Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XVII^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2012

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

QUESTIONI ATTORNO AD UNA LAPIDE

DI LUIGINO BRAVIN CONEGLIANO (TV)

Prima dell’alba, di quel giorno di metà gennaio del’43, l’artigliere alpino Giuseppe Bortot si liberò dal grumo di coperte nel quale si era racchiuso come un baco nel bozzolo; era ancora buio e sul retro dell’isba, dove aveva trovato riparo, forse un pollaio disabitato, c’erano solo due fagotti stesi accanto a lui.

“Fra’svegliati” disse rivolto a quello più vicino.

Non ci fu risposta.

“Sacranon, guarda che gli altri stanno andando via, muoviti!”

Neanche l’altro fagotto diede segni di vita. Allora il Bortot si inginocchiò a fianco del suo paesano, quello che aveva incitato per primo a muoversi e si abbassò per sentirne il respiro; si udiva solo un alito di brezza leggera che si stava spegnendo. Sfagottò l’altro compagno e lo auscultò. Dalla sua bocca non usciva più nulla.

“Sacranon l’è morto”.

Prese il compagno che ancora respirava, se lo caricò sulle spalle: uomo più fagotti, più zaino e coperte varie. Il Signore era stato parco nel dotare Giuseppe di arguzia, ma aveva abbondato in forza fisica e coraggio.

Nell’isba, alla quale era addossato il pollaio, non c’era più nessuno; solo paglia sul pavimento e un fuoco che stava per spegnersi nel camino.

Rimase accanto al compaesano morente, cercando di farlo bere dalla gamella che aveva messo vicino al fuoco, perché l’acqua si scaldasse. Giuseppe non aveva altro con se, solo la pietà scritta in una tradizione di solidarietà contadina vecchia di generazioni.

Quando il compagno smise di respirare Giuseppe gli prese il portafoglio per portarlo alla madre. Cercò nello zaino del morto tutto quello che poteva essere commestibile e lo sistemò nella sua bisaccia, compose il corpo con le mani incrociate sul petto, si fece il segno della croce, recitò un requiem aeternam e uscì nella tormenta. La lunga colonna di derelitti era andata avanti ed egli era solo. Si incamminò seguendo la pista sulla neve, ma venne buio e la perse. Si fermò la notte sotto un gruppo di abeti, mangiò alcune gallette e succhiò la neve, che certo non mancava attorno al suo improvvisato rifugio. Il mattino dopo una luce giallognola illuminò la steppa candida e una figura scura che camminava spedita verso sud.

Giuseppe Bortot conosceva a stento la geografia del suo comune e di qualche paese vicino al suo, dove era andato a morose, niente più. Sapeva solo che si trovava in Russia ma non avrebbe saputo collocarla nel mappamondo.

Di villaggio in villaggio, seguendo piste appena accennate e rotaie del treno, uscì da solo dalla sacca, ma molto più a sud del corpo di spedizione italiano. Rubando nelle isbe disabitate trovò dei vestiti civili che si affrettò ad indossare e, spacciandosi per muto e infermo di mente, camminando anche venti chilometri al giorno, a fine febbraio si trovò in una cittadina ben a sud di Kharcov. Si accampò da solo in quella che doveva essere una scuola; ad una delle pareti era appesa una carta dell’Europa nella quale riconobbe lo stivale.

“Sacranon – si disse – se vado dritto trovo i tedeschi, ma anche i russi e non passo di sicuro, ma se vado in giù trovo il mare e magari una nave che mi porta a casa”.

Fu così che, con vari espedienti, furbizie contadine, resistenza alla fame, incoscienza e coraggio Giuseppe Bortot arrivò, l’anno dopo, a bagnarsi i piedi nel mar Nero. Nel suo girovagare, senza mai lavarsi, se non sommariamente, né farsi la barba, con l’aspetto di un uomo primitivo, l’artigliere alpino Bortot arrivò ad Odessa. Si nascose in ogni anfratto, costruzione, magazzino dell’enorme porto e fu con un colpo di fortuna che riuscì ad imbarcarsi in una nave turca che portava minerale di ferro e carbone fino al porto di Varna in Bulgaria.

