Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XXII^ edizione - Treviso,8 Gennaio 2017 per un racconto sul tema: "La Montagna:le sue storie,le sue genti, i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi" |
Premio speciale "TROFEO CAV. UGO BETTIOL" |
Un posto riparato tra le montagne DAVIDE COLTRI CAPRINO VERONESE (VR)
Quando un suono si impigliava tra i denti e la lingua, il mento gli tremava finché un respiro profondo e ad occhi chiusi soffiava via gli ostacoli. “S-s-s sei proprio u-un curdo!”, disse infine Ahmed, spingendo i pensieri oltre le labbra. Avrebbe voluto dire molto di più, in quel momento e in generale. A volte, se la frase non voleva proprio uscire allo scoperto, la scriveva su un taccuino e te la mostrava. Ogni volta che lo faceva, chiedeva scusa. Ma io non avevo fretta, al tempo, e mi piaceva trascorrere i pomeriggi con lui. Appena potevamo andavamo a sederci sulla panca bassa nel cortile di una casa da tè nascosta in fondo ai vicoli del mercato, lontano dal brusìo dei verdurai. Uomini in shalwar e kufieh[1] sedevano davanti a bicchieri colmi di liquido color rame scuro. Gli unici suoni erano il loro parlottare pigro e il tintinnio dei cucchiaini di metallo. Gli avventori andavano e venivano senza fretta e solo raramente riconoscevo le parole con cui i curdi iracheni usano salutarsi. Un uomo vecchio e piccolo, da solo, seduto in un angolo vicino ad una pianta di rose gialle, volse gli occhi al cameriere adolescente e alzò il mento nella mia direzione. Osservai il suo occhio sinistro, ceruleo e spento, e il suo sorriso gentile. Subito il ragazzino posò due piattini sul tavolo di ferro battuto davanti noi e dopo qualche istante i nostri bicchieri di tè vuoti furono sostituiti. Mi voltai verso l’uomo e misi la mano destra sul cuore, per ringraziare. Lui fece altrettanto. Non eravamo più estranei. “Cosa fa di me un curdo?”, chiesi incuriosito, e mi preparai all’attesa. “T-ti piace l-la m-montagna”, rispose il mio amico. Rovesciai il palmo della mano destra verso l’alto e strinsi leggermente le labbra, come a dire: come si può non amare la montagna? Ma sapevo che Ahmed attendeva le mie parole, non dei gesti. “È vero. Dove sono nato e cresciuto c’è un monte a cui sono affezionato: è alto e nasconde un lago” “N-non t-ti dispiace?” chiese Ahmed. Capii cosa intendeva. “No, è una fortuna ci siano i monti a nascondere le cose, è il gioco della montagna” “G-gioco?”, chiese Ahmed. “Sì. La montagna ci regala l’illusione che i nostri occhi, se non trovassero alcun ostacolo, potrebbero abbracciare tutto: distese senza fine, paesaggi umani e disabitati, lo spazio e le stelle e i pianeti.” “Solo Dio vede tutto”, intervenne Ahmed. Sempre, quando parlava di dio, il flusso delle parole era deciso e ininterrotto. “Ma”, continuai, “nello stesso momento in cui alimenta il nostro bisogno di sentirci illimitati, la montagna ci invita a raggiungere la vetta per osservare quell’infinità di cose che ci tiene nascoste quando siamo a valle. Il richiamo si fa più pressante mano a mano che ci avviciniamo alla sommità. Dall’alto, vediamo finalmente il tesoro nascosto dalla montagna e pensiamo alla nostra onnipotenza. Ma è l’illusione di un istante: già ci rendiamo conto che il paesaggio si interrompe, che l’orizzonte si ferma in un punto arbitrario, oltre il quale non distinguiamo più niente. Allora sappiamo che c’è dell’altro, infinite cose che non vedremo mai.” “Solo Dio vede tutto”, ripeté Ahmed “e l-le m-montagne c-ci proteggono”. “Da noi stessi”, conclusi io. Mi toccai il ginocchio sinistro e feci una piccola smorfia. Il mio amico mi lanciò un cenno d’intesa. Voleva dire: “Se senti un po’ di dolore significa che hai ancora le gambe”. Ritornare dalla cima del monte Zawa con gli arti ancora attaccati al resto del corpo non è scontato. L’avevo scoperto qualche ora prima grazie a Salah, il fratello maggiore di Ahmed.
