Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIX^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2014

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Secondo classificato

                                                              L’ULTIMO  BORGO

                                  Di MARIA CRISTINA DI DIO di CALASCIBETTA (En)

 

C’è uno strano odore, attorno. Indefinibile. Angosciante.  E’ l’odore della paura.  Si sparge come un sudario.  Sa di cadaveri, escrementi, fogna. Copre i pochi alberi, la radura gialliccia, le pietre ruvide, lucide sotto l’aria che promette neve. Eppure siamo in piena campagna, in mezzo a una natura dimenticata e si distinguono in fondo, sfumati dalla bruma, i rilievi delle Dolomiti. Niente giustifica quest’afrore, se non il terrore che rotola in ogni piega della mente. Inventa. Costruisce. Demolisce. Dipinge. Scolora. Accompagna questi anni come un lugubre parassita ficcato nella carne. Un tutt’uno a ogni organo. Allo stesso respiro.

*

“Ho fame” dice Lea. Si ferma. Mi guarda in faccia. La tiro con forza. La scuoto, la strattono, ma a un certo punto, quel “ho fame” spezza la mia determinazione. Non che non l’avessi udito prima, quel lamento flebile, ma adesso il tono è diverso: stranamente vitale, cocciuto. Mi fermo un secondo e la guardo.  E’ trasparente. Non esiste già più. Mi ostino a trascinarmela dietro, questo pugno d’ossa e ancora una volta, me ne chiedo il perché. Difficilmente arriverà viva al borgo. La febbre la sta mangiando ora dopo ora.  I polmoni saranno ormai ragnatele e gli sputi di sangue sulle labbra livide, non lasciano speranze. Per questo mi ha sorpreso quel tono. Ormai non le appartiene più. Infatti, ha già ripreso l’aria abulica. “Coraggio”, dico senza convinzione, “qualche ora ancora e ci siamo”. Lea approfitta della mia immobilità, di quest’attimo di incertezza e si butta a terra. Uno straccio, un sacco vacante: “un attimo di tregua…” sussurra.

Mi chiedo dove trovi la forza e subito dopo, me la prendo con questa mia ostinazione. Io non la conosco neppure, questa ragazza che mi sono trovata tra i piedi per caso. Solo due giorni fa, era un’ombra fluttuante, nel respiro della notte. Una sagoma indistinta alla quale sono andata incontro senza ragione. Non so chi sia, da dove venga. Solo quel nome: Lea e il suo mutismo, gli sputi di sangue, le ossa che bucano il cappotto lercio. Solo questo suo orribile destino. Mugugno qualcosa, esasperata, perché abbiamo fatto una sosta solo un’ora fa e so di perdere tempo prezioso. Sono sempre stata essenziale, pragmatica. Perché non esserlo adesso? I tedeschi potrebbero spuntare dietro un cespuglio o svettare veloci, nelle loro camionette o nei loro sidecar. Ce li potremmo trovare davanti di botto e niente a difenderci. Una donna e una ragazzetta col marchio della guerra in faccia. La prima rozza, sfatta dalla fatica e l’altra esplicitamente tisica. Chissà, forse non sprecherebbero neanche del piombo. Forse basterebbe lasciarci qui. Perché adesso, neppure io sono sicura di farcela. Le gambe mi si piegano e la fame è un serpente che rotola impazzito nella pancia.

La montagna è ormai davanti a noi, eppure, ho l’amara sensazione che il borgo sia irraggiungibile. Vedo, d’improvviso, la massa enorme di roccia che fluttua in un miraggio sfocato. Sparisce. Riappare.  “Sono messa peggio di Lea”, penso. Adesso, ho le traveggole. Respiro forte. Devo tirar fuori la forza che mi ha permesso di essere ancora qui. Che mi ha permesso di sotterrate mia madre e mio fratello, massacrati senza un perché, di spaccare il cranio a un nazista. Di percorrere Dio solo sa quanti chilometri, senza quasi fermarmi, per raggiungere il Covo del Matto e consegnare certi documenti a Guido, il capo del Gruppo delle Aquile. Sono fiera di far parte della Resistenza. Ci sono incappata per caso. Una fuga alla miseria sopraggiunta, inaspettata e aspra, con la guerra. Una fuga alla fame, alla solitudine. Poi ho capito. Ho tirato fuori un coraggio che sconoscevo. Il senso della giustizia. Della ribellione. Ho sepolto la fragilità femminile sotto un maglione di lana grezza, i pantalonacci senza forma. Ma ho imparato a leggere il mondo oltre i bisogni quotidiani, le cose inutili e futili di sempre. Adesso ritorno al mio paese. Duecento chilometri percorsi con mezzi di fortuna, poi, ormai da due giorni, a piedi. Dovrò imboscarmi per qualche settimana. Così, mi hanno comandato. Ma Lea è una palla al piede. E’ già condannata. Perdo tempo prezioso. Devo raggiungere il borgo prima del buio, altrimenti è finita. Non potrei sopravvivere un’altra notte al gelo e senza cibo.  “Devo lasciarla” mi ripeto per la millesima volta...”Come può seguirmi tra quelle rocce? Respiro profondamente. Cerco di rilassarmi. Di patteggiare con la coscienza. Torna la lucidità: in fondo siamo quasi ai piedi della montagna. Appena comincio la salita, trascino questa disgraziata ancora per qualche centinaio di metri e subito trovo la grotta del Falco. La ficco dentro. Al riparo.  Ci sono nata, tra quei picchi, quelle vallate. Tra i viottoli dai bordo contorti, irti come lame. Li conosco palmo per palmo i miei monti.  Sì. La lascio nella grotta dicendole che cerco aiuto. La verranno a prendere. Lo trovo davvero, qualcuno. Un pastore, magari, che torna alle stalle. Male che va, appena metto piede al borgo, ne trovo cento, ad aiutarmi.

