Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXI^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2016

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

Terzo classificato

STELLE DI MONTAGNA

di MARTINA PASTORI

RHO (MI)

«Se vieni quassù tra le rocce,
laddove mi hanno sepolto,
c’è uno spiazzo pieno di stelle alpine:
dal mio sangue è stato bagnato.

Come segno una piccola croce
è scolpita lì nella roccia:
fra quelle stelle nasce l’erbetta,
sotto di loro io dormo sereno

Cogli cogli una piccola stella:
a ricordo del nostro amore.
Dalle un bacio,
e poi nascondila in seno

Quando a casa tu sei sola
e di cuore preghi per me
il mio spirito ti aleggia intorno
io e la stella siamo con te.»

-          Stelutis Alpinis, di Arturo Cardini

La vecchia camminava piano. La terra cedeva sotto i suoi scarponi, molle come un mattino d’autunno. Il vento le scompigliava i pensieri, s’infilava tra le pieghe del suo viso stanco, scrostava la polvere dai ricordi. Riusciva solo a fare male.

            Un passo ancora. Soltanto uno.

            Continuava a ripeterselo, per darsi forza. Sentiva le giunture gridare, i polmoni bruciare, spalancarsi per inghiottire un’aria che non era mai abbastanza. Eppure non si fermò mai. Camminava e basta. Coi pugni chiusi, le unghie affondate nei palmi delle mani, lo sguardo perso tra le pennellate del cielo. Camminava e basta, e cercava di non pensare a niente.

Ma più si sforzava, meno ci riusciva.

 

*

 

Mia madre mi mise al mondo sul tavolo della cucina, tra terrecotte sbeccate e forme di parmigiano. Sono cresciuta nei boschi, stanando scoiattoli e raccogliendo castagne. La montagna era la mia casa, un piccolo cosmo perfetto: a volte finivo col dimenticarmi del mondo; i giorni erano tutti uguali a se stessi, e le nuvole tanto basse che, se mi alzavo in punta di piedi, mi sembrava di toccarle, di respirarle.

            M’insegnarono il gusto e il rispetto per le piccole cose: il gorgoglio dei ruscelli, una tazza di latte, i colori della nebbia, l’odore del caffè. Da piccola collezionavo foglie, e cantavo vecchi canti folcloristici fino a scorticarmi la gola; avevo un gatto bianco e due capre, e di tanto in tanto venivo spedita giù in paese a comprare qualche pulcino. Mi piacevano le notti di tempesta, tirarmi le coperte fin sopra i capelli e ascoltare il mugghiare del vento. Me ne andavo in giro con la testa zeppa di sogni, e le tasche pesanti di segreti: una mela rubata a una bancarella del mercato, l’uovo di un uccello, l’orologio da taschino di un escursionista inesperto, smarrito durante una gita per i sentieri. Ero felice, felice come solo una bambina, o uno stupido, sanno essere: di una felicità spensierata, ancorata al presente, cieca. La più piena che esista.

            Non ricordo quanti anni avessi la prima volta che lo vidi. Ricordo però che me ne stavo seduta sul ramo di un ippocastano, coi piedi ciondoloni nel vuoto e una copia di Martin Eden aperta sulle cosce, piluccando un tozzo di pane nero. Fu il rumore dei suoi passi ad avvertirmi che non ero più sola: ai piedi del mio albero c’era un ragazzino smilzo, colla faccia lentigginosa, e una spada di legno, di fattura molto approssimativa, stretta nel pugno. Mi osservava, forse più curioso che impudente, e io ricambiai lo sguardo con spavalderia.

            «Non puoi stare qui», assodai, come fosse la cosa più naturale del mondo. A quell’altezza, fare la temeraria mi riusciva più facile del consueto.

            Lui parve confuso. «E perché?»

            «Perché questo è il mio rifugio. Solo io posso.» Lo studiai per un istante, con aria di sufficienza. «E poi, scommetto che non saresti neanche capace di arrampicarti fin quassù.»

            Sorrise. Gli si stropicciavano tutte le guance, quando sorrideva. Infilò la spada nella cintura, si avvicinò al ramo più basso e ne saggiò la resistenza.

