Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XX^ edizione - Treviso, 4 Gennaio 2015

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

LETTERA

di  Rita Mazzon

 

Mama cara go fredo…Son straco…. Te lo dico in dialetto per sentirti più vicina. La prima parola che ho pronunciato è stata mamma ed è solo quella che mi sta scaldando un poco. Dentro di me si risveglia ogni tanto la tua voce, che mi dice di aver coraggio, di non lasciarmi andare. Ti vedo ancora sulla porta della nostra casa che mi saluti, poco convinta. Ti eri inventata una bugia. Quel ragazzo che si allontanava con la divisa di alpino non ero io, era un estraneo, un altro uomo che non avevi mai visto.

Quante volte mamma hai dormito nel mio letto? Quante volte hai accarezzato il mio maglione per sentire ancora il mio odore?

Ora sono lontano. Siamo sempre in marcia. Non c’è però una strada sicura su cui appoggiare lo scarpone. Il nostro cammino rimane fermo dentro una tormenta di neve, che ci agghiaccia.

Qui non ci sono né terra verde, né cielo terso. Qui c’è solo il bianco gelido della neve.

La guerra ha gli occhi freddi, famelici. Non ci da tregua. Divora i miei compagni. E’ una ghiacciata sofferenza che intorpidisce il corpo, raggela la mente.

Vorrei fermarmi. Se mi arrestassi però prosciugherei da me il dolore.

Non sentirei più nulla. Si ha bisogno di ferite per farci comprendere il senso della vita.

Mamma, non temere, è solo uno sfogo momentaneo, poi mi passa.

E’ come quando quel giorno in cui correndo sono caduto e mi sono ferito la gamba. Non mi capacitavo come mai fossi a terra. Non riuscivo a capire il momento in cui ero caduto. Mi guardavo attorno smarrito e non chiedevo aiuto.

Sei stata tu a prendere il mio braccio. A gridarmi: “Alzati! E’ solo un graffio, non ti sei fatto nulla. Alzati!”.

Io l’ho visto il tuo viso che tratteneva tra le pieghe della pelle la preoccupazione, ma il tuo braccio è stato per me un sostegno.

Mi alzo, mamma. Non aver paura. Sono forte!

Vorrei scrivere tutto di noi per non lasciare nulla di interrotto. Se non ce la dovessi fare, non voglio pensarti mentre chiedi risposte che non ho potuto darti.

Sono qui, mamma. Non ho più segreti.

Le più nascoste idee emergono piano da tutta questa neve bianca, che non mi fa pensare al presente. Il bianco è vuoto. Acceca nella sua assoluta luce. Non si delineano più i contorni. Ed io ho bisogno delle mie ombre per sentirmi vivo.

La nostra montagna mi aspetta, vero mamma? Non è cambiata. E’ rimasta alta, impavida a fare da altare a tutte le tue preghiere. Qui non c’è culto, né Dio. Si è stemperato in tutto questo bianco il suo aspetto. Forse è questa la morte. Progredire piano verso una luce diafana che soffoca tutti i sogni.

Non si può tornare indietro. Vedo i miei compagni inginocchiarsi. Grattano la neve. I graffi scorticano le dita e se stessi. Gocce di sangue si solidificano in rosee consistenze, da cui la vita defluisce.

Qui non ci si può fermare, né tanto meno inginocchiarsi a pregare.

Andare, sempre andare. Il gelo è tremendo. Trapassa le ossa. Il gelo penetra dentro fino a farti diventare tante statue di ghiaccio.

La terra non perdona il passo. E’ stata violata da una guerra atroce. E’ stata contaminata dai nostri corpi che a brandelli giacciono sul suolo. L’uomo voleva annientarla, ma l’ha solo scalfita ed ora lei si vendica.

E’ una maga potente che ci bersaglia, punzecchia la pelle. Ci inghiotte. Io ci cammino contro, mamma ed ho la tua voce dentro la testa, come unica salvezza.

Dimmi, come stai? Non te l’ho ancora chiesto. In questo silenzio il protagonismo del mio corpo arranca, si prende tutti gli spazi. Non riesco a focalizzare gli altri.

Seguo il compagno che sta prima di me. Che dopo non è più il primo di me, perché soccombe. Ed allora mi aggrappo alla schiena di colui che sta prima del prima.

