Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XX^ edizione -Treviso, 4 Gennaio 2015

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

Terzo classificato

UNA FOTO E UN FIGLIO

 di LUIGINO BRAVIN

 

Una foto e una domanda. Chi era quella donna con il fazzoletto nero annodato sotto il mento, rugosa solo come una vecchia può esserlo e con lo sguardo sfuggente? Diverse altre erano le fotografie di vecchi parenti (dopo quasi un secolo sarebbe stato più corretto chiamarli avi) che ingrandite e sterilizzate dalle macchie del tempo con il foto shop, abbellivano il muro del soggiorno. A detta di mio padre erano una riprova che una sequenza di persone, quelle messe in cornice, ci avevano preceduto, quindi non venivamo da una famiglia originata da un trovatello, ma da storie di vite vissute, individui che un giorno lontano erano stati carne ed ossa e così alteri da guardare dentro la macchina senza timore: sguardi fissi, con una vena di nobiltà come nei quadri dei nobili. La differenza stava nel fatto che le foto erano fatte in uno studio di fotografo di paese e la fissità degli sguardi era forse dovuta non del tutto a grandezza d'animo, ma a timore tenuto nascosto. Solo lei non guardava in macchina, né guardava qualcuno di fronte o un oggetto appeso da qualche parte nello studio del fotografo.

“Chi era quella donna?”

“Una parente”.

La risposta, sempre la solita per anni, mi aveva convinto a desistere. Guardavo quella foto, almeno due volte al giorno; il mattino quando uscivo per andare al lavoro, un'occhiata veloce quasi non volessi disturbarla e obbligarla a seguirmi con lo sguardo; la sera, quando rientravo, mi fermavo per cogliere una parola impossibile, una confessione, forse una confidenza “Sono ... “.

Malgrado questi turbamenti, o meglio fisime, che mi portavo appresso non ero mai stato capace di disfarmi di quella immagine.

“Cos'hai in comune con me? Cosa vuoi dirmi quando mi guardi?”

Alla morte di mio padre, oltre a quelle incorniciate, avevo ereditato una busta di foto ingiallite, che avevo lasciato stagionare ulteriormente in un cassetto di un comò riposto anni prima in cantina.

Fra le decine di foto di parenti a me sconosciuti, c'erano quelle di mio padre da militare e in guerra, altre di qualche zio che poi avevo conosciuto e accompagnato al cimitero da ormai diversi anni, una era particolarmente datata. Con un focolare come sfondo erano impressionate una ventina di persone: si trattava di donne e bambini e i soli uomini erano in divisa, una divisa riconoscibile come quella dei soldati dell'esercito Austro ­Ungarico. Il focolare lo riconobbi subito, era quello della casa dove ero nato oltre sessant'anni prima.

I bambini, con il cappello in testa come dei vecchi adulti, avevano l'aria curiosa e forse divertita.

La mezza dozzina di donne avevano lo sguardo perso, guardavano senza vedere il fotografo che stava loro di fronte che, con la testa nascosta sotto un telo scuro, immaginavo stesse gridando in un italiano con una dura inflessione austriaca” Fermi. Non muoversi!”.

Una delle donne era molto vecchia, forse centenaria, le altre potevano essere giovani spose, nessuna oltre i quarant'anni. Avevano lo sguardo triste e netta si poteva leggere l'umiliazione di quella esposizione obbligata. Solo una aveva gli occhi che guardavano in macchina e sottile era la sensazione che quell'occhiata covasse un atteggiamento di sfida. Al momento non la riconobbi; solo mettendomi in piena luce mi accorsi che era la stessa persona che mi guardava ogni giorno dalla foto in salotto. La stessa persona in momenti diversi: la prima altera e decisa, la seconda precocemente invecchiata con uno sguardo di sottomissione o forse di vergogna.

Cosa era stata la sua vita in quei, almeno così mi sembrava, trenta anni?