            «Che cosa fai?»

            «Mi arrampico.»

            «Non puoi farlo», lo ammonii, indispettita.

            Cominciò a salire, senza prestarmi ascolto. In un istante fu al mio fianco, il ritratto della soddisfazione, con appena un accenno di fiatone. Mi prudevano le mani, ma trovai comunque il modo di volgere le cose a mio vantaggio.

            «Io ti ho fatto salire fin qui, tu mi fai provare la tua spada», pattuii, sporgendomi per impugnarne l’elsa, ma lui fu più veloce e l’allontanò prima che potessi toccarla.

            «Quest’albero non è tuo», disse. «Gli alberi non sono di nessuno. E poi, le spade non sono cose da donne.»

            Aprii la bocca per controbattere, ma non trovai le parole. Quasi istantaneamente sentii le lacrime salirmi agli occhi; è un mio difetto: quando qualcuno mi contraddice, i lucciconi debordano. Lui se ne accorse, se ne accorse fin troppo presto; e io mi sentii ancor più impacciata.

            «Io…» Mi guardò per un istante, dilaniato dal senso di colpa, e mi mise la spada in mano. «Mio padre è falegname, ne fa dieci al giorno, di quelle. Puoi tenerla, se vuoi. Ma non piangere, non piangere più.»

            Chissà perché, quel lascito inaspettato non fece altro che umiliarmi. Non dico che non lo abbia accettato; semplicemente, scesi dall’albero in fretta e furia, dimenticandomi persino di Martin Eden, e me ne corsi a casa singhiozzando, con la spada di legno inconsapevolmente stretta nel pugno. Quando mia madre mi chiese dove avessi preso la spada, le risposi che l’avevo trovata tra le erbacce, vicino alla cresta della montagna. La riposi in una scatola sotto il letto e la custodii come un tesoro, quella spada rosa e tarlata, che non sarebbe stata buona nemmeno a tagliare il burro.

            Questo, se la memoria non m’inganna, fu il nostro primo incontro. L’inizio di tutto.

 

*

 

L’arrivo della vecchia nel borgo sulle pendici della montagna destò molto scalpore. Non che un viaggiatore dovesse stupire; ma nessuno mai si fermava mai laggiù, perché nessuno poteva avere qualcosa a vedere con quel posto dimenticato da Dio, perché nessuno poteva avere niente da cercare, laggiù, tra il nulla e il cielo. Era credenza universalmente condivisa da tutti i pochi abitanti che si dovesse essere raminghi ben istupiditi, per giungere in un luogo dal quale persino la vita fuggiva via.

            Già, la vita. Lassù ne giungeva soltanto un’eco smorzata, attutita dal rumore dei tramonti, dal silenzio della neve.

            Eppure, la vecchia tornò a casa.

 

*

 

Siamo anime incatenate a corpicini egoisti, destinate a camminare tutte sole per le vie infinite del mondo. A volte, però, s’incontra qualcuno come noi, per caso, ed ecco che, d’un tratto, per un po’ si smette di essere soli, e ci si illude che non lo saremo mai più. O almeno, questo è quel che è successo a me: mi sono persa in compagnia, e ho scoperto che, quando non si va in nessun posto, perdersi è la cosa migliore che possa capitarti.

