Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XIX^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2014 per un racconto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
Sette soldati Di TORRESAN FEDERICO di San Vito di Leguzzano (VI) |
“Sette sedie furono riportate nella chiesa deserta. Sette sedie con lo schienale di paglia disfatto dai colpi del moschetto modello 91... “ Vennero i Reali Carabinieri, con due squadroni di cavalleria arrivarono. A circondare il paese. A perlustrare. A riportare l’ordine. Come un segugio che gira intorno alla tana della lepre. Alle prime ore dell’alba, quando i muri delle case già soffrivano l’aria greve del sole d’agosto, la cintola attorno all’abitato si era stretta. Pure fatto serrato il cerchio delle mitragliatrici amiche contro l’accampamento del nostro reggimento, sotto il campanile. Puntate come un morso pronto a chiudere il fiato in gola, verso soldati della stessa divisa: le uniformi dell’ottavo, il reggimento di marcia. Miseri e disgraziati resi abili al combattimento per scarsità di uomini, dopo essere stati al primo momento scartati. Oppure feriti e malati di ritorno dal periodo di convalescenza. Tutti pronti per farsi macellare sul fronte verso il quale erano smistati. La piazza del paese brontolava quel giorno e i carabinieri fermavano e interrogavano e spedivano dritti a casa. Non bruciava il camino del forno né l’aria aveva il profumo del pane e la fontana cantava senza il coro delle donne che lavano. Era meglio starsene rintanati, seppellirsi sotto i tetti e dentro le stalle. Si era sentito gridare nel buio e poi sparare, dalla parte dell’accampamento, sopra la chiesa. Solo con la luce, la calma era arrivata a chetare un poco il chiasso della notte. Da tempo mormoravano i soldati in attesa della loro sorte e giorno dopo giorno si erano fatti convinti: ...un altro inverno non lo passeremo in trincea! Ad appassire d’inedia nei gesti ripetitivi, a ubriacarsi per trovare il coraggio di farsi spaccare la testa dalla mazza austriaca, e chi è più uomo si spara un colpo in bocca prima di farsi mangiare dai pidocchi: ...se non ci manderanno a casa, ci verremo noi! Terrore di morire sotto la valanga, di congelarsi le dita e saltare in aria con i pezzi di bombarda che spappolano il cuore. Una patria ingrata chiedeva continuamente, a uomini avviliti di dimenticare una donna, una madre e un padre, figli e case che vivevano in una stanca attesa. Erano due anni che le montagne si svegliavano col mal di pancia ed esigevano corpi vivi per restituire solo morti. L’ordine è arrivato, si parte l’indomani, con lo luce dell’alba si parte per la prima linea... Gente ancora abituata a respirare l’aria invece che il fango delle trincee decise che si sarebbe partiti. L’indomani. Per un fronte assassino. A quell’ora, San Vito era un paesetto che andava a dormire, mentre veniva giù l’aria fresca del Pasubio. Attraversava Valli dei Signori e nello scendere perdeva per strada tutto il suo odore di sangue e ristorava i visi sfatti dei fanti stanchi. Una voce che partiva dalle cenge, rocciose e sofferenti e parlava di patria, onore, coraggio, eroiche imprese e arrivava fioca alle pendice dei monti. Troppo lieve per essere ascoltata. Troppo ripugnante per non essere confusa con altre parole, più morbide: campi da arare e donne da amare e mani da stringere e silenzi di pace per sempre. AI sentire quell’annuncio si scatenò la rabbia. La disperazione accompagnava i discorsi tra le tende. In breve si convinsero, guardandosi solidali. I più scalmanati, che avevano il coraggio del vino in corpo, urlarono contro la patria e la guerra, spezzarono i legni delle armi. Erano in tanti e si erano fatti coraggio. Coloro ai quali il tormento aveva per primi seccato il fiato in gola uscivano da dove stavano, prendendo in mano quel che gli capitava e se di un fucile si trattava, sparavano pure. Sparavano in aria, non per uccidere solo per far arrivare la loro voce là dove non voleva essere ascoltata. Son caduti colpi in strada stanotte, si raccontavano nel piazzale davanti al municipio. Caduti per gravità non per far male, e c’era chi si è buttato nei fossi con le mani a elmo sulla testa per proteggersi. Mentre quelli che uscivano dall’osteria si sono nascosti dietro i muriccioli degli orti o giù per i vicoli stretti e tra loro anche più d’uno di quel reggimento c’era. Questo diceva, sottovoce, la piazza malcontenta. In quaranta furono arrestati, immediatamente. Subito e senza perder tempo. Rigore e disciplina. Bisognava dar l’esempio. Le critiche e lo scoraggiamento delle energie patriottiche con la morte andavano punite. Arrivò prima il cappellano militare del Tribunale di guerra, per dare conforto a sette ritenuti insopportabilmente colpevoli. Sette canne di fucile trovate sporche perché avevano sparato erano bastate per giudicare, e poco interessava se per qualche soldato l’abitudine a pulire l’arma fosse scarsa, e niente contava se nella confusione buia a prendere lo schioppo di uno era stato un altro. Niente più importava quando a essere minacciata era la serenità della truppa. Furono portati nella corte di una casa colonica, impolverati gli scarponi dalla sabbia. Montati in buon numero fari di automobile a illuminare le facce e le maschere di quella tragedia. Passati in rassegna dal generale della Prima