Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XVII^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2012 per un racconto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
COME IL CANE DI JACK LONDON DI KATIA TORMEN TRICHIANA (BL)
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Si destò di soprassalto, madido di sudore, ancora nelle orecchie quell’urlo senza fine. Si mise a sedere sul letto e attese che il respiro si facesse di nuovo regolare. Era tornato di nuovo, alla fine, nonostante anni di analisi, nonostante la pausa illusoria che gli aveva fatto credere di essersene definitivamente liberato. Sempre lo stesso, maledetto incubo. Faticò a trovare le ciabatte nel buio della stanza, poi andò in cucina e si versò un bicchiere di acqua di frigorifero. Sentì il liquido freddo farsi strada nelle viscere fino allo stomaco. Se lo avesse visto sua madre… “Ti verrà una congestione! Quante volte te lo devo dire di non bere roba fredda quando sei sudato!”. “Si mamma, va bene mamma!” - disse ad alta voce, e si versò un altro bicchiere. Aprì le imposte della finestra che dava sulla spiaggia e respirò l’aria salmastra e appiccicosa, tese l’orecchio al rumore delle onde che s’infrangevano sull’arenile. Solo le luci di qualche nave all’orizzonte interrompevano il nero della notte che annegava nel mare. Non era stato sufficiente fuggire fino a lì, lasciarsi alle spalle il passato e le cime innevate delle Dolomiti. I ricordi lo avevano seguito, pesanti come macigni e vividi come istantanee appena scattate. Per quanto ancora? Per sempre? No, non avrebbe potuto sopportarlo. Non ora che gli incubi erano tornati. “Devi affrontare i tuoi mostri”- gli aveva detto lo psicologo che lo aveva avuto in cura. Mentre guardava la luce del sole rischiarare lentamente quell’orizzonte che, nonostante tutto, non gli apparteneva, decise che lo avrebbe fatto.
A ogni tornante lungo il quale la macchina arrancava, avvertiva il suo animo farsi sempre più inquieto. Si era ripromesso, prima di partire, di non cedere al senso di paura e oppressione che di certo lo avrebbe colto, ma, stranamente, quello che sentiva era qualcosa di più simile all’eccitazione che alla nausea.
Una volta giunto sul piazzale della funivia rimase qualche minuto fermo con le mani strette sul volante prima di decidersi a scendere. Era presto, nemmeno l’ombra di turisti e villeggianti che di lì a poco sarebbero sciamati per prati e sentieri in cerca di refrigerio dall’afa opprimente della bassa. Aprì lo sportello. L’abbraccio dell’aria fresca precedette di poco quello dell’amico che lo stava aspettando. “Andrea! Che piacere rivederti dopo tutto questo tempo! Come stai? Qual buon vento ti riporta tra di noi? Devo ammettere che la tua telefonata dell’altro giorno mi ha proprio sorpreso! Ti fermi qui per un po’?” Andrea si aspettava il fuoco di fila delle domande, ma ci sarebbe stato tempo più tardi per rispondere. “Ho bisogno di te”- disse solo -“ Mi serve il tuo aiuto.” L’altro annuì con la testa: ” Sai che puoi contare su di me!” “Grazie, Mauro!” Solo allora alzò lo sguardo e fissò il volto del suo mostro: la grigia parete di roccia si ergeva verticale alla sua destra, altera e severa come una donna che sa di essere affascinante e con lo stesso, naturale, richiamo ammaliatore. Gli occhi dell’amico seguirono i suoi. “Vuoi andare su?” – chiese a bassa voce. “Devo”- rispose Andrea.