Non so in quale momento il tempo si sia fermato. Forse quando ho bevuto un sorso di liquido caldo. Ma ora non c’è un orologio sicuro su cui appendere le ore del mio destino. Odio il bianco. Non c’è appiglio. Non c’è chiodo.

Sulla parete della montagna potevo arrampicarmi.

Costava fatica, ma arrivavo alla cima. Ora mi trovo su di un’orizzontale pianura senza voli ascensionali. Ed io non la voglio la terra. Ho troppa voglia di cielo.

Il mio scarpone è pesante. La mia giubba, il cappotto sono fatti di roccia. Sono anch’io un macigno che rotola piano nella valanga assurda che mi insegue e mi soffoca.

Sento il profumo della tua zuppa calda. Ogni cucchiaiata è per me una medicina, che mi fa conquistare per un attimo un sorriso. “Bevi! – mi dicevi -Questa è la pozione magica che ti renderà felice e che ti darà l’eternità.”

Sono qui a bere gocce di gelo che non saziano la mia sete. A venti anni si può maledire il cielo?

Eppure tu mi hai insegnato che da ogni avversità può nascere qualcosa di buono.

“Prega. - mi dicevi – Tutto si sistema.”

Ma come faccio a sistemare tutto, mamma? Ho compiuto un atto orrendo.

Me ne sono pentito subito. Appena l’ho visto cadere.

Era nascosto nella boscaglia. Ho sentito un fruscio che non era vento.

Quante volte ho scoperto la tana delle marmotte lassù in montagna!

Questa volta c’era lui nascosto. O io, o lui.

Ho preso la mira ed ho sparato senza pensare. Senza dare alla mia ragione la possibilità di imporsi.

Il mio dito, il mio corpo erano già scattati. Il sentimento si è opposto piano ai miei occhi, che erano già schizzati.

Che ho fatto, mamma?

Mi dicevi: “Ama il prossimo tuo come te stesso.”

Che ho fatto?

Mi sono avvicinato. La giubba scura era distesa sui rovi. Il viso bianco era una lastra. Lui ha alzato un braccio.

Ed io ho toccato quel braccio. Gli ho gridato: Alzati!

La sua bocca si è arcuata in una specie di sorriso, ma dalla fronte un petalo di papavero rosso ha cominciato a fiorire lentamente.

Il manto del grano era trapuntato da papaveri, che spruzzavano il loro colore rosso acceso. Ti ricordi, mamma?

Mio padre mi aveva detto. “I papaveri assorbono l’acqua ed il cibo destinato al grano. Sono malvagi. Le spighe hanno bisogno di essere le sole padrone dei loro spazi. Non devono essere contagiate da quei fiori.”

Io l’ho guardato pensieroso e non ho parlato.

Il giorno dopo mi hai cercato in ogni parte della casa. Mi hai trovato nel campo di grano, con il vestito sporcato dai papaveri. Perfino il viso era tinto di rosso. Avevo estirpato mazzi di fiori. Macerati i petali per la rabbia e la furia di strapparli tutti. Pestati dai miei piedi come nemici in carne ed ossa.

Quando vi ho visto arrivare, ho avuto un ghigno strano.

“Papà ne ho ammazzati tanti. Loro sono malvagi, ma io sono il più forte!”.

Tu ti sei messa a piangere. Era una scena orribile. Sembravo un piccolo uomo imbrattato di sangue.

Erano solo fiori. L’avevo fatto per dimostrare che volevo aiutarvi, ma in quella collera convulsa ho scoperto che c’era qualcosa di più di un gioco. Era la consapevolezza di aver annientato il male, perché credevo di essere nel giusto.

 

Ora no! Mamma, non capisco, dove stia più il male.

Il papavero si è allargato. Quell’uomo mi ha lasciato il braccio. Si è rannicchiato per chiudersi in un piccolo spazio rosso. Forse voleva occupare meno posto in terra, perché il destino non lo trovasse. Il papavero però continuava ad espandersi. Lo conglobava nella sua corolla. Ho scrollato quel corpo. Gli ho pulito il viso dall’unto di quel fiore malvagio. “Svegliati! Ecco, vedi? Uccido per te la morte!”.

I miei compagni mi hanno portato via di peso.

 

Adesso sono in marcia con dentro la mia angoscia. Col rimpianto di non aver donato vite e non esser stato capace di sconfiggere la morte.

Gli occhi sono fissi a un possibile che non ha orizzonte. E’ come se la meta del ritorno si trovasse in una bussola con cento aghi che indicano mille ritorni diversi.

