Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XVII^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2012 per un racconto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
SONO ITALIANO ANCH’IO Di PAOLO VOLPATO ROMA |
Un sibilo che assorda. E poi lo schianto. La trincea pare crollare sopra la testa, una pioggia di sabbia, terriccio, fanghiglia, si abbatte sulle spalle incurvate. Istintivamente le mani sono andate a coprire l’elmetto, la posizione fetale richiama il primo alito di vita, potrebbe essere un vento di morte. Non questa volta. “Anto’, tutto bene?”. Il giovane alpino abruzzese dà una manata sulla scapola del commilitone. Antonio sembra appoggiato alla feritoia, ma il colpo lo fa cadere a terra. Un pezzo di ferro rovente gli penetra la fronte, il viso una maschera di sangue misto a terra. Giovanni lo fissa inebetito. Alla morte non ci si abitua mai. Un portafoglio fa capolino dalla giubba. Il tempo di prenderlo e metterlo nella tasca dei pantaloni, che arriva trafelato un giovane ufficiale, vecchio di guerra e di vita. “Alpino, porta questo messaggio al Colonnello. Mi raccomando, corri che qui stiamo morendo tutti!”. Il saluto alla visiera, un frettoloso sbattere di tacchi, e Giovanni è già fuori lungo il camminamento che porta alle retrovie. Proiettili vaganti, pezzi di roccia, piccole schegge impazzite sembrano inseguirlo come sciame d’insetti. Ma lui corre più forte, quel biglietto che stringe con forza nella mano è anche un salvacondotto per la salvezza. Bussa ansante alla porta della baracca di legno addossata alla roccia. Intorno si agitano alpini, fanti, barellieri con il loro tragico carico di dolore, i muli trasportano lenti e indifferenti i loro carichi. Un attendente lo fa entrare nello stanzone. Attorno ad una grande carta geografica appoggiata su un tavolo alcuni ufficiali discutono animatamente, mentre il colonnello ascolta pensieroso. “Comandi Signor Colonnello! Da parte del Capitano”. L’ufficiale, la stretta divisa che a fatica contiene l’evidente rotondità del corpo, si stacca dal tavolo e gli va incontro. Preso il foglio, un lampo gli accende lo sguardo. “Grazie alpino. Vai a prenderti un bicchiere di vino in mensa. Per oggi puoi riposare in attesa di nuovi ordini”. Giovanni saluta con foga, contento di aver compiuto bene il suo dovere. Uscito, a passi lenti si porta alla tenda dove i cuochi stanno preparando le casse di cottura con la pasta per la truppa. Toglie l’elmetto, sotto ha il cappello degli alpini. Un inserviente lo guarda con un sorriso malizioso. “Che vuoi alpino!”. “Il Colonnello m’ha detto che pozze pijà nu bicchiere e vino”. Uno sguardo di sufficienza accoglie le sue parole. “Senti, ne raccontano tante tutti i giorni per un bicchier di vino. Comunque, voglio crederti, solo per non rompere le balle al comandante. Vieni qui, meridionale, prendi questo e vai via”. Un mestolo di liquido rosso annacquato riempie il gavettino che il giovane soldato allunga verso il cuciniere. E’ già qualcosa, Giovanni è troppo giovane per poter reclamare, con la mafia della cucina poi si perde sempre. Prende una pagnotta da un sacco abbandonato e si allontana in silenzio, alla ricerca di qualche metro quadrato di erba libero dalla guerra. Si apparta sotto un larice. Sedendosi sente un fastidioso ingombro frapporsi tra la sua natica e il terreno. Dalla tasca posteriore del pantalone tira fuori un portafoglio, è quello di Antonio. Nella concitazione si era dimenticato di averlo preso. Che fare ora? Aprirlo? Antonio era un amico. Più anziano di lui, abitava a pochi chilometri da dove stavano combattendo, bestemmiava per la sua terra, trepidava per la sua famiglia. Lui era