La data della prima immagine era certa: poteva essere solo il novembre del' 17, al più tardi l'estate del' 18. Certamente dopo Caporetto.

Della seconda potevo solo farmi un'idea dalla quantità di rughe e dallo sguardo sfuggente.

“Se smontassi il quadro forse troverei qualche indizio”, mi dissi. Non ci volle molto e fui pure fortunato. Il fotografo che aveva ingrandito l'immagine, o mio padre, che l'aveva fatta incorniciare, avevano messo sotto la carta, sul retro, la foto originale. Dietro la foto una data in matita: novembre 1922 e un nome: Olga. Il cognome invece era stato reso illeggibile ripassandolo in matita più e più volte.

Dunque, la mia ospite in soli quattro anni ne aveva accumulati, almeno trenta o più.

“Chi era? Cosa l'aveva fatta invecchiare così precocemente?” In città abitava ancora un vecchio cugino di mio padre: erano stati allevati nella stessa casa ed ora, ultranovantenne, era accudito da una badante lamentosa e brutta come la morte. Leggeva con l'aiuto di una spessa lente, come un filatelico. Portai con me le due foto.

Dovetti fare un lavoro di scavo nella sua memoria; portare alla luce, attraverso episodi che conoscevo, altre storie sulle quali poi si dilungava fino a perdere il filo che, lo sapevo già, poi non avrebbe più saputo riannodare. Gli posi davanti le due foto.

“Riesci a vederla? - chiesi dubbioso - so che non è facile”. “Certo”, rispose sollevando lo sguardo acquoso dalla lente. “Chi è questa donna?”

“È, mi pare, la madre di mio cugino”.

“Quale cugino?”

Pronunciò nitidamente il nome di mio padre, ma non lo collegò a me che ero li presente.

“Sai quando è morta?”

Riprese in mano la seconda foto, quella più recente e la guardò di nuovo.

“ È morta pochi anni dopo la fine della guerra di tristezza”.

Intanto sapevo che questa mia nonna che, immaginavo, avesse voluto abbandonare la vita, aveva lasciato solo mio padre ancora bambino.

“Perché non mi aveva mai parlato di lei?”.

Era, quando glielo chiedevo, quasi un fastidio ma non ne intuivo il motivo; ero troppo giovane.

Ora che avrebbe potuto rispondermi non c'era più e dovevo, da solo, cercare una risposta.

“Perché dici così?” - gli chiesi sapendo che la risposta, forse, non sarebbe arrivata.

“Dicevano che era stata con i tedeschi”.

Cosa voleva dire?

Le date, quelle dovevo cercare e mettere in fila; solo da quelle potevo trovare una soluzione alla frase: “Stata con i tedeschi”.

In quella foto davanti al focolare non c'erano uomini della famiglia, solo gli austriaci in divisa. Ricordai che nella vecchia casa del nonno c'erano in cornice un diploma e una medaglia che sembrava di rame ossidato: era l'onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto.

Mio nonno aveva fatto la Grande Guerra.

Un soprassalto all'improvviso, quelle folgorazioni alle quali mai avresti dato ascolto: mio padre era nato nel novembre del' 18. Diceva sempre che avrebbero dovuto chiamarlo Vittorio. “Sapeva? Non ne aveva mai parlato, questo era certo. lo avevo delle domande a cui bisognava rispondere, lui se le era poste?”

“Certamente” - mi rispondevo - era una persona perspicace, o forse aveva sempre rimosso domande e risposte.

lo ora dovevo rispondere anche se era passato un secolo ormai. Come preso dall'esigenza di dare solidarietà postuma a quella donna invecchiata così precocemente e della quale immaginavo il travaglio mi recai al cimitero di F ...

La sua tomba non c'era più.