Lea è ancora a terra. Si accovaccia a quattro zampe. La testa giù, tra gli arti scheletriti. Cerca, nei polmoni, un fiato che non c’è.  E’ un animale scavato dalla fame, dalla sfinitezza.  Le do una mano. Si rialza. “Proviamo,” mormora. Proviamo”. Ma adesso sono le mie gambe, che cedono. Il suolo è bianco dal gelo. Mi arrendo: “va bene, ci si ferma un attimo e poi di filato verso il borgo. Guarda, non è lontano. E’ l’ultimo paese rintanato come un feto nel ventre.  Il più sicuro. Dopo, c’è solo il confine. Ma è la salvezza. Un ammasso di casacce di pietra attorniate da una cresta di rocce e boscaglia”. Lei strizza gli occhi. Inquadra i rilievi azzurrognoli, offuscati dal nevischio che comincia a scendere come un alito. Tira su le spalle, ma un attimo dopo reclina la testa e ricomincia a tossire. Gli spruzzi di sangue raggiungono il suolo. “Maledizione” penso. “Quanto potrà durare, ancora?” Torna la paura. La rabbia. Perché non ho finto di non vederla? E’ inciampata nei miei passi. Mi ha incastrata. Mi è venuta addosso con tutta la sua malattia, la sua disperazione. Avrei dovuto continuare la mia marcia. Non soffermarmi su quel fantasma apparso dietro un cumulo di terra nera.  

Ci riposiamo mezz’ora con l’orecchio teso ai rumori, ma c’è un silenzio di assenze. Non un volo, il grido di una qualunque bestia. Solo quel cielo che comincia a vibrare nel respiro della neve che ora scende lentissima.

                                                                            *

Malgrado l’oscurità che si addensa senza tregua, riconosco il viottolo. Il percorso che mi vedrà raggiungere una delle tante grotte della mia infanzia. ”Dai, Lea, che i tedeschi li abbiamo fatti fessi”. E trovo la forza di una mezza risata. Lei stira le labbra. Non tossisce da ore. “La neve”, mi illudo.  L’aria salvifica della mia montagna, che ci accoglie in un effluvio di timo…

                                                                            *

La grotta si apre larga, scoperta, ma non importa. “Non potrebbero mai venire quassù, quei bastardi!”, esclamo.  Lea si rifugia nell’antro. Si accoscia in fondo. Ha un pugno di neve in mano e la strofina sulle labbra. No. Non basta, l’aria della mia terra. La vita sembra sgusciarle via come un refolo di vento tra le cime degli alberi. Eppure, mi guarda decisa: “quanto manca ancora?” “Non molto” rispondo. “Non possiamo fermarci. C’è troppo freddo. Tra pochissimo sarà notte. Sai, da quella piccola vetta, col giorno, si vedono i tetti biancastri delle case”. Ma adesso stringo gli occhi. Buco l’aria offuscata dalle ore impietose che continuano a scivolare via. So che è lì, ormai vicino, il mio luogo natio. Il luogo della passata felicità, dei sogni, dei giochi, dei sorrisi. Occultato dalla boscaglia, dalle piccole alture che lo circondano, lo proteggono. “La gente ha cuore, qui”, sussurro. “Gente che vive di terra e cielo. C’è sempre un fuoco per tutti, un pezzo di pane”.

“Sì, quelli di montagna, hanno cuore”, ripete improvvisamente Lea. “Conoscevo una famiglia nei pressi di Feltre. Erano brave persone. Noi andavamo in vacanza lì, tutte le primavere. Sai, per i miei polmoni…E’ passato solo qualche anno, ma è tutto così diverso…”

Mi ha regalato una briciola di sé. Del suo mondo. Di quello che era, e mi si affollano nella mente una miriade di ipotesi: Un’ebrea. Una famiglia benestante. Indovino dalle poche parole, da quel che rimane del suo cappotto di ottima fattura. Dalla finezza dei suoi gesti. Non è una montanara ruvida come me. Dev’essere stata una creatura distinta, altera. D’improvviso vorrei conoscere tutto, di lei. Ogni attimo della sua vita. Ogni emozione, ogni speranza. La vedo tirarsi su: “dai, proseguiamo. Ce la facciamo, vedrai”.