Non ho scampo, mamma. Qui non c’è vetta da scalare. Sto nel centro della mia colpa. La superficie irradia lampi che si conficcano nelle tempie. Il respiro corto rimane congelato in un’ombra densa, collosa che invischia il mio passo. E l’immagine del ragazzo morto rivisto mille volte si moltiplica sulle lastre di ghiaccio, dove io mio specchio. Unico carnefice, in una moltitudine di morti.

Sono un assassino. Giudicami. E se vuoi puoi pure non perdonami.

Potevo ribellarmi. Potevo lasciarmi uccidere per non avere il rimorso.

Mi aggrappo alla mia storia, a quella che ci vedeva uniti, per distrarmi.

Io bambino in mezzo ai grandi, correvo nei prati per avvicinarmi alla mia montagna. Mi arrampicavo con salti veloci, non avevo paura di cadere. Ero in salita ed aspettavo alla curva un dislivello maggiore per mettermi alla prova. Sapevo i nascondigli più sicuri. Ero un fauno dei boschi. Ero una creatura che si mimetizzava tra i rami e le foglie. Ero la favola che tutti vorremo essere, quella il cui finale non delude mai. Infatti, ecco che all’ultimo tornante, compariva sempre lei, la mia più cara amica a consolarmi: la mia montagna.

Potrò morire, ma mi rassicura il fatto che lei rimane. Ho vissuto troppo poco per lasciare un lungo romanzo da raccontare. I miei affetti però sono punti fermi. Verso te, verso mio padre, verso la montagna.

Ti chiedo scusa se non sono stato un buon figliolo. Se ti ho fatto piangere e forse lo farò ancora. Cercherò di ritornare, ma la volontà è sconfitta dal mio corpo troppo esausto.

Sfoglio il desiderio di dare e ricevere parole. Non costa nulla il desiderio di credere che ci sarà un’altra alba. Il bianco che mi sta attorno è l’inutile, molto meglio sporcarlo con parole. Passi e parole che diano un contorno a me stesso. Un tratto descrittivo al mio essere uomo.

Il mio tempo ha avuto un singulto. Si è stracciato in più parti.

Mi sento solo un pezzo di me. Altre parti si sono divincolate. Si sono arenate su questa terra che non è terra. E’ sabbia mobile bianca che prosciuga. Mangia le mie parole ed io vorrei annerirmi per contrappormi alla sua ingordigia, ma non ho più inchiostro. La penna per quanto prema si sbiadisce, si annulla. Sono un punto nero in un universo vuoto. Sono un microbo scuro, chiuso in una vasca di ghiaccio.

La mente vaga, va ad onde. Farnetico. Mi smaterializzo. Divento anch’io neve.

Mamma, dove sei ora?

La luce della tua candela mi sfiora. Abbracciami! La fede è sempre stata la tua risorsa.

“Si trova nascosta. Cercala! – mi dicevi – Non può darti una risposta, ma quando ti troverai ad aver paura sarà lei a stare al tuo fianco. A sorpresa ti aiuterà, anche se non ci credi molto. Anche se l’indifferenza ti vorrà escludere dal suo tocco. Con la schiena diritta alza gli occhi al cielo. Il tuo peccato sarà concime per la terra, perché sarà la fede a far nascere la tua spiga di grano.”

In questo cammino, dove sta la mia fede? L’ho reclusa in una gabbia di acciaio senza finestre. Vorrebbe uscire, ma sono io che la tengo prigioniera. Antepongo la mia angoscia, il mio delirio al suo volo.

Sono in guerra, mamma e la guerra mostra la realtà diversa. Io eseguo gli ordini, ma questo non mi preserva dal non sentire la mia coscienza. Sono esente io dal professare la mia crudeltà? Una sete mi divora anche se qui non c’è arsura. Quando sono partito avevo il coraggio vivido nei miei occhi. L’ho cacciato dentro nella tasca che tanto mi pesava fino a strapparla.

Non sono valoroso. I miei amici sono morti tutti. E’ solo il caso che ha indirizzato il mio cammino. La guerra ha mostrato una parte di me che non avrei potuto conoscere. Sono un sopravissuto, mamma. Ho il rimorso di essere ancora vivo. Non voglio girarmi indietro per vedere un altro compagno che casca. Ho troppa paura. Stammi vicino, mamma.

 

Per tutti i ragazzi di tutte le guerre