In comune c'era un registro e, nel librone, un solerte impiegato trovò il nome e diede la sentenza. I suoi resti erano finiti in una fossa comune diversi anni prima. Nessuno li aveva reclamati, le due sorelle di mio padre erano scomparse prima di lui. Come una sconosciuta che non fosse stata all'origine di tre vite. Nulla di lei a questo mondo: solo due fotografie.

Mi resi conto che rimaneva solo una prova da cercare: un foglio matricolare vecchio di cento anni o qualcosa di simile.

Il distretto militare della provincia era stato spostato in una città più grande. Mi dissero che avrebbero compiuto loro le ricerche del caso. Mio nonno era stato catturato dai tedeschi i primi giorni dopo Caporetto e aveva trascorso l'ultimo anno di guerra prigioniero in un campo in Boemia.

Quindi...quindi?

Immaginazione, desiderio di ricostruire ambienti, luoghi, atmosfere? Tutto è ora dentro di me.

Ora posso inventare una spiegazione?

Certamente. Altre ne potrei elucubrare, ma alcune sono ancora più tristi e angoscianti.

Preferisco questa.

“Venite bambini, venite in casa, presto”.

Non c'erano falchi in cielo, i predatori arrivavano a cavallo e a piedi, stravolti dalla marcia, bagnati fino al midollo. Uscirono dalla nebbia novembrina come fantasmi. Le loro divise inzaccherate li rendevano quasi irriconoscibili.

A guardarli arrivare solo donne e bambini, l'unico uomo, un vecchio, era disteso su un letto da anni incapace di muoversi.

“Cercate di nascondere il volto, cercate di sembrare vecchie, non rivolgete loro una parola”, queste le raccomandazioni di quelle che vecchie lo erano davvero.

Niente si salvò di quello che era costato sacrifici immani a quelle spose che avevano mandato avanti la campagna, avuto cura delle bestie nella stalla, allevato con fatica schiere di animali da cortile, senza aiuto e consigli, perché gli uomini erano tutti al fronte.

Si installarono nelle camere quei barbari e tutta la famiglia dovette traslocare nella stalla rimasta senza bestie perché ancora prima di Natale erano state macellate tutte, eccetto una. Quando anche l'ultima vacca da latte stava per essere presa e uccisa, Giga si scoprì il volto e parlò.

“Abbiamo dei bambini piccoli, vi prego “.

Lo disse con lo sguardo che non ammetteva dinieghi, con tutta la dignità soffocata in un groviglio di lacrime seccate da troppo tempo dentro le palpebre. Risposero nella loro lingua che fu subito compresa da tutti.

 “Non è possibile, sono gli ordini”.

Erano tutti soldati di truppa, forse solo un sottufficiale a comandarli. Uno solo degli uomini non assentì e lo fece capire con lo sguardo alla donna implorante e, con poche parole, agli altri. Si allontanarono e in cortile ci fu una discussione accesa di cui nulla si capiva ma tanto si poteva intuire. La vacca rimase nella stalla. Quel Natale imbevuto di angoscia per gli uomini che non si sapeva se morti nella ritirata, prigionieri, oppure al di là del Piave, povero come mai era stato anche in quella famiglia abituata da decenni ad una sobrietà assoluta, arrivò di soppiatto, senza suono di campane perché erano state sottratte e fuse per fare cannoni.

“È Natale bambini, preghiamo”. La preghiera come viatico per il sonno e come succedaneo alla colazione.

Altro non c'era sulle tavole, solo quel poco racimolato dalla generosità di qualcuno che la guerra la viveva un poco meglio. Poi solo orzo, poco, e qualche sacchetto di farina da polenta.

l bambini stavano facendo la metamorfosi, la loro pelle diventava lucida e sottile fino a screpolarsi e il loro pallore si confondeva con le lenzuola sempre più frequentate perché ormai faticavano ad alzarsi dal letto.

La speranza lentamente abbandonava le loro madri.