Adesso, confusamente, intravedo gli spigoli delle case intersecate. Per prendere fiato, ci siamo rannicchiate su uno spiazzo denso di neve lieve come panna. L’aria ghiacciata, accende le guance. Ma Lea resta senza colore. Solo gli occhi, violacei, accesi nella morsa del gelo e degli stenti. “Neanche mezz’ora e ci siamo”, sospiro. Lei annuisce, ma in quest’ultimo percorso, non si regge più. Sputa l’anima. Ansima. E’ l’ombra di sé, ma piombo, sulle mie braccia sfatte dalla fatica.  M’inerpico, scivolo, arranco, tra gli spuntoni d’ardesia. Perdo sangue da qualche parte e la neve si ficca negli occhi. Acceca. Posso perdere l’equilibrio. Finire tra le crepe di un dirupo. Un dolore acuto, al petto, mi costringe a fermarmi. “Basta! La lascio”, decido. Ma lei si ostina, annaspa. Striscia i piedi tra le rocce, si aggrappa a spine e roveti dove la neve s’ammassa ancora senza più pace. Poi ci scorgono. Ci vengono incontro. C’è anche Giovanni. Uno del Gruppo delle Aquile. “Ti aspettavamo”, dice.

                                                                        *

Siamo qui, accucciate davanti al fuoco di un camino sbilenco, retto da una trave nera d’anni e di fumo. Lea sdraiata sul materasso di crine, sommersa di coperte. Io accucciata ai suoi piedi. La donna e l’uomo che abitano questa bicocca sguarnita di tutto e colma d’umanità, ci guardano, ci chiedono continuamente: ”volete del vino? Ancora del pane? “ La donna  dai fianchi di madre e dalla pelle di cristallo, gira continuamente qualcosa nella pentola sul fuoco: “Due minuti e vi sentirete rinascere. E’ quasi pronto. “

Lea riesce ad abbozzare un sorriso: “si sta bene, qui”.

Per la prima volta vedo i suoi lineamenti così, come sono, malgrado il male che la svuota. E’ davvero

giovanissima. Poco più di una bambina. Guardo le labbra perfette e pallidissime, con piccoli grumi di sangue, le palpebre venate di azzurro, i riccioli scomposti, ancora fradici di neve. Dev’essere stata molto bella. “Ti rimetterai”, mormoro a voce bassa.  Lei tira su le spalle aguzze: “no. Ma poco importa, adesso. Qui c’è il tepore del fuoco. Gli odori. Quelli di questa gente. Della frutta accatastata nei cesti, delle travi di legno al soffitto. Del ceppo che arde. C’è l’odore della zuppa. L’odore buono degli anni passati. Non potevo morire in quel campo di concentramento, tra gente già senza vita. Non potevo morire ammassata come una pecora. Senza identità. Sono riuscita a fuggire durante un trasferimento. Ci portavano dal Campo di concentramento di Bolzano, a Ravensbruck. Almeno queste erano le voci. Ma, dopo la fuga, non potevo morire neppure per strada come un cane randagio. Non sono un cane. Non sono una pecora dispersa. Sono ebrea. Ho il tuo sangue, il sangue di chiunque. E’ assurdo. Incomprensibile ciò che accade…”

Si scuote. Torna, in faccia, una sorta di sorriso:  “… ma così, sì.  Così, si può anche morire. Sei ancora te stessa. Ti porti dietro una dignità ritrovata, il tepore delle cose buone...”

La donna accanto al fuoco, sospende il suo rimestio. L’uomo sospira. Abbassa la testa.

Io le prendo le mani di Lea che ficca due occhi d’acqua nei miei. Bisbiglia: “sei fortunata. Se mai ti capiterà qualcosa, sarà per un motivo straordinariamente importante. Ma sei coraggiosa, forte: ce la farai.  Ogni guerra, prima o poi, finisce e domani, chissà…! Potrai ancora inventartelo, un altro domani.”

La sento tirare un respiro rantoloso e adesso la voce è un fiato appena percettibile: “ricordati di me…”

Allora sono io che riesco a rimediare un sorriso mentre la mia corazza si sgretola come un sottile velo di ghiaccio al primo sole. Ingoio l’urlo che sale per la gola, ingoio l’acido delle lacrime. La sollevo un po’, giusto per stringermela al petto. Chiudo tra le braccia, le spalle ancora gelide, senza carne. Accarezzo la testa scomposta.

Guardo fuori, dalla finestra mangiata dagli anni.

Tra un’ora o due sorgerà l’alba.