“C’è la ferrata Stefano, perché complicarsi la vita?”- aveva buttato là mentre lo osservava infilarsi le scarpette. “Seee, bella roba!”- gli aveva risposto il fratello -“ Buoni tutti così…E la soddisfazione dov’è? Il contatto con la pietra vergine, la sfida…Mi meraviglio di te, Andrea, non ti facevo così fifone!”. “Non è paura e lo sai! !”- aveva sbuffato aiutandolo con le corde - “ Trovo solo insensato andare in cerca di guai quando se ne può fare a meno, sembra che tu non voglia solo arrampicare, ma sfidare la sorte! Certe volte proprio non ti capisco!” Stefano aveva fissato il fratello. Era più giovane di lui di otto anni, era ancora un ragazzino, forse col tempo avrebbe capito. Avevano arrampicato spesso insieme, era stato lui il suo primo maestro e doveva ammettere che, probabilmente, entro breve l’allievo lo avrebbe superato, anche se era un po’ troppo tecnico e calcolatore per i gusti di un istintivo come lui. Quel giorno assieme ai suoi fedeli compagni di avventure Mauro e Silvia, si era proposto di arrivare in cima per una via diversa. “Perché non vai su con la funivia e ci aspetti in vetta? Il panorama è magnifico lassù e tu non ci sei mai stato! Poi scendiamo insieme!”. Andrea aveva scosso la testa. “No grazie! Oggi proprio non mi va, preferisco girare qui intorno e fare qualche foto, la giornata è splendida!”. L’altro aveva alzato le spalle e si era incamminato verso la base della parete seguito dal resto della truppa. Li aveva osservati per qualche minuto procedere in fila lungo il sentiero, poi si era messo la sua reflex a tracolla ed era partito alla ricerca di qualche soggetto da immortalare. Un paio d’ore più tardi aveva scorto i quattro puntini colorati ben oltre la metà del loro percorso. Aveva puntato l’obiettivo in quella direzione e il potente zoom gli aveva mostrato suo fratello in testa alla cordata. Lo aveva osservato cercare un appiglio sicuro, spostare il piede, infilare la mano nella sacchetta del magnesio. Aveva abbassato l’inquadratura e messo a fuoco gli altri, più in basso, che attendevano di poter salire a loro volta. Aveva provato una punta di rimpianto per non essere lì con loro. All’improvviso il campo inquadrato dalla fotocamera era stato attraversato da una macchia rossa e prima ancora di riuscire a capire cosa fosse successo gli era arrivato alle orecchie l’urlo. Distante ma nitido, un terribile lunghissimo grido che gli si era inciso nel cervello. Stefano aveva ventitré anni. Andrea decise che non avrebbe arrampicato mai più. “Perché non la prendi con calma? Possiamo salire domani o giovedì…Le previsioni hanno messo bel tempo per tutta la settimana!” Mauro lo osservava con aria preoccupata mentre si legava gli scarponi che poi avrebbe tolto all’attacco della parete. Andrea era arrivato solo ieri, forse non aveva ancora recuperato lo stress del lungo viaggio. “Ho aspettato anche troppo. Ho aspettato una vita. Avevo quindici anni Mauro, ora ne ho quasi trentuno e Stefano è tornato di nuovo nelle mie notti e io credo mi voglia dire qualcosa. L’ho supplicato di lasciarmi in pace, che io di montagne non ne volevo più sapere. Ma non funziona”. Sconsolato alzò gli occhi verso la cima. Poco dopo il funerale, aveva annunciato ai suoi che lì non ci voleva più stare. Nonostante le loro suppliche aveva lasciato la scuola, si era trovato un lavoro stagionale in una località balneare della Sardegna e lì era rimasto a vivere, circondato dall’acqua e lontano da quelle Dolomiti che fino ad allora lo avevano abbracciato maestose e materne. Aveva