Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XVII^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2012

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Terzo classificato

IL  RESPIRO  DEL  VENTO

DI MARICLA DI DIO  CALASCIBETTA (EN)

 

   Un gesto con la testa. Chiuso ma ineluttabile. Tradotto, suonava più o meno così: Adesso torna a casa. Subito! Quel giorno, uno dei tanti di parecchi anni fa, l’avevo fatta arrabbiare e non sapevo bene il perché. Magari quella gonna che mi copriva a stento il sedere. Avevo tirato su le spalle e con un ciao irriverente, ero uscita chiudendomi  la porta alle spalle.

Tornando a casa, per strada, l’avevo immaginata oltre quella porta, in quella tana-palazzo dai muri possenti color vino, da cui usciva solo per arrampicarsi (testarda, spericolata), sui suoi monti. Lunga. Secca. Un corpo sbilenco. Un fascio di membra livide, prosciugate dalla vita usata in quel suo modo duro. Mi era sembrato di sentire il gorgoglio di disapprovazione, di fastidio, che le partiva dalla gola, riaffiorava sulle labbra insecchite. Un fruscio di lamenti. Granelli di sconfitte che si annidavano poi in bocca e lì restavano, perché lei parlava ben poco. Anzi, quasi nulla. Se le teneva dentro le tempeste che aveva in corpo. Era stato sempre così.

Poi accadde. Mi ammalai. Quelle devastanti maree che assalgono, a volte, i corpi teneri. Sbattono. Squassano. Avevo solo tredici anni e forse, neanche qualche mese di vita. Chissà come e perché, ero riuscita a superare tutto. Un miracolo.  Lei, mia nonna, annuiva col suo muso divenuto ancora più lungo e sbieco: sì. Un miracolo. A volte, capitavano…

 Fatto sta che sono ancora qui, a ventidue anni. Corro, mangio, cammino. A tredici, ero solo un granello di sabbia nel vortice di una tempesta sahariana. Fu allora, in quel drammatico frangente, che mia nonna si decise a uscire dalla sua tana-palazzo color vino. E si decise a parlare. 

   Arrivava tutte le mattine. Attraversava il giardino prospiciente la casa. Scansava l’arruffo di felci e rosmarini,

 cespi di margherite e prezzemolo. Lasciava alle spalle alberi anneriti dagli anni, arbusti collosi inerpicati come ladri alle crepe. Sì e no cento metri, ed era sulla soglia della mia villetta di mattoni rossi.

Arrivava, immancabilmente, tutte le sere alle sette.

Non aspettavo altro, in quell’intervallo di ore smaniose e confuse. Vacillante come una tamerice nella tramontana con quell’odore, addosso, di cose smorte che coglievo dai suoi abbracci goffi, stentati, mai usati prima. Un ché di stantio mitigato dalla buona colonia, dal fresco di salvia in bocca, emanava da ogni particella del suo corpo e confluiva in un’unica familiare, rassicurante presenza.

Si sedeva vicino al mio letto, mi prendeva una mano. Tra le sue, un roveto di nodi e vene azzurre e spesse, la mia pallida mano era un batuffolo d’ovatta. Mi accarezzava con una tenerezza sconosciuta forse anche a se stessa. Avvicinava la sua faccia antica e dolente. Poi, tra lo stupore di me e mia madre, parlava. Un cumulo di cose andate. Guerra. Fame. Lutti. Di scatto, lasciava certi discorsi a metà. Credeva di perdersi in qualcosa che poteva farmi male. Non era esattamente così. Gli affanni, il dolore, la morte, erano il dolore degli altri. Nel vaneggiamento della mia mente infantile e provata, riuscivo a vivere la mia malattia come uno stato momentaneo. Un’abulica dimensione in cui mi muovevo stentata, in attesa del mattino in cui mi sarei rialzata e avrei ripreso il tram-tram di sempre: l’incubo delle lezioni di matematica e le piacevolezze della gite fuori porta. Le scorribande con gli amici. Un cartone alla tv. Lei credeva, forse, che dolore, malinconia, tristezze, accasciassero ancor più il mio deprecabile stato. Allora quelle pause. Decideva di svelare ciò che poteva andar bene per me.   

Confezionava giornate di primavera. Brezze mattutine, cieli aperti.  Fermava quel fiume di amaro passato che le balzava addosso arginando i ricordi che la ferivano. Era una guerriera abituata a quell’estenuante lotta.   E aveva le sue armi per vincere: le sue montagne.  Il suo mondo verde. Il respiro del vento. S’infossava ancor più il solco che le spaccava la fronte in due. Stringeva la bocca. Tirava su le spalle e sguainava le sue spade luminose.…erano tempi duri, sì… ma c’era la mia montagna. C’erano i boschi. Erano amici, lecci, pini, faggi, abeti. Ero una di loro… il respiro del vento raccontava un mucchio di cose… Sai, piccola mia, la vita cambiava. La potevi immaginare, inventare perché nei boschi, tutto può accadere… 