diventato la sua famiglia, come accade in guerra, quando ci si aggrappa all’umanità per ricreare una parvenza di vita normale. Consigli, prediche, anche rimbrotti, in un miscuglio di dialetti e di italiano stentato, i due si erano capiti quasi subito. Forse, più che le parole erano i silenzi a farli incontrare. Giovanni apre il portafoglio. Pochi soldi, una fotografia di donna con bambina, già mostrata con orgoglio nelle lunghe ore in trincea, una lettera sgualcita. Il giovane soldato sa leggere. Il parroco abruzzese gli aveva insegnato a suon di sberle un po’ di grammatica e lo aveva tenuto sull’abbecedario nei lunghi pomeriggi nevosi d’inverno. Chissà cosa aveva visto in lui, oltre al chierichetto che lo aiutava a dir messa, forse il mezzo di riscatto della sua terra, ricca solo di sudore e di emigrazione. “Caro Antonio, noi tutto bene, così spero di te. La Marta cerca el suo papà, gli ho dito che è a salvare l’Itallia. Nono Bepi mi a iutato al primo taio, abiamo tanto fieno e tanta erba medica. Però una triste notisia, abiamo dovuto vendere la bestia al’esercito che dicono che avete poco da mangiare. Mandaci i schei cussì posiamo comprare una manza per dare il latte alla Marta. Non ti preocupare di noi, fai sempre il tuo dovere che così magari ti mandano a casa prima. Sono sempre la tua devota e afezzionata Angela”. Il pensiero dell’alpino corre repentino alla casa, alla sua famiglia, alle lettere che, in un italiano incerto come tutte le altre, riscaldavano le lunghe ore di guardia in trincea. Povero Antonio. Una figlia lo avrebbe aspettato ancora per tanto tempo, prima di capire che il papà non sarebbe più tornato. Vedeva in lei la sorellina Addolorata, un nome che è una biografia già scritta. Stessa povera casa, stesso vestitino rammendato, stesso destino di lavoro sui campi. La tensione, l’ora calda, forse il vino, Giovanni prende sonno. Profondo, senza sogni, come solo una vera stanchezza sa regalare. Una sensazione di caldo, di umido, lo sveglia. Qualcuno lo sta scuotendo con un enorme bacio che neanche le signorine delle case riescono ad inventare. Apre gli occhi e incontra occhi ancora più grandi, un naso enorme è appoggiato alla sua guancia, una lingua ancora più lunga cerca il sapore lasciato da quella specie di vino. “Per la Majella!”. Salta in piedi e fa un balzo all’indietro. La giovane mucca lo guarda sorpresa, non capisce lo stupore di quell’uomo che somiglia tanto al suo giovane padrone. Volta il capo e si mette a brucare un po’ d’erba. “E te che ci fai qui?”. È assurdo parlare con una vacca, non per chi con gli animali convive quotidianamente, spesso unica compagnia in desolate giornate di silenzio. Giovanni gli gira attorno, si guarda attorno, ma non vede nessuno. Com’è possibile che una bestia così sia sfuggita alle bombe, alla requisizione, alla fame di migliaia di uomini. E viene facile per quell’uomo pensare ad un segno del destino, ad un intervento Superiore, alle tante preghiere dette con il cappellano, al lontano Santuario della Madonna Nera che ogni estate doveva raggiungere con fatica a piedi. Un segno che ricollega ai tanti eventi di quella giornata: la morte di Antonio, il vino del comandante, la lettera, un’altra mucca venduta e da ricomprare. Ora che l’aveva trovata, ci penserà lui a dare una vacca a quella famiglia. In fondo, non erano tanti i chilometri da percorrere. Toni abitava ai piedi di quelle montagne, pianura da coltivare, bestie da allevare. Giovanni accarezza delicatamente il giovane animale sul muso, sulla stella che impreziosisce le acerbe corna. Guardandosi attorno, scorge delle corde, forse i residui del traino a braccia di qualche pesante cannone. Avevano