La storia di Giuseppe Bortot, che arrivò a casa nell’estate del ’45 a piedi, attraverso i Balcani dalla Bulgaria, intrufolandosi fra partigiani, tedeschi in ritirata, bande di disperati di ogni tipo, divenne presto una vicenda da raccontare anche da quelli che non l’avevano vissuta o che non avevano mai visto una carta geografica. Giuseppe Bortot che era scappato a Josif Stalin divenne per assonanza “Bepo Bafo”.

Non assomigliava al dittatore comunista ma, per andare incontro al nomignolo che circolava, Giuseppe Bortot si lasciò crescere due superbi baffi.

Una volta a casa non passò neanche un giorno di meritato riposo. C’era da mietere il grano, segare il foraggio, accudire le bestie e, alla sera, andare a morose. Prede difficili da cacciare: il suo carniere era perennemente vuoto. Con le donne non aveva fortuna e, vallo a sapere, come mai gli altri riuscivano a combinare, lui no.

Seguiva le ragazze dopo il vespro domenicale, assieme ad altri cacciatori come lui e fu in occasione di una posta davanti alla chiesa che individuò una bella morettina. Al momento di rientrare a casa, dopo che l’aveva seguita  a debita distanza per tutto il tragitto, ella gli sorrise con simpatia. Fu così che dopo due mesi di appostamenti e pedinamenti, sempre più ravvicinati, prese il coraggio e cominciò a parlarle. Capì subito che si sarebbero intesi, la simpatia c’era, mancava l’autorizzazione. Decise che era venuto il momento di parlare con il futuro suocero. Il colloquio consistette nella legittima richiesta da parte di Bepo Bafo e in una dichiarazione ultimativa del forse futuro suocero.

“Vedi, io Maria te la darei pure, però sua sorella Genoveffa è più vecchia e non ha il moroso. Se ti va bene ti do lei”.

Giuseppe Bortot sposò Genoveffa Bullò.

Quello che poteva diventare la tomba di due vite si rivelò un affare per entrambi. Si innamorarono pian piano e la sposa, che non era stata benedetta in quanto a bellezza, acquistò grazia e diventò sempre più interessante e appetitosa. I figli non arrivavano, ne mai arrivarono, ma lei, alle domande interessate e ai pettegolezzi ammiccava, facendo capire che Bepo non aveva nessuna colpa, anzi. Si prese la responsabilità della mancata maternità e fece in modo che il dubbio sulle possibilità di Bepo non sfiorasse la mente di chicchessia.

Arrivato sui quarant’anni Bepo Bafo cominciò a frequentare la sezione ANA del paese e, in poco tempo, diventò una presenza indispensabile quando si trattava di partecipare a qualsiasi progetto dove ci fossero lavori pesanti da fare. Anche Genoveffa portava il suo contributo: lei lavorava in cucina, preparava dolci, lavava le marmitte a festa finita e, con orgoglio, seguiva il suo Bepo a tutte le adunate provinciali, regionali e nazionali. La Genoveffa era sempre presente, magari in modo defilato, partecipava di cuore e teneva sotto controllo le intemperanze alcoliche del marito. Bepo aveva una forza bestiale anche a sessant’anni e pure una capacità di assumere libagioni fuori del normale.

Una adunata dopo l’altra li vide invecchiare assieme.

Erano diventati indistinguibili. La storia di Bepo Bafo e della sua fuga dalla Russia di Stalin la conoscevano in tanti; quando l’uomo la raccontava, lei, Genoveffa, assentiva, apportava qualche correzione e con il passare degli anni aggiungeva dei particolari. Un persona che li avesse ascoltati per la prima volta non avrebbe avuto dubbi: la ritirata l’aveva fatta anche Genoveffa; lei era una russa diventata in tanti anni italiana e Bepo poteva anche essere un parente di Stalin, che lo aveva tradito scappando in occidente.

