Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XVI^ edizione - Treviso, 6 Gennaio 2011 per un racconto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
Primo classificato |
Nemo
Di Tormen Katia ( Trichiana ) BL |
Si calcò in testa il cappello usando tutte e due le mani, poi girò il viso verso l’ingresso del cimitero. Rimase a fissare la croce di ferro sulla sommità dell’arco in pietra. “Ci rivediamo presto, Sergio…”- mormorò sottovoce, alzando impercettibilmente la mano a mo’ di saluto. Poi afferrò saldamente il bastone con la destra e si diresse claudicante verso la fermata dell’autobus. Un gruppetto di anziane donne vestite di scuro lo superò chiacchierando a mezza voce, alle sue spalle il rumore di portiere che si richiudevano e motori che si accendevano. Dovere compiuto: strette di mani e pacche sulla schiena a figli e nipoti e poi avanti con la vita di sempre. Anche lui sarebbe tornato a fare le stesse cose di ieri, trascinarsi lungo le interminabili giornate di un anziano solo, alzarsi, mangiare, fare una passeggiata, dormire. Lasciar passare il tempo. Ma sentiva di non averne più molta voglia, specie adesso che gli altri tre se n’erano andati e avevano lasciato lui, per ultimo, a spegnere la luce. Lui, Alberto Bonelli, classe 1920. Un reduce di Russia. Lo sentiva ancora, nelle lunghe notti insonni, il sibilo del vento della steppa; rivedeva gli uomini che si accasciavano nella neve alta e che nessuno aveva più la forza di tirare in piedi. E ripensava a loro quattro, addossati gli uni agli altri per non cadere, le teste basse per difendersi dall’aria tagliente, le rare parole pronunciate per darsi coraggio. Si erano divisi il poco cibo e i vestiti presi ai morti e quando ormai avevano capito che erano stati fortunati, che ce l’avevano fatta, si erano giurati amicizia eterna. Sergio, Tarcisio, Dario. E lui, quello miracolato, che ci aveva rimesso tre dita del piede ed era quasi morto per un’ infezione. Se n’erano andati tutti prima di lui, e ogni volta era stato come perdere un fratello. Ora non aveva più nessuno cui addossarsi per non cadere. Tese l’orecchio: l’imminente arrivo dell’autobus fu segnalato dal rumore del motore. Il rumore del motore delle camionette era ormai solo un ricordo. Le avevano abbandonate lungo la strada, senza carburante o con quel poco che c’era gelato nei serbatoi. Magra consolazione il vedere annullati tutti i privilegi. L’unico suono udibile era il crocchiare della neve sotto gli scarponi e le grida di chi invocava una madre, una moglie, un dio o tutte le cose assieme rendendosi conto che non ce l’avrebbe fatta, che tutto quel bianco lo avrebbe inghiottito. Avanti. Non c’era nient’altro da fare se non andare avanti, un passo dopo l’altro, un piede alla volta. Avanti… “Avanti! Signore…” Alberto si riscosse dai suoi pensieri. L’autista, la porta spalancata, lo stava invitando a salire. Afferrò il corrimano e si issò sul predellino, prima un piede, poi l’altro. Le porte si richiusero subito e il mezzo ripartì con uno scossone. L’ anziano si scusò a bassa voce e arrancò lungo il corridoio cercando di mantenere l’equilibrio. Trovò un posto quasi in fondo, di fianco ad una giovane donna che aveva preso in braccio suo figlio per far sedere lui. Il ragazzino lo guardò in tralice, poi accostò la bocca all’orecchio della madre: “Perché il signore ha la piuma?”- lo sentì bisbigliare. La risposta della donna fu semplice è concisa: “Perché è un alpino “. Non aggiunse altro e tanto al bimbo sembrò bastare. Alberto si tolse il cappello e se lo rigirò tra le mani. Accarezzò il panno verde oramai consunto. Se quella lunga piuma avesse potuto scrivere, quante pagine avrebbe riempito di storie, di vicende, di nomi? Gli sarebbe piaciuto mettere su carta le sue vicissitudini, ne aveva parlato qualche volta con gli altri tre, ma avevano sempre procrastinato, pensando forse, ingenuamente, di essere immortali. E ora che solo lui era rimasto non se la sentiva di assumersi la responsabilità di raccontare cose che, giocoforza, sarebbero state solo la sua versione dei