’amico.

La mattina dell’otto settembre del 1943 la notizia raggiunse subito l’Attilio, ma non era quella che di lì a poco avrebbe cambiato la vita di tutti gli italiani e in particolare dei soldati al fronte: quella che il fedele cuginetto riportò fu invece un'informazione forse per lui ancor più preziosa, trasmessa di bocca in bocca ma da bocche certe e affidabili: che il Severino era vivo, che era tornato da solo dalla Russia ed ora stava dalle parti di Cortina, verso San Candido, rintanato e accudito da una famiglia del luogo; e che non poteva più camminare, che le gambe lo avevano portato fin lì e poi gli si erano bloccate e un dottore non si poteva chiamare perché quello del posto era un simpatizzante del fascio e l’avrebbe denunciato; che però se fossero riuscito a portarlo a casa sua lo avrebbero guarito ma chi si fidava ad andare in giro con un uomo sul carro, in quei tempi?

 Il concitato racconto non era ancora terminato che l’Attilio aveva già preso la sua decisione:

“Ghe vade mi! Al porte a casa mi!”.

Era arrivata l’occasione per fare “quello che poteva”, come aveva promesso.

 Quella stessa notte, passata una manciata di minuti dopo i dodici tocchi del campanile, quattro sommessi colpetti al legno della porta avvertirono che Attilio era tornato, sfidando la giustizia militare e il turbine di interrogativi che stava avviluppando il paese, la valle e l’Italia.

Un abbraccio intenso e frettoloso, un sorso di caffè di cicoria e poche parole scambiate sommessamente per non svegliare i ragazzi furono tutto il viatico che Attilio raccolse prima di mettersi in spalla uno smunto zaino con un poco di polenta, una mezza formaggella dura e una bottiglia di grappa barattata nel pomeriggio con tutto il burro che era rimasto in casa. Ma prima, il cambio delle scarpe, dal momento che quelle vecchie ormai, tra ribattiture e ricuciture rabberciate, non avrebbero retto nemmeno metà del cammino preventivato.

Ancora un bacio frettoloso, una sbirciata dalla finestra per controllare che la strada fosse libera e Attilio scomparve nella notte come un fantasma.

 E come un fantasma continuò a essere invisibile anche nei tre giorni successivi, camminati puntando verso Cortina come una bestia dei monti: di notte nei sentieri vicino ai paesi e nelle stradine tra le frazioni, di giorno salendo in alto, per non essere visto e annusato dagli umani. Riposò solo tre volte e per poche ore, quelle più calde che altrimenti avrebbero rallentato il passo e accresciuto la sete. E mentre camminava pensava a come riportare il Severino, come legarselo sulla schiena in modo che non cadesse (per questo aveva appeso allo zaino due lunghe funi da fieno) e come segnare la strada per il ritorno: doveva essere una strada certa, sicura, percorribile quasi esclusivamente al buio, perché non era prudente farsi scorgere nemmeno da lontano con un uomo in spalla, in giro per le valli, in quei tempi.

Arrivò nel colle sopra al borgo che gli avevano indicato che il sole era già alto nel mattino. Se ne stette nascosto fino al tramonto, che fu un tramonto di cielo rosso e viola, solcato da lunghe nubi sottili e nerastre. Gli avevano detto di rivolgersi al cappellano, un sant’uomo che aiutava tutti quelli che avevano bisogno e a cui dava quel niente che aveva, senza chiedere se fossero poco, tanto o per nulla (o fin troppo) peccatori ed era l’unico che poteva indicargli il nascondiglio di Severino. Accolse Attilio come se fosse un mandato dal Signore: gli scaldò una minestra, gli fornì da ripulirsi e aggiustarsi la barba e gli regalò una camicia “quasi nuova” che provò a dare a intendere non gli servisse più. Lo informò sullo stato di salute di Severino, lo rassicurò sulle buone intenzioni degli ospiti e quindi gli indicò la casa dove avrebbe trovato l’amico; ma prima che uscisse dalla canonica, lo fece inginocchiare, recitarono un paternoster e lo benedisse.

 Ci furono poche parole in quella casa dai muri spessi e i vetri piccoli: giusto il tempo per consentire un breve riassunto dell’arrivo avventuroso di Severino e per lasciare asciugare le lacrime degli amici ritrovati e di quelli che si separavano. Ma bisognava far presto, sfruttare quel che restava dell’oscurità e portarsi lontano dai posti abitati. Severino venne aiutato a issarsi sulla schiena di Attilio e legato ben bene con le due funi da fieno; gli misero in spalla lo zaino, rimpinguato di mezza polenta fredda e tanti auguri per il viaggio.