Invecchiarono  lavorando la terra, andando a messa assieme e a tutte le riunioni e adunate degli alpini. L’unica cosa che Genoveffa non faceva era sacramentare come Bepo che intervallava imprecazioni di pura invenzione, con suppliche sentite e personali al Signore.

Arrivarono quasi agli ottant’anni, senza mai aver perso un’adunata, assieme e in concordia perfetta. Genoveffa e Bepo Bafo, indissolubili, interpreti primi di tutte le canzoni alpine, lei con la voce in falsetto, lui con il vocione tonante, orgogliosi e mai stanchi, rendevano ancora più sentite le feste della sezione alpini.

Alcuni giorni dopo aver compiuto ottantadue anni, Bepo si sentì male mentre lavorava nell’orto. Genoveffa lo trovò rannicchiato fra le piante di pomodoro.

Durò una settimana.

Convinsero il prete a fare il funerale di domenica, cosa ormai insolita, in modo che tutti potessero partecipare alle esequie.

Genoveffa espresse il desiderio di tenere  l’orazione funebre e, alla fine della messa, si mise dietro il microfono sull’altare, prima con l’aria titubante, poi, sempre più sicura, raccontò della vita  del marito e della sua; illustrò le grandi virtù e i piccoli vizi dell’uomo che l’aveva sposata di ripiego, perché raccontò anche quello. Genoveffa non si fece mancare nulla, suscitando nei presenti momenti intensi di commozione e scoppi di ilarità, poco consoni alla cerimonia e alla situazione. Ringraziò le  centinaia di alpini presenti e anche quelli scomparsi, che avevano apprezzato il marito per il suo buonumore e per l’aiuto che aveva dato in tante occasioni di altruismo. Alla fine, senza  aver versato una lacrima, Genoveffa fece una richiesta che commosse tutti i presenti.

“Non lasciatemi sola, fate conto che io sia Bepo, portatemi alle vostre adunante, alle vostre feste. Con fatica, ma pulirò le marmitte come sempre, ma vi prego, non lasciatemi sola!”

Scese dall’altare, raccolse il cappello alpino del marito, se lo portò al petto e, sola, tenendo una mano sulla cassa, lo accompagnò al cimitero.

Genoveffa Bullò vedova Bortot venne portata alle adunate degli alpini; poteva essere la nonna di alcuni di loro, li intratteneva volentieri con facezie, storie di adunate e naturalmente con il racconto della ritirata di Russia del Bepo.

Era la madrina della sezione, elargiva consigli ed era di sprone per tutte le iniziative; non iscritta all’ANA ma era come se lo fosse stata. A tutti gli effetti era un ascoltato consigliere.

Genoveffa si sentì male per strada. Sembrava un malessere leggero, invece  perse l’uso delle gambe, proprio lei che alle adunate marciava a fianco del suo Bepo, anche per sorreggerlo in caso di bisogno, perché in quelle occasioni il suo equilibrio, e se lo ricordava sempre con un sorriso, non era mai certo.

Quando si capì che la sua vita sarebbe cambiata totalmente, gli alpini della sezione lavorando il sabato e la domenica le adattarono il bagno, costruirono degli scivoli per la carrozzina e apportarono le necessarie migliorie alla casa per facilitarle la vita. Per ultimo le trovarono una badante, una donna di uno di quei paesi che Bepo Bafo aveva attraversato per tornare a casa tanti anni prima.

All’adunata di quell’anno, Genoveffa, badante e carrozzina, vennero caricate in corriera, entrambe alpine onorarie.

Quella fu l’ultima adunata nazionale.