trainato uno strumento di morte, ora dovevano portare la vita. Una sensazione strana lo pervade. Gesti antichi, lasciati ad una precedente vita, tornano alla memoria con una facilità emozionante. Fare un nodo, stringere una corda, guidare una bestia, doverle cercare da mangiare e da bere prima ancora che a se stesso. Un senso intimo di felicità lo prende, gli da un’euforia che non gli permette di valutare i rischi a cui andrà incontro. Pensa di partire subito, confidando nella notte. La giovane mucca lo segue docilmente. Sembra capire i sentimenti di quell’uomo, una strana sintonia si è stabilita tra i due esseri viventi. Una luna piena e inusitatamente luminosa rischiara il grande bosco di larici. Decide di seguire una piccola pista che si insinua nel bosco, più facile così sfuggire ai controlli delle poche grandi vie di accesso all’altopiano. Mentre scende, pensa di dare un nome a quella nuova compagnia. È femmina, trovata per caso, inviata forse dal Cielo. Troppo facile il nome che sale alla mente, ma semplice come la vita che da mille anni i contadini abruzzesi conducevano per strappare il pane alla poca terra coltivabile. Maria, l’avrebbe chiamata Maria. “Dai Marì, abbiamo ancora un bel po’ di strada per arrivare a casa”. Si faceva coraggio parlando con Maria. Sottovoce, quasi bisbigliando, inizia a raccontarle della sua casa, della sua famiglia, della sua lontana terra d’Abruzzo. Della neve che d’inverno copriva i sassi della sua terra, di Addolorata, la sorellina che amava tutti gli animali, di Leone, il cane pastore che aveva salvato il gregge dai lupi. “Marì, Leone difenderebbe pure a te!”. La rassicura, e il ricordo rassicurava anche lui. Il bosco terminava e il primo raggio di sole li colpisce improvvisamente, quando a breve distanza le rovine di Gallio appaiono ai loro occhi. Cosa fare ora? Potevano essere scoperti, la strada era ancora lunga, le immediate retrovie piene di militari italiani, ancora storditi dall’offensiva austriaca che aveva tolto loro più di qualche certezza. Si fermano a riposare, mentre la strada si anima. Un traffico via via più intenso, nel quale inserirsi come un qualsiasi soldato impegnato in uno dei mille e confusi ordini. La decisione arriva ancora una volta istantanea: “Iamme Marì”. Giovanni si insinua nella strada con Maria attaccata alla corda. Per sua fortuna in quel momento passa una colonna di salmerie composta da muli, carichi delle casse di cottura che avevano svuotato nella notte il loro contenuto nelle avide gavette dei fanti di prima linea. Si accoda. Chi poteva far caso, nel caos, ad un piccolo alpino con una mucca? Camminano per qualche ora prima di arrivare in pianura, sulle rive del Brenta. Alle porte di Bassano lascia la colonna. Meglio proseguire per i viottoli di campagna. Dopo mezzogiorno un piccolo contrattempo. Ad uno dei tanti incroci con le strade maestre un fante di guardia lo ferma. “Dove vai alpino?” “Portu la vacca a la stàlle”. “E chi ti ha dato l’ordine?”. “Lu culunnello”. “Ma come parli? Voi meridionali non si capisce niente. Va, va, se no mi tocca mandarti in galera”. Un’alzata di spalle, la mano alla visiera, e Giovanni prosegue per il suo cammino. Lo stanno aiutando a trovare la strada le tante tabelle in legno che indicano i comandi, gli accampamenti, i grandi depositi. Ormai è sera. L’ultima luce illumina il campanile del paese di Antonio. Lo sovrasta un’altissima montagna. È il Grappa, incute rispetto al giovane alpino. Un brivido gli percorre la schiena, quasi un presagio. Entra in un’osteria. Un uomo al bancone gli indica un casale con un grande olmo. Giovanni percorre gli ultimi metri che lo separano dalla casa di Antonio pensando a cosa avrebbe dovuto dire alla moglie del suo amico. La verità? Gli avrebbero creduto? Ormai è là, non può più tornare indietro. Entrando nell’aia, un piccolo bastardino inizia a saltargli attorno abbaiando, per poi tacere alla vista della mucca. Una luce si accende alla finestra. Bussa al povero uscio. Una bambina urlante corre ad aprire. “Mama, xe tornà el papà!”