 Partirono in silenzio.

 Nell’alba ancora scura intravidero Cortina, trovarono un alveo di prato accogliente nel fianco del Cristallo e si fermarono. Con cautela lavorarono a rimuovere solo l’ultima parte dell’imbragatura e finalmente riposarono.

Passò quasi mezz’ora prima che entrambi trovassero il coraggio di aprire bocca. Quindi Attilio buttò lì un asciutto “Alora, come ela andada?” e Severino iniziò il racconto. E fu la narrazione di una storia lunga e dettagliata, che l’amico osò interrompere una sola volta per passare un sorso di grappa all’alpino che si era commosso (“ingropà”) ricordando la morte di un compagno, ucciso dal freddo, scosso da un ultimo tremore e da qualche secondo di lucidità proprio mentre il Severino lo abbracciava per cercare di riscaldarlo. Poi, come se osservasse il paesaggio lungo un magico fiume che nella sua mente scorre ininterrotto dalla steppa alle Dolomiti, Severino comincia a passare in rassegna episodi, nomi di villaggi, di donne, di alpini morti e di alpini vivi; e poi nomi tedeschi, dal suono astruso, incomprensibile ma che volevano quasi sempre dire “pane”, “cibo”, “acqua”. E poi.. e poi…

E poi, arrivato vicino a una casetta dopo San Candido, un muro nero nero, un dolore più atroce di tutti gli altri dolori e più nulla.

Poi il risveglio in un letto, un vero letto, con il materasso e le coperte e Severino che non riesce più a camminare ma non riesce nemmeno a dormire su quella cosa morbida dopo tutto il tempo passato a dormire per terra; e che chiede di essere aiutato a mettersi sul pavimento, dove finalmente s’abbandona al sonno per due giorni di fila.

 Giunto  alla fine della sua storia Severino si addormentò per davvero, sulla terra, nel bosco, con la testa adagiata in grembo all’Attilio, che invece non chiuse occhio e non si mosse per tutto il resto del giorno.

 Appena il sole cominciò a calare dietro le cime, la strana coppia dei due uomini legati uno sulla schiena dell’altro riprese il cammino. Proseguirono così per giorni e giorni, anzi per notti e notti, perché di giorno si fermavano in un angolo sicuro e come in un rituale mangiavano un boccone, parlavano un po’ e poi Severino si addormentava e Attilio vegliava. Non dormì mai l’Attilio, fino a che non giunse a vedere la valle di Zoldo e dall’alto poté nominare uno a uno  i paesi che riconosceva: Mareson, Coi, Brusadaz, Costa, Iral… Era come un patriarca che chiamava attorno a sé i famigliari per sincerarsi che fossero lì presenti. “E là, appena darè al bosch, l’é Villa, l’é la tua casa Severin!”.

Quel pomeriggio, sdraiato sui pascoli delle sue scorribande fanciullesche, Attilio finalmente dormì il suo giusto sonno. Ma al risveglio avvertì che qualcosa in lui era cambiato: era come se le forze che fino ad allora lo avevano sorretto nell’epica impresa, alla vista della terra promessa lo stessero abbandonando. Provò a richiamarle nelle membra, ma invano. Indebolito in ogni muscolo e in ogni giuntura, con la sola indomita volontà di andare avanti si caricò l’amico e ripartì, senza dire nulla a Severino di chi quel che gli stava capitando.

 Prima dell’alba i due disertori erano a Villa: il piccolo borgo, percorso da stradine che s’inseguono in volubili salite e discese, taceva e pareva sospeso nella nebbiolina che saliva leggera. Tutti sentirono i passi lenti e pesanti di Attilio e il suo ansimare greve e disperato. Tutti sentirono, tutti intuirono, ma nessuno volle vedere.

 Bussarono, entrarono.

L’Attilio depositò il suo carico su una sedia e si abbandonò su un’altra. Sorrise all’amico salvato, ebbe un palpito nel petto e morì.

  Così almeno sembrò anche alla Maddalena, che spaventata si precipitò a cercare l'aiuto di un vicino. Ma al ritorno trovò l’Attilio vivo e ansimante, ancora pallido in volto ma già in grado di versarsi in gola da solo il bicchiere di grappa che giaceva in fondo alla bottiglia.

E quando poi finalmente finì quella porca guerra che aveva coperto di croci i camposanti della valle, una mattina d'autunno il Severino, con le sue gambe, andò a dire all’Attilio di tenersi pronto che di lì a qualche mese gli sarebbe toccato fare da santolo a qualcuno che stava arrivando da un altro ben più misterioso viaggio.