   La fissazione della montagna, dei suoi boschi, diceva mia madre, era la sola cosa che la scuotesse dai suoi torpori senili. Bastava parlare di alberi e bestie, perché le si riaccenda una luce dentro. Ma in fondo è sempre stata così. La ricordo da bambina, con i suoi cesti d’erbe…ci si perdeva, nella boscaglia. Tornava sorridente…Sì, sorrideva spesso…

Io non riuscivo sempre a raggiungerla per quei sentieri di luce. I boschi conosciuti, non avevano le voci di cui le mi parlava. Erano piuttosto le ossa bianche dei suoi tormenti, soprattutto quelli, che continuavano a galleggiare in quella marea di parole che non avevano un netto senso compiuto. Restavano più che altro, nei miei deliri, brandelli di percezioni che divenivano immagini. Li coordinavo come potevo. Così, nebulosamente, trapassavo svelta, policromie di querce, prati di diamante e rugiade primaverili, per sorvolare, con le mie ali strappate, su tronchi di case bombardate dalle quali sfrecciavano via frotte di bambini in cerca di altri rifugi. Seguivo folle affamate che ricucivano strade, zappavano terre disseminate da mine.  

Mi ritrovavo in quelle realtà visitate dai libri, dai film. Ed era, malgrado tutto, il senso di una vita, di mille vite in cui dipanavo le nebbie e i vapori dei miei mali. Mi tenevano inconsciamente legata a un vissuto reale. Concreto. Solo una volta, nonna, provò a raccontarmi una fiaba. Scossi la testa infastidita. Non volevo perdermi nei meandri di vacue illusioni. Avevo bisogno di realtà alle quali ancorarmi come un naufrago aggrappato al relitto di una nave affondata.  Volevo la vita. Nera, dura, spinosa. Combattuta fino allo stremo.  Volevo la sua vita.  

   Aspettavo le sue parole come un randagio, un pezzo di pane tra i denti. Le sue prime visite erano incerte come i suoi passi. I movimenti, gli sguardi, un lento esitare.

Scandagliava i miei lineamenti di ragazzina in bilico in quella terra di mezzo che avrebbe dovuto decidere un certo destino. Indugiava. Quell’insicurezza, mi dava i brividi. Avevo sempre il timore che la sua voce fosse solo uno dei miei tanti sogni-incubi in cui mi perdevo e riaffioravo di continuo. Avevo sempre il timore che tutto quello che la vita le aveva scaraventato addosso, si annidasse ancora nei suoi oscuri silenzi. Adesso, di fronte a me, quegli occhi erano buchi pesti, fondi, dove giravano pupille come foglie d’autunno.  La voce, quella voce finalmente tirata fuori dal suo guscio, era di chi si è cresciuta dentro la solitudine come un organo qualunque. Un pezzo d’intestino. Un pezzo di fegato.

Pian piano, finalmente, le parole sgusciavano dalle labbra, raggiungevano la mia pelle rovente.

*

     La mia malattia durò un paio di mesi. Non appena il mio  sangue ricompose le sue cellule e vinsi quella guerra di febbri e dolori, di vaneggiamenti e svenimenti, mia nonna smise di venirmi a trovare come un medico frettoloso di raggiungere altri derelitti. Sembrava che il suo compito fosse finito. Che avesse chiuso l’ultimo capitolo delle sue memorie.  

Allora fui io ad andare da lei.

                                                                                 *

    La ritrovai assorta in quel cerchio di apparenti assenze in cui si era scavata la sua culla. Ma non sembrava triste. Non lo era mai stata, malgrado quel bagaglio di anni tempestosi, malgrado quel suo vivere misantropo. Una inconsueta, strana, assurda felicità le covava sotto pelle. Guardinga, celata. Una cosa sua, fiorita Dio solo sa perché e come.  

   Le stanze aperte al giardino da finestre-pareti, non raccoglievano i suoni delle gazze, né dei passeri (in attesa della loro mollica), a causa di quei muri spessi, quei vetri doppi dove all’interno, strisce d’umido lasciavano aloni giallognoli.

C’era in lei e attorno a lei, un che d’immobile. Sospeso. Le mie parole, i tenui tentativi di riportarla a me, rimbalzavano qua e là. Lei raccoglieva i miei lamenti con un cenno della testa, un sorriso di traverso. Devo ammalarmi di nuovo, per sentirti parlare, le dissi un giorno demoralizzata. Allora, mia nonna, mi sorprese ancora perché di botto, le s’imporporò la faccia smunta, gli occhi-buchi saltellarono freneticamente dalla mia faccia ai mobili bui, alle finestre, ai tappeti dagli orli smangiati dal tempo. Ingoiò un paio di volte. Girò tutto il corpo verso la finestra e senza voltarsi, con quel suo modo strascicato, disse:

Che bestialità dici, ragazzina!..Che Dio non ascolti, in questo istante, le tue stupide parole…

   Ricominciò così. Con quella frasetta buttata là, per la mia insofferenza al suo mutismo, alla sua apparente indifferenza.