Genoveffa Bullò vedova Bortot morì improvvisamente la  notte del due gennaio. Aveva appena assaggiato il nuovo anno, ma il destino non le aveva permesso di terminarlo.

Al suo funerale, gli alpini, anche di altre sezioni, erano talmente tanti che molti dovettero rimanere sul sagrato della  chiesa. L’orazione funebre venne tenuta dal presidente provinciale, come se il morto fosse stato un ufficiale superiore.

Genoveffa non aveva parenti prossimi e la sezione alpini si incaricò di sistemare le questioni ultime.

Bepo Bafo era stato sepolto sottoterra per sua espressa volontà. Diceva sempre:” Tutto quello che ho mangiato e bevuto è giusto che torni da dove è venuto”.

Genoveffa, si sapeva, voleva stare vicina al suo uomo anche di là.

Per gli alpini della sezione, ora, il problema era cosa scrivere sulla lapide.

In quella di Bepo era stato scritto in ottone dorato: Giuseppe Bortot e sotto  Bepo bafo reduce di Russia. Bisognava trovare una frase che li comprendesse entrambi.

Il direttivo si riuniva ogni mercoledì e all’ordine del giorno c’era sempre la questione delle parole da incidere sulla lapide, perché mai decisione fu tanto ardua.

“La lapide è unica e la parola coniugi ci deve essere”.

“Su questo siamo d’accordo”.

“In qualche, come dire, posto, la parola alpino deve comparire”.

Anche su questo erano tutti in sintonia.

“E la povera Genoveffa non era diventata forse uno di noi”.

“Si. Ma non si può scrivere alpina, sembrerebbe un fiore, e nessuno intuirebbe a chi o a che cosa si riferisce” obbiettò il linguista della sezione.

Subito ci fu chi, sacramentando, pensò di far mettere la parole: coniuge e alpino. “Si bravi! Ma lei non compare”.

 “Bepo Bafo era reduce di Russia e in qualche modo va ricordato”.

Su questo erano tutti concordi ma Genoveffa sarebbe stata tagliata ancora fuori.

“Mettiamo la parola al plurale: alpini e così li prendiamo dentro tutti e due”.

Fu convocata l’assemblea degli iscritti e la decisione sul plurale fu votata a maggioranza. Rimaneva la questione sul “reduce”.

“La Genoveffa non era reduce di niente”.

Mettere il termine reduce solo sotto il nome di Bepo avrebbe rovinato la simmetria della scritta e, anche su questo, furono d’accordo.

Quando dal fondo della sala si alzò la mano di Gaspare Bortot, cugino di Bepo e quasi coetaneo dei due defunti, memoria storica del paese e della sezione, si girarono tutti in attesa delle parole lente e misurate con le quali di solito interveniva.

“Lo dico ora, e che resti qua dentro. La povera Genoveffa ha sempre detto e fatto capire che Bepo era un fior di uomo e aveva ragione per tanti aspetti. Io so per certo che – e qui si interruppe – come ricordo della sua avventurosa e personale ritirata di Russia, della fame, dei patimenti, delle malattie superate i quei quasi tre anni, Bebi ebbe un problema che non vi dico o meglio – confidò sottovoce – non è mai stato buono a… – e non terminò la frase – adesso lo avete capito?”

Tutti zittirono, non ci fu neanche il brusio che era lecito attendersi.

Gaspare continuò.

 “Anche la povera Genoveffa ha fatto la sua personale ritirata di Russia, in silenzio ed è durata tanti anni, quelli buoni... E’ stata anche lei una reduce”.

Non servì un’altra riunione del direttivo, tutti avevano capito. All’unanimità fu votato che sulla lapide doveva comparire la scritta, beninteso in lettere maiuscole dorate.

 

 

 

 

CONIUGI

 

GIUSEPPE BORTOT                                                                       GENOVEFFA BULLO’

 

ALPINI E REDUCI