            Dopo quel giorno, c’incontrammo di nuovo sotto l’ippocastano; e da lì non ci separammo più. Crescemmo insieme: insieme sussultammo sotto il boato del tuono, insieme esplorammo ogni pertugio della montagna, insieme costruimmo rifugi sugli alberi, insieme pescammo nel lago, insieme contammo le stelle. Giocavamo a nascondino nel bosco, rispondevamo l’uno alle domande dell’altra, collezionavamo aurore, ci scambiavamo i libri e la pelle. Un giorno, bighellonando in giro per sentieri inesplorati, scoprimmo una radura tappezzata di stelle alpine: era un piccolo paradiso in terra, un luogo mistico, quasi sacro; i raggi del sole, riverberati dal bianco dei fiori, erano abbacinanti, tanto da costringerci a socchiudere gli occhi; e noi ci sentivamo esploratori, pionieri, vincitori. Avevamo faticato parecchio per raggiungerlo, e ci fermammo lì per la notte, perché non sarebbe stato saggio rincasare col buio. Fu laggiù, tra le stelle alpine, che, senza quasi che ce ne accorgessimo, da amici imparammo ad amarci: e io lo amai, lo amai più di quanto credevo si potesse amare in una vita intera, con tanta e tale intensità da uccidermi un pezzo alla volta. A tal punto che credevo di non poter vivere, di non poter esistere, se lui non c’era. Ammettere di dipendere da qualcun altro oltre che da noi stessi, di essere in simbiosi con qualcun altro, di essere lui più di quanto si possa essere noi stessi è difficile. Ma lui… lui era il mio risveglio e la mia notte, il mio migliore amico e un amante, un fratello, un padre. Era tutta me stessa, e tutto ciò che io non sarei mai potuta essere, tutto ciò che avrei chiesto di avere, e anche di più.

            E poi… poi venne la guerra. Vennero la paura, la fame, l’odore agre del sangue. All’improvviso, la montagna non mi parve più così lontana dal resto del mondo come l’avevo immaginata: non era più un luogo sicuro, non era più il rifugio inviolabile che avevo sempre creduto che fosse. La guerra dilagò come un morbo; e tutto finì in fretta com’era cominciato.

 

*

 

Era una nebbia fastidiosa, di quelle che si appiccicano alla pelle, che rallentano il respiro e che si potrebbero fendere, squartare, dilaniare. S’infiltrava dappertutto, in ogni pertugio, in ogni fessura del terreno sconnesso, tra le foglie rinsecchite degli alberi, in mezzo ai vestiti. Non calava mai, nemmeno sotto le grinfie del sole che tutto prosciuga, corposa come latte cagliato, carezzevole come un abbaglio, rafferma quanto una speranza avvizzita.

            Era la stessa nebbia che ricordava. E ciò la confortò: forse non tutto era cambiato, forse qualcosa era rimasto uguale a se stesso, uguale a come lo ricordava.

            Per un istante, un istante soltanto, la vecchia credette di essere tornata indietro nel tempo.

 

*

 

Ricordo che quella notte, la notte in cui tutto cambiò, non riuscivo a dormire. Era una notte senza luna, le stelle erano poche e rade, la coperta del cielo nera, sguarnita, vuota. Prima ancora di fiutare l’odore anomalo dell’aria ne percepii la pesantezza sulla lingua: fumo. Fumo corposo e ferrigno, che mi impregnava i vestiti e i capelli, m’intorpidiva i polmoni, che mi premeva giù, verso il centro della terra. Il paese andava a fuoco.

Cercai di scappare, ma vedevo solo grigio: la foschia cancellava i contorni delle cose, gli alberi, le persone, le grida e persino la montagna si perdevano in quella massa sfocata. Tutto ciò che sapevo era che avrei dovuto trovare il modo di uscirne, o presto non sarei più stata in grado di respirare.

Allora mi concentrai sui rumori: sullo sfrigolare di foglie secche, di rami, di alberi. Sentii mia madre porgermi la sua mano sudata; non saprei dire quanto a lungo corremmo, con gli occhi che ci lacrimavano, e le gambe che ci si ammollavano sempre più. Vomitavamo fumo, e assistevamo, impotenti, allo spettacolo del fuoco, che divorava con ineguagliabile ingordigia chiunque si mettesse sul suo cammino, senza pietà, senza lasciare testimoni.

            Riuscimmo a metterci in salvo. I danni alla nostra casa non furono significativi, ma il paese venne raso al suolo, così come buona parte del bosco che lo circondava. I tedeschi, dissero; la guerra, pensai io.

            La nostra radura rimase intatta. La stagione fece sfiorire le stelle alpine, l’una dopo l’altra. Come promesse andate a male.

 

*

 

«Vado in guerra.»

            Me lo disse una notte di fine estate; eravamo nella nostra radura. Fu una pugnalata al cuore; ghiaccio, ghiaccio avvinghiato alla mia spina dorsale.

            Cominciai a piangere, ma non me ne accorsi subito. Avevo perso sensibilità nel volto.