   La voce era più ferma, adesso. Ma, nel contempo, sempre più lontana. Si staccava, nei giorni, nei mesi, sempre più dalla fragilità del suo corpo. Parlava…parlava…era un modo per tenermi legata alla vita. Per l’assurda paura di vedermi tornare sulle soglie di quell’Ade tenebroso che mi aveva aperto già le sue porte. Un gesto scaramantico, forse.

Ma tornò a parlare con me. Cominciò con tremuli: ricordi? Ti ho parlato di quel lontano febbraio del 43…la neve…i tedeschi… 

                                                                               *

    C’era un piccolo borgo, oltre Salerno. Su, per quei monti dove il respiro del vento trasportava l’eco del mare e le brezze e un canto di pescatori. Quattro case, l’una sull’altra ammassate e strette come pecore all’ombra di una quercia. Lì mia nonna, aveva vissuto fino a quindici anni. Non aveva fatto in tempo a sentire il tepore di sua madre che l’aveva lasciata quasi in fasce, né conservava l’impronta di una mano virile sulle spalle. Suo padre, per una qualche follia o fattura, si era invaghito di una zingarella e l’aveva seguita nella sua vita randagia. Sicché, nonna era rimasta nei suoi boschi sola come un cardo in un campo di gramigna. Non le era dispiaciuta, quella solitudine. Sconosceva il respiro degli altri sul suo respiro. Forse quelle mancanze, quei vuoti, l’avevano staccata dal senso di una vita comune. Gli stessi ricordi, gli affetti mancati, il rancore che avrebbe dovuto nutrire per chi l’aveva abbandonata, erano in un substrato d’indifferenza. Quei pochi anni della sua vita in cui suo padre aveva vissuto con lei, non avevano cambiato la solitudine che le era nata dentro al primo vagito. Ma un giorno…

                                                                              *

…Giunse tuo nonno, un giorno. Lo riconobbi subito. Gerardo.  Era lui, l’uomo che mi avrebbe preso con sé.

Avevo un po’di timore. Avrebbe rubato le mie rocce? i  miei spazi azzurri, l’ombra delle mie pini?  ma no.  Il destino mi venne incontro. Tuo nonno era l’altra mia metà. Una delle mie mani. Uno dei miei occhi. Il nostro cranio poteva benissimo essere spaccato in due: vi avremmo letto le stesse identiche sensazioni. Gli stessi sentimenti, li avremmo potuti trovare nelle nostre anime, se mai l’anima si potesse dividere.

Ci unì la montagna. Lì, ci incontrammo, io con un cesto di verdure e funghi, lui tra due pecore, un bastone in mano e la faccia nera di sole, accesa da due occhi di mare. Il bosco mi aveva avvertita. Avevo sentito quel mormorio scomposto, giorni prima.  Fronde che vibravano a un vento che non c’era.  E l’acqua del ruscello si era fatta stranamente calda. E il sole si era attardato nella striscia blu dello slargo dove crescono i fiori azzurri con un cuore di seta gialla. Quelli che portavo sempre a casa e riponevo nella ciotola d’alluminio.

Quando nacque tua madre, Gerardo volle battezzarla con l’acqua della nostra fonte. Costruimmo questa casa grande, forse troppo, ai margini del nostro bosco. Solo la guerra riuscì a separarci. Un intero anno mi sembrò d’essere monca, storpia.

Lo ritrovai una mattina d’ottobre, sulla soglia di casa. Era

l’ombra di sé, ma nessun ottobre mi era parso  più bello.

Quando mi lasciò, per quella maledetta scheggia di granata che gli si era ficcata in un rene,  tua madre era ancora piccola. Non ebbi paura. Sapevo che  “lui” sarebbe rimasto sempre qua attorno. Per darmi un’ occhiata, se mai avessi avuto bisogno di lui. 

   Così, giorno dopo giorno, attraverso le sue parole, mi accorsi dell’incanto della montagna. Dei suoi  boschi.

Ne scoprii  anfratti, sentieri, slarghi, radure. Imparai a leggere, nel respiro del vento,  il linguaggio delle fronde. Di quella infinita serie di grandi e piccole bestie che si annidavano in ogni centimetro di quell’universo verde.

Giunse poi una stagione di gelo. Mia nonna decise che troppi inverni si erano deposti sul suo tetto. Quell’anno, nessun fuoco l’avrebbe scaldata. Quando il gelo entra dentro, nelle vene, non c’è fuoco che possa scaldarti. Allora, è il tuo tempo. Devi lasciare  che la natura faccia il suo corso… 

   Quella sera, l’ultima di un algido febbraio, avevo la sua mano di nodi e vene azzurre e spesse, tra le mie. La sua testa voltata verso la grande finestra, il respiro breve.

Una patina velata le si poggiò sulle pupille. Guardava ancora oltre i vetri.

Non sembrava triste. 

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