Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XVIII^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2013 per un racconto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
Secondo classificato |
"IL VERDE DELLA MONTAGNA"
NEMOUR
MARIAGRAZIA |
Sono di nuovo qua. Ma non avrei dovuto venire, lo so. Ai ragazzi non ho detto che partivo, mi avrebbero fatto cambiare idea; gli ho mandato un messaggio prima di spegnere il cellulare, ficcare un po’ di roba nello zaino e chiudere la porta. Con Aldo avevamo scoperto per caso questa Valle ripiegata tra il Piemonte e la Valle d'Aosta. Aldo si era innamorato del celeste glaciale di questi laghi; fregando la fronte contro la mia, diceva che si era innamorato allo stesso modo dei miei occhi, tanti anni prima. Siamo tornati qua per dieci estati, non sapendo che due anni fa sarebbe stata l'ultima, insieme. È stata una polmonite a portarmelo via, e non l'amante che tanto temevo. Quella che non è mai esistita. Quando arrivo all'alberghetto di pietra la signora Marita è sulla porta. Non mi chiede di Aldo, ma mi abbraccia, assicurando di aver preparato una stanza speciale: guarda la vetta del Gran Paradiso. Mi piace questo modo tutto suo di porgermi le condoglianze. La notte, nel letto singolo di fronte alla montagna, sto immobile ad ascoltare il silenzio che non mi fa dormire. Un silenzio che si disfa all'improvviso: dietro alla parete qualcuno inciampa, fa scricchiolare le assi del pavimento, batte un piede contro il comodino o chissà cosa. Un trambusto che mi fa addormentare. AI mattino entro nella saletta delle colazioni che non sono ancora le sette; un uomo se ne sta già lì a bere il caffè. Si gira appena. Fa un cenno brusco con la testa - un saluto, forse - e ributta gli occhi sul foglio che tiene in mano, sta scrivendo qualcosa. Appallottola la carta. Sbuffa. Deve essere il mio vicino di muro. Per un attimo mi piacerebbe chiedergli se scrive in quel modo compulsivo anche di notte, ma poi ripenso all'occhiata stizzita di poco fa e mi passa la voglia. Verso il caffè nella tazza e mi siedo. Piove, fuori. La montagna è fredda anche ad agosto se piove, ma a me piace lo stesso. L'acqua rispolvera il verde e lo fa brillare. C'è un verde per i prati intorno al lago, uno per i pascoli in quota, uno per i boschi di abeti. Anche il mio compagno di colazione è vestito di verde, forse si vuole confondere con la montagna, scomparirei dentro. Si nasconde, forse. Così come si nasconde la cima del Paradiso, soffocata da una nube spessa. Nevica lassù. Un lampo spegne la luce del lampadario. Rimango in attesa del tuono, ma sussulto ugualmente quando arriva, tanto da rovesciare a terra le fette di pane che ho appena appoggiato sul piatto. L'uomo striscia la sedia sulle assi del pavimento e si alza. È più alto di quanto avessi immaginato, e anche più vecchio. Forse è più vecchio di me. "Mi ha sentito stanotte?" chiede, mentre raccoglie il pane, "non sapevo ci fosse gente nella stanza vicina". "Sì, ho sentito che ha ucciso qualcuno intorno alle due. Ma non testimonierò, non si preoccupi!" Non lo faccio ridere, i suoi baffi grigi non si muovono. Chissà perché mi è venuta una battuta tanto stupida. Torno al mio tavolo e tiro fuori dallo zaino il romanzo che ho comprato ieri nel negozio di alimentari; mi piace quella libreria che infila pagine, focaccia e pesche nella stessa busta. La mattinata passa così, lesta lesta: io leggo, l'uomo verde fa la guerra ai suoi fogli e fuori piove. È mezzogiorno quando mi accorgo di non aver ancora telefonato ai ragazzi. Salgo in camera a prendere il cellulare. Quando torno di sotto, il cielo ha