Armata, un piccoletto dalla divisa lustra giunto espressamente per prender atto del grave e miserabile fatto. Soldato Giovanni, gli occhi ti brillano ancora del sole di Girgenti, che ci fai davanti alle canne puntate dei moschetti italiani? Piantati dei pali, dalla chiesa qualcuno si preoccupò di portare le sedie da legarci contro. Caporale Di Martino non lo sa il Tribunale di guerra che a casa ti aspettano tre bambini e lo loro madre? Alza il braccio col distintivo d’onore, per lo ferita che ti sei guadagnato nel carnaio della trincea, tienilo così alto che lo patria, che te lo diede con ringraziamento, possa vederlo... La sagoma di un bambino, nascosto fra l’alto del granoturco, come un uccelletto che non canta, osserva da lontano. Conta i poveracci con le dita delle mani birichine, un dito per ciascuno, fino all’indice della seconda mano, proprio quello che stringe un grilletto assassino che spara. Rimane così, con una mano aperta e metà o quasi dell’altra, a sentire quelli, che gridano rabbiosamente come cani. Soldato Caruso, non t’appartiene il freddo delle Alpi che sei chiamato a difendere. Contadino Caruso hai le braccia forti per menare lo falce nei campi di grano e il fucile non è il tuo attrezzo e il soldato non è il tuo mestiere... Il colonnello legge rapido la sentenza, la voce fischia come la scheggia di granata e spara in aria terra e pietre. Cammina veloce, indispettito, davanti ai martiri. Soldatino Giuseppe, i tuoi diciott’anni tengono ancora il profumo del bambino e il buio ti fa paura stasera, prendi la benedizione del cappellano, fatti bagnare lo faccia con l’acqua che per le lacrime di tua madre non c’è più tempo... Alle dieci di sera di una calda giornata d’agosto il sole è già tramontato da un po’, andando a nascondersi proprio dietro il Pasubio, dove rimbombano temporali di cannone e dal quale scendono a pioggia rivoli di sangue e di lacrime. Il campanile è alto, che guarda. Da lassù il suono delle campane s’infila dritto nelle orecchie. Dieci rintocchi e tra uno e l’altro il tempo per sentire, pacifico il canto dei grilli. Per un poco. Poi basta. I rumori del plotone di esecuzione coprono anche quelli che vengono dai campi. Soldato Lomino grida la verità, che stanotte non eri nella tua tenda, ma di nascosto a far baldoria con i bersaglieri in licenza, all’osteria... La paura è un morso allo stomaco. Puntare mirare fuoco! Il primo dito di una mano bambina che si chiude.
Soldato Giovanni, e se il tuo fucile nella confusione buia l’avesse preso un altro per sparare senza pensarci? Poi non lo pulivi mai e pareva avesse appena sparato... Puntare mirare fuoco! Il sangue nei polmoni sente il colpo e si mette a uscire. Un altro dito che si chiude e poi un altro e un altro ancora. Puntare mirare fuoco! Tutti e sette.
Caporale Egidio, i legacci fanno male ai polsi e i grumi di sangue granato sporcano lo divisa sul petto, una fossa senza nome e senza memoria ti aspetta per una colpa che forse non hai... Slegati, i pali cavati mentre i buchi li avrebbe presto chiusi il vento, bianco di polvere della corte. Le sedie snodate. Qualcuna malmessa dai colpi, qualche altra quasi intatta perché la fucilata aveva sì trapassato la povera carne, ma il cuore l’aveva fermata, dentro. Andavano riportate in chiesa e qualcuno diligentemente se ne occupò. «Scavate una fossa operai del genio! - ordinarono - Che sia larga per sette cadaveri». Non serve profonda, bisogna fare presto. C’è fretta, di finire, di cancellare, di andare, di spostare i morti prima che la carne cominci a colare, di pulire il sangue amico che, quando sporca, poi non va più via. Saluta un carro che passa lento la mano veloce del bambino. Le ruote cigolano che sembra un pianto. Dalla carrettata pendono braccia e gambe senza vita. Occhi con dentro il giallo del grano maturo, pieni della terra e del caldo del Sud, l’odore di una stalla e le mani secche buone solo per raccogliere patate. Erano quelli che avevano tradito. Una fossa è già scavata, appena dentro il cimitero, sulla sinistra del cancello. Rivoltati dentro al buco senza cassa e coi vestiti, tutti assieme senza un nome. Un mucchio di terra nera ricopre e cancella dal tempo i ricordi. Sette case lontane aspetteranno sette soldati, senza licenza per tornare. Sette porte aspetteranno ad aprirsi, sette telegrammi arriveranno con la scrittura: “Morto per fatti d’armi”. Erano quelli che avevano pagato, e per l’ultima volta il vento graffiava loro la pelle. Il giorno appresso, all’alba, l’accampamento è un formicaio scoperchiato. Smontato. Gli ordini chiari. Gli uomini organizzati. Gli ufficiali a disposizione. Si partiva senza disordini. Le armi chiedevano di nuovo di dimenticare. Bisognava ubbidire. In poche ore la terra scorreva già, servile sotto il passo di marcia delle mantelline verdi in colonna verso il Carso. Ho aperto l’Albo d’Oro d’Italia dei caduti della Grande Guerra e lo scorrere lento degli occhi tra le righe non uno dei nomi ha trovato. Sono stato sul posto e tra le ortiche e la verbena ho cercato, ma non una lapide in memoria ho scorto, neppure nella vicina corte che si diverte oggi come allora a imbiancare di polvere le scarpe di chi la pesta con fretta. Niente, nessun ricordo per un errore. Eppure quella sera sette sedie sono tornate alla chiesa, disfatte dai colpi del moschetto modello 1891. |