Avevamo lasciato il fuoristrada in uno spiazzo deserto. Il monte giaceva massiccio davanti noi. Come sempre in quelle mattine di fine maggio l’aria era calda sotto il cielo terso. Avevo alzato lo sguardo verso la cresta e calcolato che la salita avrebbe richiesto circa due ore. Dietro di noi, rumori lontani segnalavano il risveglio della città: era sabato, il secondo giorno del fine settimana. Voltandomi, avrei potuto ritrovare in un angolo della valle il tetto dell’edificio rosso in cui lavoravo e vivevo, con le taniche d’acqua, le parabole e le sedie di plastica. Lì sopra, una sera, mentre tutti osservavano il tramonto, Ahmed mi aveva sorpreso a guardare verso sud. Aveva colto qualcosa nel mio sguardo. “Q-quello è-è il m-monte Zawa. C-ci vuoi salire?”, aveva chiesto. Ora Ahmed camminava davanti a me, Salah davanti a lui. Il pendio ripido che stavamo risalendo era costellato di arbusti secchi e appuntiti. Per evitarli, a volte puntavamo dritti verso la cima, approfittando delle poche sassaie che incontravamo sul percorso. Ogni tanto trovavo una lattina arrugginita o una tana di serpente. Il sole avanzava e ormai potevamo vederne la sagoma intera sopra le alture alla nostra destra. Il caldo si faceva sempre più intenso. Ahmed e Salah mi avevano distanziato e li vedevo camminare decisi verso una zona leggermente verde, all’ombra di un costone di roccia sporgente. Superate le carcasse rinsecchite di due grossi cespugli, avevo raggiunto la zona all’ombra. I due fratelli stavano seduti sui propri talloni e indicavano la parete di roccia sotto al costone. “Questa è la grotta di Halamata”, aveva detto Salah, anticipando la mia domanda. Davanti a noi si stagliavano figure scavate nella roccia, alte più di due metri. Ognuna era ritratta di profilo e aveva un copricapo in testa: era chiaro che la scena raffigurasse una processione. “L-le hanno fatte gli A-Assiri”, aveva aggiunto Ahmed, “q-quasi t-tremila anni fa” “Nelle grotte lì dietro” aveva aggiunto Salah “si nascondevano i Peshmerga, i partigiani curdi”. A meno di un metro dai piedi di una figura seduta su un trono si scorgeva un’apertura nella roccia. La camera interna era illuminata da un raggio di sole proveniente da una fessura che doveva arrivare fin sopra il costone, almeno tre metri più in alto. “Noi abitanti di Dohuk”, aveva continuato Salah, “non possiamo permetterci di salire sulle nostre montagne a cuor leggero, perché qui ci sono ancora i segni lasciati dal regime. Nei lunghi anni della guerriglia, i Peshmerga si nascondevano nelle grotte – come questa - e nelle foreste, mentre tutt’intorno gli artificieri del dittatore piazzavano mine antiuomo e appiccavano incendi. Ogni famiglia di Dohuk ha i suoi martiri. Adesso che la guerriglia è finita e i partigiani sono diventati l’esercito ufficiale della regione, i monti sono rimasti brulli nonostante l’abbondanza di fiumi. Nella valle di Dohuk non si sentono gli uccelli cantare, come se il fantasma di un incendio tenesse lontani anche gli animali. Alcune zone sono state bonificate dalle mine nell’immediato dopoguerra, molte attendono ancora” “Qui invece siamo al sicuro?”, avevo chiesto con un mezzo sorriso. Salah aveva lanciato ad Ahmed un cenno d’intesa: “Da bambino facevo la staffetta per i Peshmerga e conosco i percorsi. So i punti precisi in cui i nostri soldati hanno perso una gamba o la vita. Per me è più difficile dimenticare che ricordare” Eravamo rimasti in silenzio a lungo, ad osservare le figure incise nella roccia e la grotta dei Peshmerga. Poi, come risvegliatisi dal torpore, i due fratelli erano