. Angela è subito dietro la bambina, si sente svenire. Ma quando vede Giovanni alla porta, con il cappello alpino in mano, il lieve sorriso diventa freddo sospetto. “Chi sei?”. “Mi chiamo Giovanni. Sono un amico di Antonio”. “Dov’è Antonio?”. L’alpino abruzzese non riesce a parlarle di morte. Ma tra persone semplici le parole non servono. Le lacrime iniziano a scendere dagli occhi della giovane madre. “Ha sofferto?”. “No, una scheggia di bomba”. La donna si stringe al petto la piccola, che intuisce che qualcosa di terribile avrebbe per sempre cambiato la sua giovane esistenza. “Signora, non sono capace a fare tanti discorsi. Questo è il portafoglio di Antonio. Mi aveva detto della vacca”. Si scosta dalla porta e lascia vedere la vitella che sorniona aspetta di entrare in scena. “Questa è vostra. Ve la manda Antonio. E anche la Madonna”. Dietro la donna si materializza un vecchio contadino. Una ruga ancor più profonda delle altre solca la sua fronte. In silenzio mette il cappello di paglia, prende la corda e porta la mucca sul retro della casa. “Si chiama Maria. È bbona. Farà tanto latte per la figlia vostra”. Angela è sopraffatta dalle emozioni, ma trova un attimo di lucidità. “Volete qualcosa da mangiare? Voi non siete di qua”. “Sono abruzzese. Grazie, ma devo andare subito in linea. Ho fatto questo solo per Antonio. È state bbuono con me”. I due giovani si guardano nel profondo degli occhi. La vita passa loro davanti in un lampo, la vita passata, forse quella che poteva essere la vita futura. “Arrivederci”. “Arrivederci”. Giovanni si rimette il cappello, fa il saluto militare ed esce dalla loro vita. Aveva raggiunto il suo obiettivo, ora Antonio era contento lassù. Non restava che tornare di corsa in trincea. In fondo era passato solo un giorno, qualcosa si sarebbe inventato. Passi affrettati lo raggiungono all’uscita dal paese. È ormai notte. “Altolà! Chi va là!”. Giovanni si arresta di colpo. Un freddo sudore comincia a imperlargli la fronte. “Alza le mani e voltati!”. I due militari gli stanno davanti con le gambe divaricate e i ’91 spianati. “Cosa fai qui!”. Parla il più alto dei due, l’altro lo scruta in silenzio, nell’ombra. Giovanni non sa cosa dire. Forse la semplice verità lo avrebbe salvato. “Sono andato dalla famiglia di un amico alpino, morto vicino a me”. “Dove sono gli ordini?”. “Non li tengo”. L’altro militare esce dall’ombra. “Ma come ti parla? Sarai mica uno di quei siciliani che i scappa dalla prima linea!?”. “Magari hai pure rubato il cappello da alpino ad un morto! Infame!”. Giovanni si rende conto che la situazione sta peggiorando. “Ma che dite! Sono italiano anch’io”. Il milite più alto prende in mano la situazione. “Questo lo decidiamo noi. O il plotone di esecuzione”. Gli occhi del giovane alpino cercano una via di fuga. L’istinto atavico di scappare, dai banditi, dai saraceni, dalle guardie del papa, dai bastoni dei signori, prevale. Inizia a correre sulla ghiaia che il chiarore della luna rende iridescente. Un colpo di fucile lacera il silenzio della notte. Giovanni si arresta di colpo. Per un istante sembra levare una preghiera al cielo. Crolla a terra. Sul verde della giubba, una macchia rossa si allarga fino ad arrivare ai bianchi sassi della strada.
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