La ricerca del cibo era diventata, nei mesi più freddi dell'inverno, preponderante per quelle madri con figli piccoli da sfamare. A febbraio nella dispensa mancava tutto e anche la vacca superstite dava poco latte. Quel militare austriaco che si era prodigato per lasciarla a quella famiglia di disperati, si faceva vedere poco, aveva comunque sempre un moto di gentilezza quando incontrava Olga nei dintorni della casa. Quello che non mancava era la legna per fare fuoco, ma il fuoco aveva bisogno di stufe e le uniche erano in casa mentre loro vivevano nella stalla.

Non si sa se la pietà si intrufolò nei loro cuori, oppure fu quell’uomo con lo sguardo gentile a smuoverla ma, a quel gruppo di donne e bambini con la tosse che squassava i loro petti senza ritegno, fu concesso di ritornare nelle loro camere. I militari sistemarono le loro brande nella grande cucina. Venne la fine di febbraio e la promiscuità fra militari e donne cominciò a spargere quella semente che non doveva, non poteva attecchire.

Quel soldato, che con discrezione passava sottobanco qualche fetta di lardo, delle manciate di farina e del formaggio ammuffito, scambiava qualche parola con Olga: solo il buongiorno o la buona sera e, alle volte, teneva in braccio i bambini più piccoli attorno al focolare.

Dagli altri non giungeva nessun segnale di umanità, anzi. La loro protervia, la rabbia per la vita che conducevano, l'odio per quella gente con cui convivevano, li portavano sempre più spesso ad avere un atteggiamento di padronanza e di sopraffazione per le donne più giovani.

La fotografia in mio possesso doveva datare proprio a quella fine d'inverno del'18.

Tutto si svolse nel mese di marzo, un marzo anomalo con la primavera che stentava a manifestarsi, quasi si conformasse alla tristezza che opprimeva l'animo di quelle donne ormai incapaci di trovare cibo per i propri figli.

Dopo giorni e giorni di farina che scarseggiava, lo sguardo implorante di OIga per quell’unico soldato umano fu raccolto, e la farina arrivò assieme a dei pezzi di pancetta e dello zucchero. In una di quelle sere che vedevano quegli incontri furtivi fra i due per il passaggio di mano del cibo, vuoi un momento di debolezza, oppure un grazie che non voleva parole ma riconoscenza, si consumò quello che mai OIga avrebbe voluto. Non si rifiutò ma non partecipò, lasciò che le braccia rimanessero come morte, estranee a quello che stava succedendo. Si ricompose, non pianse subito, si pentì solo il mese dopo quando si rese conto che il destino era segnato. Un'unica volta, solo una.

Dopo pochi giorni quei militari ospiti indesiderati per mesi furono mandati in prima linea.

Da quel giorno sarebbe iniziata la discesa di Olga verso un baratro di disperazione che avrebbe toccato il fondo al ritorno, nella primavera del’19, del marito dalla prigionia. Quell 'uomo, che aveva patito le pene dell'inferno, accolse quel maschietto con i capelli gialli e gli occhi azzurri come un segno nefasto della guerra. Fra Olga e il marito non ci furono più rapporti, solo un buongiorno e un buonasera, ma non sempre. Lei si asciugò e rinsecchì come una mela. La sua tristezza divenne così opprimente, che i colori scomparvero dalla sua vita e il suo sguardo non trovò pace. Si spense in un giorno di novembre del '22 poco tempo dopo che le fu fatta quella foto che forse lei non voleva fare, e che ora stava appesa incorniciata alla parete di casa mia.

Quattro anni era durata la sua salita al Calvario e quattro anni aveva ormai quel bambino frutto di un grazie dovuto, ma mai richiesto.

Quel figlio non fu mai amato, venne sopportato per molto tempo, come una escrescenza, poi dopo il '22, quando rimase orfano, quel padre putativo cominciò ad accudirlo solo perché una forma di carità cristiana prese possesso della sua mente.