ripartiti. Oltre la roccia, il sentiero di Salah proseguiva a zig-zag ed era quasi piacevole. Il caldo, ora, era mitigato da un vento forte e leggermente fresco. Lo sentivo investirmi sempre più violentemente e spazzare via le gocce di sudore dalla fronte. Superata una macchia di arbusti secchi, ci eravamo ritrovati in cima. A destra e a sinistra, fin dove l’occhio potesse vedere, si allungava una strada sterrata, sottile e ben definita, che seguiva i saliscendi della cresta. Lungo il percorso, in entrambe le direzioni, ad intervalli regolari, sorgevano delle guardiole in muratura basse e quadrate. Sul tetto di quella più vicina, a circa duecento metri alla nostra sinistra, era dipinta la bandiera del Kurdistan: verde, bianca e rossa con un sole giallo al centro. Mentre riprendevo fiato la porta della guardiola che dava sulla strada si era aperta e ne era uscito un soldato in tuta mimetica. Teneva il basco rosso in mano e ci faceva cenno di avvicinarci. Temevo che fossimo entrati in una zona militare. ‘Cioni[2]?’ aveva chiesto Salah, avvicinandosi. Avevo intuito un ‘basim’[3] di risposta. Per cautela ero rimasto un po’ indietro, lasciando che i due fratelli mi precedessero nell’edificio. Oltre la soglia, il soldato ci aveva invitato a sederci e bere un tè con lui. La stanza era piccolissima e spoglia. La foto di Barzani, il presidente del Kurdistan, appesa a un chiodo sulla parete opposta all’entrata, un tavolino basso, un bollitore, cinque bicchieri sottili e assottigliati al centro, un pacco di zucchero, un tappeto, un telefono satellitare e due ricetrasmittenti: questo era tutto l’arredamento. Il soldato e i miei amici parlavano con lunghe interruzioni e ogni tanto coglievo i riferimenti alla nostra escursione. Indicandomi, Salah aveva pronunciato la parola “Italia” e il Peshmerga aveva detto “welcome”. Io avevo risposto “sopas”, grazie, facendolo sorridere. Terminato il tè, il soldato ci aveva invitato ad uscire dalla guardiola insieme a lui. Il sole batteva implacabile, il vento era ancora forte e fresco. Ci aveva condotto ad uno spiazzo, una sorta di terrazza naturale sotto la quale si distendeva un paesaggio immerso in una leggera foschia. Il Peshmerga aveva chiesto a Salah di tradurre per me. Indicava un punto all’orizzonte. “Da questa parte c’è la strada che porta verso sud. Quella è la diga di Mosul, e oltre la distesa d’acqua, nella valle, c’è la città. È a soli sessanta chilometri da qui. Mosul l’hanno presa i terroristi, Daesh o Isis. Con quelli non si parla. La settimana scorsa c’è stato un attacco dei Peshmerga contro una loro postazione. Non a Mosul, lì ancora non possiamo andare, dobbiamo aspettare che l’esercito iracheno sia pronto – quelli non saranno mai pronti. Insomma: abbiamo catturato dei terroristi. Quelli urlavano che eravamo degli infedeli, dicevano che alla prima occasione si sarebbero fatti saltare in aria. Gli abbiamo trovato addosso munizioni e droga, tanta droga. Ma soprattutto un passaporto finto. Per il paradiso” Il soldato aveva fatto una pausa, per controllare la mia reazione. “Sapete perché tanti si uniscono all’ISIS? Perché hanno dimenticato il limite. Peshmerga significa ‘quelli che stanno di fronte alla morte’, che la affrontano perché non abbia la meglio su di loro e sulla loro gente. I terroristi dell’ISIS invece vogliono la morte, sia per gli altri che per sé stessi. È per questo che hanno perso il limite e che il dio in cui credono, anche se lo chiamano con lo stesso nome con cui lo chiamo io, non esiste: solo Dio può decidere della morte, non ci sono scorciatoie, non ci sono