            «Non puoi. Non puoi farmi questo.»

            I suoi occhi erano pozzi scuri, scuri e profondi.

            «Devo.»

            «Perché?»

            «Per conquistare la nostra libertà. Vale più di ogni altra cosa.»

            «Anche più dell’alba di domani?»

Non rispose, ma sapevo che se lo chiedeva anche lui, come me. E che, come me, non riusciva a rispondersi.

«Ho paura», sussurrai. «Ho maledettamente paura che tu muoia.»

«Ci sono cose peggiori della morte.»

Mi sentii un groppo in gola.

«Non andare.» Presi la sua mano, la strinsi tra le mie fin quasi a stritolarla. «Vedi? Guarda la montagna, guarda com’è calma, com’è bella. È tutto in pace, è tutto perfetto. Possiamo essere felici. Questa notte può essere una tra tante. Non merita di essere l’ultima.»

Ricordo ancora oggi il modo in cui mi guardò: come si guarda chi si sta abbandonando, chi si è già abbandonato. «Il nostro mondo non è la montagna. La montagna è la nostra casa, e il nostro mondo è in guerra. Io devo fare qualcosa.» Cadde il silenzio. Il silenzio della quiete prima della tempesta, interrrotto solo dal canto stridulo di un gufo, in lontananza. «Sopravvivrò», promise poi, e io fui talmente stupida da credergli.

«Come fai a dirlo?»

Lui si strinse nelle spalle. «Me la cavo sempre, in un modo o nell’altro.»

            «Giuramelo.»

            «Tornerò prima che le stelle alpine siano in fiore.»

 

*

 

Il giorno che se ne andò pioveva. L’acqua scioglieva i residui dell’ultima nevicata, e il cielo piangeva le sue lacrime nei miei occhi. Avrei dovuto fermarlo. Ma non seppi fare altro che lasciarmi cadere, lì, sotto la pioggia, tra gli alberi spogli, le foglie viscide. Restai lì per ore, coi pugni chiusi, e il cuore che mi batteva nei denti. Lo guardai andare via, senza fare niente. Lo guardai andare via, con la paura negli occhi e un sorriso forzato in volto, e seppi che non sarebbe tornato.

 

*

 

Era tutto come lo ricordava. Tutto come allora.

            La radura, le stelle alpine, l’erba tenera, il suono del vento, e del nulla.

La tomba era piccola, disadorna, bianca, vestita di erbacce. Anonima come quella vita ancor nuova che avrebbe custodito per sempre. Quando le fu davanti, la vecchia sentì le ossa cedere, sbriciolarsi sotto il suo peso; cadde, si sbucciò le ginocchia sulla terra umida. Fece buio presto, e lei rimase lì, inginocchiata di fronte a una pietra muta, circondata da gramigna ed echi di pianto, sovrastata dal cielo ricurvo. A un tratto cominciò a nevicare; i fiocchi color cenere s’incastravano dovunque trovassero un appiglio: tra i sassi della montagna, sul prato intirizzito, sulle vene della terra, sui tetti delle case, sulle pellicce degli animali, sui pensieri della gente, stesi fuori a infreddolirsi e a stropicciarsi. Nevicava fittamente, senza posa né pietà.

Alla vecchia sfuggì un sorriso. Non pativa il freddo, non sentiva più niente, in realtà: riusciva solo ad aver compassione di quel vecchio mondo impazzito, a pensare a quanto lunga fosse la vita, quella vita che tutti si sentono scorrere addosso almeno per un respiro, così tortuosa, così scontata, e che non basta mai, mai.

Parlò. Parlò finché non le face male la gola. Di sé, di quel figlio che aveva cresciuto da sola, di tutto e di niente.

            Poi si assopì lì, ai piedi di quella tomba, sferzata dalla neve inclemente, che non poteva capire. Il mattino seguente, quando gli abitanti del paese, allarmati, andarono a cercare la vecchia, di lei non c’era più nessuna traccia.

Restava soltanto un bocciolo di stella alpina, uno solo, chiuso, forse destinato a non aprirsi mai, bianco come la neve, come una ferita rimarginata, su una bianca tomba spoglia destinata all’eterno.