tagliato via larghe fette di nuvole e nei buchi ci ha spalmato un po' di sole. "Il giro del lago" mi sorride Marita mentre ritira la chiave della mia stanza nella bacheca di legno, "questo è un pomeriggio da giro del lago". E così mi convinco, carico lo zaino e mi incammino. L'odore della montagna bagnata tonifica il mio passo, che si allunga in un ritmo un po' troppo sostenuto, che presto mi taglierà il fiato. Ma non importa, voglio stancarmi. Lo vedo sul sentiero, cammina veloce, è già oltre il pilone votivo. È il mio assassino della porta accanto; assassino di mosche, direi. Riconosco il suo verde, quello della camicia e dei pantaloni. Magari pensa che l'ho seguito. Mi siedo, e lo lascio allungare la distanza. Dopo mezz'ora arrivo alla strettoia che guada il torrente. Il ponticello di legno è stato portato via a morsi dagli ultimi temporali. Sull'acqua impetuosa ondeggia una fune assicurata alle rocce. È corda nuova e asciutta, messa lì da poco. Tolgo gli scarponi e annodo i lacci fra loro, poi li metto intorno al collo. Via le calze. Afferro la fune e attraverso il torrente con un vigore che Aldo non riconoscerebbe. Grazie, dico, alle spalle del mio vicino di muro, quando scendo per la cena. Lui mi guarda di sbieco. "Grazie" ripeto, "per la fune, oggi". Annuisce e torna ai suoi fogli. Odio mangiare da sola al ristorante, fissando il muro, così prendo il mio libro e lo metto vicino al piatto. Annuso le pagine, profumano ancora di buono. Scende la notte e di nuovo non riesco a dormire. Ho fatto male a tornare qua. Questa Valle piaceva ad Aldo, non a me. È sempre stato così: Aldo sceglieva la strada e io la seguivo. Ora non so più dove andare, torno indietro. Spalanco la finestra, mi sembra di non poter respirare in quest'aria viziata di tempo andato a male. L'uomo verde è lì, affacciato al davanzale; la lama del coltello che impugna luccica di luna. Intaglia un bastone. "Dovrebbe portare sempre una fune con sé nelle escursioni, soprattutto se va da sola" dice muovendo appena i baffi. "Sì, è vero. Domani me lo ricorderò. Voglio andare lassù, sul Gran Paradiso". "Pessima idea. Bisogna essere allenati". Gli rispondo che io sono allenata, vado a correre tutte le mattine al parco, in città. Non gli dico che con Aldo volevamo salire su quella cima due anni fa, ma poi avevamo preferito vie più semplici, rimandando la scalata all'anno dopo. L'anno che non è più venuto. "Scalo anch'io il Paradiso, domani. Parto alle sei. Si faccia trovare pronta di sotto, se proprio deve venire" - si gratta la testa - "Perché non continua a correre in città e basta? Per scalare quella cima bisogna aver allenato la testa prima ancora che le gambe". Maleducato. Gli rispondo che non si deve prendere il disturbo, ma lui afferra le ante e dice: "Sono una guida, e se va da sola poi mi toccherà andare a cercarla in un crepaccio. Risparmio tempo ad accompagnarla". Spranga la finestra. AI mattino scendo in anticipo, ma il mio vicino di muro sta già facendo colazione insieme ai suoi fogli. Saluto Marita mentre esce dalla cucina con la caffettiera in mano; dice che oggi è una gran bella giornata per risalire il Paradiso. Arrossisco tra le rughe quando mi sorride a tutta faccia. Non ho nulla da giustificare, eppure dico: "Vado con…," - ecco, non so neanche come si chiama, quel vecchio maleducato - "con il signore di là ... la guida alpina". Lei sbocconcella una risata: "Per quanto ne so io, il Verd è un bracconiere... ma conosce il sentiero meglio di qualsiasi guida alpina, questo è sicuro. Il Gran Paradiso non è una vetta da scalare da soli. È meglio portarsi dietro un appiglio di