conseguito il brevetto di sub. Si era immerso nei fondali più belli del mondo, tra gli squali o i delfini. Nuotava in mare per ore la sera dopo il lavoro fino a sfinirsi per non sognare più montagne. Inutilmente Non parlarono durante il tragitto che li separava dalla base della montagna. Entrambi sapevano che l’andare per monti è fatto principalmente di rispetto verso ciò che stava loro intorno. Solo una volta arrivati all’attacco della salita, Andrea aprì bocca. “Sai se qualcuno ci ha riprovato ad aprire quella via?” L’amico scosse la testa: “ Cosa vuoi, non è un’ impresa di quelle che ti danno fama e gloria. Per noi, allora, era un divertimento, non cercavamo l’ impossibile, ma oggi è diverso…” Tacque, probabilmente ripensando ai tempi andati un silenzio gravido di rimpianti. “Ancora non me lo spiego sai?” “Cosa non ti spieghi?” “Perché tuo fratello si sia sganciato dalla corda. Poco prima ci aveva gridato qualcosa, una frase tipo… “provo a prenderla”, o qualcosa di simile, ma nessuno di noi ha capito cosa dovesse prendere lassù. Forse un fiore, anche se lo ritengo improbabile”. Andrea sorrise all’amico: “Non ha importanza, saperlo non cambierebbe le cose. Se sei d’accordo, vado io per primo” Mauro tentò di dissuaderlo: “Sei sicuro? E’ passato un sacco di tempo, magari sei un po’ fuori allenamento”. “Se non ti fidi allora salgo da solo!”- asserì l’altro un poco risentito mentre controllava l’attrezzatura. Annodò la corda all’imbrago con gesti che credeva di aver dimenticato e che invece gli risultarono naturali. Fece un respiro profondo e posò una mano tremante sulla roccia. Percepì una scarica elettrica attraversargli il corpo. Il contatto col freddo granito fece riaffiorare in lui sensazioni sopite ed emozioni represse. In quell’istante, senza bisogno di ulteriori conferme, comprese che in nessun luogo al mondo quelle montagne lo avrebbero mai lasciato perché erano parte di lui. Capì cosa provava suo fratello quando arrampicava, quando gli diceva che non era un modo di vivere, era la vita stessa. Sentì le lacrime offuscargli gli occhi. “Tutto bene?”- chiese Mauro preoccupato dietro di lui. “Sì tutto a posto! Andiamo!” Puntò il piede. Cercò un appiglio con l’altra mano e si staccò da terra. Nel giro di un minuto, fu lo stesso che se non avesse mai smesso di arrampicare, tutto gli veniva naturale le movenze erano fluide, il suo corpo allenato dal mare si trovava perfettamente a suo agio. Si sentiva bene come non succedeva da anni. Dietro di lui Mauro lo osservava progredire, felice nel vedere l’amico salire agile e sicuro. Mentre avanzava verso l’alto, Andrea si chiedeva, se le fessure nelle quali piantava i suoi chiodi erano le stesse utilizzate da Stefano o se il suo modo di arrampicare era così diverso. Arrivò, infine, al punto dove il chiodo c’era già. Quel pezzo di metallo era il muto testimone degli ultimi istanti di vita del fratello, oltre quel punto, lui non era andato. Per un attimo si sentì come perduto e temette di non farcela. Poi gli parve quasi di sentirlo che con i suoi modi bruschi lo esortava ad andare avanti e allora si sincerò della tenuta e vi si assicurò. Mentre attendeva l’arrivo di Mauro, si concesse di guardare in basso, per tentare di capire. Non vide nulla che potesse aver attirato l’attenzione di Stefano, d’altronde erano passati anni, di qualunque cosa si trattasse oramai non ve n’era più traccia. Ripensò a quello che gli aveva detto Mauro, a quella frase gridata agli amici in attesa, e improvvisamente capì. Tutto gli fu perfettamente chiaro.