passaporti per il paradiso, o per l’inferno. Ma più di tutto Dio vuole che viviamo, che affrontiamo la morte” Gli occhi del soldato, protetti dal basco rosso, puntavano ancora verso la distesa d’acqua. “Quando sarà l’ora di liberare la gente di Mosul dai terroristi, i Peshmerga ci saranno. Ora però devo chiedervi di tornare a valle: aspettiamo una visita ufficiale”. Dopo avergli stretto la mano, avevamo ripreso il nostro percorso al contrario, perdendoci un paio di volte e raggiungendo infine il fuoristrada nel primo pomeriggio. Avevamo accompagnato Salah a casa e da lì Ahmed ed io eravamo scesi, a piedi, verso il mercato. Mi massaggiai nuovamente il ginocchio e ripresi i pensieri da dove li avevo lasciati. “Dove non ci sono ostacoli l’unico confine è l’estremità del nostro vedere. Sappiamo che laggiù, oltre ciò che chiamiamo orizzonte, sorgono altri paesaggi, ma il nostro occhio non li può afferrare. Dalla cima delle montagne siamo riconciliati con il nostro limite e siamo in pace”. Ahmed sorseggiò il suo tè lentamente. Mi guardava e sorrideva. Inatteso, un raggio di sole filtrò da uno strappo nella tenda e si posò sulla spalla dell’uomo, quasi fosse un uccello. Il brandello si sole sparì all’improvviso, oscurato da una delle rare nuvole che attraversavano il cielo sopra a Dohuk in quel precoce inizio d’estate, poi ricomparve. Eravamo quasi al tramonto e la sala da tè si stava affollando. L’uomo si alzò. Ci passò davanti, il capo leggermente inclinato in avanti e la mano sul cuore, e uscì. Un gatto bianco e nero comparve nel piccolo strappo di cielo che separava il muro del cortile dalla tenda. Accucciò il corpo, allungò il collo e osservò lo spazio sotto di sé. Dopo aver incrociato il mio sguardo, balzò giù, atterrando delicatamente sulla panca lasciata libera dall’uomo. Si acciambellò, si stiracchiò sbadigliando e si addormentò. Gli altri avventori, uno dopo l’altro, alzarono gli sguardi verso la televisione appesa sopra al grande bollitore. All’improvviso ci fu silenzio. Nello schermo vidi un giornalista magro, seduto vicino a un fuoco. Davanti a lui sedevano cinque donne in uniforme. Una di loro parlava. Intorno a loro il buio della notte era totale. Ahmed prese il taccuino e la penna dalla tasca sinistra dei pantaloni e iniziò a scrivere. La ragazza in uniforme era bella e parlava lentamente. L’intervista durò forse un minuto, e quando fu finita gli uomini nella casa da tè ripresero a discutere. Ahmed scrisse ancora un po’, poi sollevò il taccuino dal tavolo e me lo porse. “Quelle ragazze fanno parte dell’Unità di Difesa delle Donne, una milizia curda siriana. Sono in prima linea contro l’Isis ormai da quattro anni. La soldatessa ha detto: non combatto solo per le donne curde, ma per liberare tutte le donne del mondo. Il giornalista le ha chiesto: non sei spaventata? Lei ha risposto: sono i terroristi a dover avere paura, perché sono solamente esseri umani, come me, con armi e la volontà di combattere. Ma quello che i terroristi non hanno è un’idea per cui valga la pena lottare. Loro lottano per morire, io lotto per vivere”. Guardai Ahmed: annuiva, con le labbra serrate. Per qualche istante rimasi in silenzio, rileggendo le parole sul taccuino. Poi chiesi: “Sai il nome di quella donna?” Ahmed prese il taccuino, scrisse velocemente e me lo passò. “Si chiama Zozan. In curdo significa ‘radura di montagna’”. Posai il taccuino sul tavolo, Ahmed lo raccolse e lo infilò in tasca. Il gatto respirava profondamente, lontano dal tintinnio dei cucchiaini, dal brusio della televisione, dal nuovo silenzio mio e di Ahmed. |