scorta". L'uomo verde compare sulla porta. È tardi, dice. Ci inoltriamo nella radura avvolta dalla luce azzurrata della giornata che si sveglia. Prima di arrivare al torrente si ferma una volta sola per dirmi di fare il doppio nodo agli scarponi, e lo dice scuotendo la testa, come se mi fossi messa i tacchi, per l'occasione. Gli chiedo come si chiami e lui risponde che la gente, qua, lo chiama il Verd. Il Verde. "La gente la chiama il Verd, va bene, ma lei come si chiama?" "lo non mi chiamo mai". Tra i denti mi sfugge un sorriso. "Io sono Isabella" allungo la mano. "L'ho sentito in locanda". Riprende la borraccia che mi aveva passato. "Ora possiamo smetterla di fare salotto? Non arriveremo mai così". Aggrediamo il pendio che si allunga di fianco alla pineta. Quando gli dico che ho di nuovo bisogno di una pausa lui si siede su una roccia, apre lo zaino e tira fuori i suoi fogli. "Sta sempre con la penna in mano. Le piace molto scrivere". Mi guarda con fessure più aperte del solito e mi accorgo che ha uno sguardo azzurro. "No, non mi piace affatto scrivere". Quando ci rialziamo sfila la piccozza che torreggia dal mio zaino e mi chiede se ho intenzione di attaccare qualche quadro. Alla mia smorfia risponde che non è il caso di portarsi dietro chili di troppo, visto che già annaspo. Posa la mia attrezzatura nuova nell'erba alta. "La prenderà dopo". Siamo davanti alla prima parete e devo ammettere che aveva ragione: la via ha già i chiodi e la corda necessari, è solo fatica, quella che bisogna mettere, per salire. Il Verd si arrampica, poi mi dà le coordinate dove infilare mani e piedi. lo ci provo, ma a metà parete sono ferma, non riesco più a salire né a scendere. Non riesco neanche a deglutire, veramente. I muscoli mi si stanno irrigidendo. E in più nelle orecchie mi ronzano gli ordini di questo vecchio maleducato, neanche fossi una recluta del suo personale esercito forestale. Ma perché diavolo sono venuta quassù? Per dimostrare che so prendere decisioni stupide? La mia impresa non mi farà trovare Aldo alla locanda, stasera, nel letto troppo piccolo che guarda questa cima; può però aiutarmi a raggiungerlo più in fretta. E forse è proprio questo che ho avuto in mente fin da quando sono partita senza avvertire i ragazzi. Mi vergogno, ma non mi interessano più le cose belle del monda, mi danno fastidio. Stupida. Sto attaccata con le mani e con i piedi a una roccia come fossi un ragno e tutto quello che riesco a fare è piangere. "Isabella!" esclama il Verd. Non ce la faccio proprio a sentire i suoi rimbrotti. Alzo la testa con rabbia: "Vecchio caprone non vedi che non riesco a muovermi?" Ma lui mi ha già affiancata. Appoggia una mano sopra la mia. "Non sei sola" dice, con la sua voce affilata, "prendi fiato e punta bene i piedi; sulla destra hai due appigli comodi". Ci provo, e scivolo. La mano ruvida del Verd mi afferra stretta. Ci riprova, ma stavolta punto meglio lo scarpone nell'insenatura e riesco a far riposare le braccia. Prendo fiato e puntello i piedi. Su. Raggiungo il piano di roccia fradicia di paura; anche il Verd è sudato. "Mi dispiace" e lo dico con il fiatone. "Anche a me. Avessi saputo che ci tenevi così poco alla vita avrei evitato di legarmi in cordata con te". Apre lo zaino e tira fuori i suoi appunti. "Da quando sono rimasta vedova mi importa poco di tutto. E a te di cosa importa? Solo dei tuoi fogli?" Il Verd stringe in pugno la carta. "No, non mi importa di questa robaccia, te l'ho già detto. E non mi piace ripetermi". Sto per dirgli che è un cafone, ma il suo mezzo sorriso mi scaccia le parole arrabbiate di bocca. "Mi devono processare" dice, "e