Lo assalì una rabbia cieca che lo indusse a mettersi un pugno in
bocca per non gridare. La collera lo rese per un attimo cieco, e
cieco era stato quel giorno a non capire. Pure lo avesse fatto,
quando suo fratello si metteva in testa una cosa niente e nessuno
poteva farlo desistere. Si consolò col fatto che, comunque, era
proprio così che quel testone avrebbe voluto morire. Facendo quello
che amava fare. Inspirò profondamente un paio di volte e quando
sentì di aver ripreso il controllo,
si concentrò nuovamente sull’ascesa. Allora allungò il braccio dietro la schiena, mise la mano nella sacchetta del magnesio e poi lo sollevò in alto, ad accarezzare la roccia, a leggerne ogni rilievo, ogni scalfittura, come un non vedente su una pagina braille. Il suo corpo aderiva alla parete come a quello di una donna durante l’amplesso, solo la stoffa leggera della maglietta divideva la sua pelle dalla pietra, ma riusciva ad avvertirne ugualmente ogni sporgenza. Non c’era spazio per altri pensieri durante una scalata, la scoperta di poco prima rimase solo un rumore di sottofondo nella sua testa e si concentrò su ciò che stava facendo. Cercare l’appiglio, fondersi con la montagna, inspirare l’aria pura, salire verso l’alto. In vista della cima, ebbe piena consapevolezza che, come per Stefano, arrampicare era ciò che aveva sempre amato fare e che nient’altro, nonostante tutto, lo aveva mai reso così felice. Trovò infine il punto in cui solo il cielo stava sopra di lui. Si issò sul pianoro sotto gli sguardi curiosi delle signore con i sandali che ammiravano il panorama dal “belvedere” della funivia. Attese l’arrivo dell’amico e si sedettero uno di fianco all’altro ad ammirare il maestoso panorama che li circondava, in rispettoso silenzio. “Stefano diceva sempre: Mentre sali, credi di essere Dio. Quando arrivi in cima, ti rendi conto di non essere nessuno”. Andrea si voltò verso l’amico che annuì a conferma. “Ho capito cosa gli è successo” – disse tornando a portare lo sguardo all’orizzonte. L’altro lo fissò stupito: “Davvero? E cosa ?” “Dopo il primo tiro è salito in libera. Quando vi ha gridato che “provava a prenderla”, si riferiva alla corda che evidentemente gli era scivolata” “Stai scherzando? Ma non ha senso, era il primo di cordata! Ti sbagli di grosso, Silvia veniva dopo di lui, era la sua ragazza, se avesse visto la corda fuori dal rinvio…Oh mio Dio! Erano d’accordo! Lei lo sapeva! Ecco perché continuava a dire che era colpa sua! Io ho sempre creduto lo dicesse perché era stata lei a insistere per andare a scalare quel giorno” D’improvviso balzò in piedi e sotto lo sguardo esterrefatto dei turisti comincio a gridare: ”Vaffanculo Stefano hai capito? Vaffanculo! Tu e la tua voglia di strafare del cazzo! Che cosa volevi dimostrare, eh? Lo sapevi di essere bravo, lo sapevamo anche noi che eri il migliore, perché ?
Perchèèè! Se fossi qui ti prenderei a schiaffi …” poi si lasciò cadere a terra e con la testa sulle ginocchia si mise a singhiozzare come un bambino. Andrea rimase ad osservare le cabine rosse della funivia che s’incrociavano a metà del loro percorsi, ancorate ognuna al proprio cavo, destinate a sfiorarsi senza toccarsi mai. Suo fratello gli mancava,gli mancava terribilmente. Di certo, se tutto fosse andato per il verso giusto, al rientro gli avrebbe raccontato a bassa voce, col suo fare da spaccone, la sua grandiosa impresa. Conoscendolo, alla fine avrebbe aggiunto, fissandolo serio: “Tu non farlo mai!”
Sulla tomba, nel piccolo cimitero del paese, c'era una corda da scalata appesa alla lapide. Stefano si soffermò per parecchi minuti a raccontare, muto, al fratello quindici anni di assenza. Mauro lo aspettava poco più indietro, ancora frastornato. “Cosa farai, adesso? “- chiese all’amico non appena varcata la porta del camposanto. Andrea si voltò, osservò le cime che dietro i cipressi si stagliavano nella luce del giorno morente e pensò che era lì che, a tempo debito, voleva essere sepolto. Si ricordò di un libro letto da ragazzo. Narrava la storia di un cane, Buck, che alla fine, incapace di resistere al richiamo ancestrale della foresta, ritorna alle sue origini. Così gli parve di essere mentre, con voce ferma, rispondeva :”Torno qui!”
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