l'avvocato vuole che ricostruisca ciò che ho fatto in quel periodo". "Un processo per bracconaggio?" Le rughe del Verd si allargano fino a ridere. Lo sa fare, dunque. "Chi te l'ha detto, Gino, al negozio di alimentari? No, comunque no. Non sono un bracconiere. Ma non mi dispiace che lo si dica in giro". Gli domando di cosa sia imputato, ma lui risponde che ora sono io sotto interrogatorio: devo arrivare fino in fondo. Alzo gli occhi alla cima, manca ancora parecchio, troppo. Mi rimetto in piedi. Ci aspetta un'altra rampa nel vuoto. L'ultimo tratto è sul nevaio, e con gli scarponi affondiamo fino al ginocchio. Mi metto addosso tutto quello che ho stipato nello zaino, ma il naso mi si congela lo stesso. Non mi chiedo quanto sarà difficile scendere, penso solo a metter un piede dopo l'altro. Arrivo prima con le mani e poi con i piedi, sulla cima. È sempre stata qua, mi aspettava. Ce l'ho fatta! Alzo la testa, raggiante. "Omicidio", dice lui, davanti al mio sorriso ebete. "Sono accusato di aver messo una bomba sotto a una macchina che ha ucciso un brigadiere" e lo dice mentre riavvolge la fune tra la mano e il gomito "nel settantadue". "E il processo lo fanno adesso?" "Hanno riaperto il caso. È saltato fuori un pentito di Lotta Continua". "Ed è così? Lo hai fatto? L'hai messa tu quella bomba?" "Poco importa se l'ho fatto. Ero uno che avrebbe potuto farlo, sì". "Anch'io avrei potuto buttarmi di sotto prima, ma poi non l'ho fatto. Non è la stessa cosa". Ride di nuovo. "Avessi saputo che mi potevi ammazzare l'avrei piazzata sotto la tua macchina, una bomba". "Non so se sei più insopportabile quando stai muto o quando parli". Mangiamo il pane con il formaggio. Qualche quadretto di cioccolata. Non sembra mio tutto questo appetito. Riscendiamo il crinale tra chiacchiere e silenzio. I tratti impegnativi si addolciscono fino a diventare un sentiero scorrevole. Le ginocchia mi fanno male. Sul ponte gli chiedo perché mi abbia preso come zavorra in questa uscita. "Ho visto che eri sola. Ma sola davvero, come me. Poche persone riescono a rimanere così sole". "Dici che due soli, insieme, fanno una coppia di amici?" "Non lo so. Mi intendo più di nemici che di amici”. Alza le spalle. "Forse". Torniamo in albergo. Nel parcheggio mi fermo. "Che hai?" chiede il Verd. "Niente" - sorrido - "è la macchina di mio figlio Giacomo quella. Non mi aspettavo venisse. Vieni, te lo presento". "Ho da fare". "E cosa devi fare?" punto i pugni ai fianchi, "salirai a farti una doccia, no?" "Sono un bracconiere, vado sempre a controllare le trappole a quest’ora" sorride, di nuovo. La mattina dopo sotto la porta trovo una busta. La rigiro tra le mani e la metto nello zaino. Giacomo è venuto con la fidanzata, e insieme andiamo in pineta, Fanno fatica a starmi dietro, sono più allenati alla vita notturna che a quella diurna. Solo prima di salire in macchina per ripartire, mi dicono che si vogliono sposare. Sono felice che siano saliti fin quassù, per dirmelo. A cena sono sola al tavolo, ma dalla finestra vedo il Gran Paradiso che si staglia nitido sulla Valle. Mi decido, e apro la busta. Dentro c’è un foglio, uno dei suoi: "Parto. La prossima settimana riprenderà il processo e fino a oggi non sapevo se mi sarei difeso. Quella bomba, quarant'anni fa, non l'ho messa io. Avrei potuto, ma non l'ho fatto. Mi è venuta voglia di dirlo. Se i mesi che verranno ci lasceranno la voglia di scalare il Paradiso, ci rivedremo la prossima estate. È strano: non mi dispiace scrivere su questo foglio". Annuso la carta, sa di pesche e focaccia. Sa di buono.
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