fatti. Sentiva che ne sarebbe uscito qualcosa di incompleto, di falsato e poi, per dirla tutta, era consapevole di non avere a disposizione tutto il tempo necessario. Sarebbe stato solo un vezzo. A nessuno ormai interessava conoscere certe cose, non certo ai ragazzi come quelli che ora si stavano spintonando per salire, che probabilmente nemmeno sapevano chi fossero Levi e Rigoni Stern, cui la guerra sembrava solo una cosa da videogame o da film americani. Osservò i loro zaini firmati e le cuffie nelle orecchie, cosa potevano saperne della fame che ti serra lo stomaco e non fa ragionare? La Russia era per loro solo vodka e belle ragazze bionde. Bionde. Le due bambine avevano i capelli colore del grano maturo, mentre il maschio, un po’ più grande aveva i capelli scuri. Si nascondevano dietro le gambe del padre che, nell’angolo, teneva un grosso coltello puntato nella loro direzione. La moglie piangeva disperata accanto a lui. Tarcisio aveva alzato le mani subito dopo aver sfondato la porta ed aveva continuato ad avanzare verso il tavolo, consapevole che il povero contadino non lo avrebbe ucciso. “Fame, pane” ripeteva come una cantilena, e agli orecchi di quella gente le parole dovevano esser sembrate uguali. Sopra la tovaglia lacera una pagnotta scura e cinque piatti contenenti una brodaglia verde. Tarcisio si era seduto e aveva ingoiato una cucchiaiata di quell’intruglio senza staccare gli occhi dall’uomo armato. “Fa schifo” -aveva detto- “ed è pure bollente”. Una delle bambine si era messa a piangere. Alberto si era seduto a sua volta e aveva mangiato avidamente, sentendo il calore irradiarsi attraverso le viscere a tutto il corpo: da giorni non metteva qualcosa di caldo nello stomaco. Poi si era alzato, giusto in tempo per afferrare per un braccio il suo compagno che con la pagnotta nascosta sotto il tabarro stava per uscire. Tarcisio lo aveva fissato con gli occhi iniettati di sangue, da bestia, senza capire. Poi aveva spostato lo sguardo sulla famiglia nell’angolo e allora aveva diviso il pane in due pezzi e ne aveva lasciato uno sul tavolo. La donna vi si era gettata sopra. Mentre la guardava proteggere con il suo corpo ciò che forse avrebbe permesso ai suoi figli di sopravvivere ancora per un po’ era riuscito solo a mormorare “Scusa...” ed era uscito di corsa nel bianco. “Scusa…” …”Scusa!” Il bambino in piedi, gli fece capire che lui e la madre dovevano scendere. Alberto si rannicchiò un poco per farli passare e li vide faticare per aprirsi un varco tra i giovani che oramai avevano invaso il pullman saturandolo di urla parolacce. Cambiò di posto, spostandosi sul sedile interno e subito un ragazzo si sedette pesantemente di fianco a lui, voltandogli le spalle, forse nemmeno accorgendosi della sua presenza. Attirò sulle sue ginocchia una ragazza dai capelli tinti di viola e la baciò in modo plateale tra le urla dei suoi amici. Senza scollare le labbra da quelle di lei, le infilò una mano sotto alla maglietta. A disagio, Alberto guardava alberi e case scorrere oltre il vetro. La puzza di fumo degli abiti di quei due gli dava il voltastomaco e il loro atteggiamento ancora di più. Non era mai riuscito ad abituarsi all’ abitudine moderna di esibire ogni cosa, tanto meno i sentimenti. Un bacio era qualcosa di intimo fra due persone, non uno spettacolo pubblico! Un dono riservato alla persona amata e non un oggetto di cui fare collezione come si usava ora. “Che c’è nonno, nostalgia di quando lo facevi pure tu?” Ci aveva messo un po’ a capire che la frase era indirizzata a lui. Voltandosi, aveva incontrato la faccia da bullo di lui e quella di lei che a stento tratteneva un sorriso ironico. “ Scommetto che nemmeno te lo ricordi più come si da un bacio!” Un bacio a Rosa, il primo, glielo aveva dato alla festa del paese, di nascosto , dopo la Messa. Non avevano ancora dichiarato il loro fidanzamento e se qualcuno li avesse visti sarebbe stato molto sconveniente. Ma lui doveva partire e non voleva legarla con una promessa che forse non avrebbe potuto mantenere, almeno non pubblicamente. Però a lei lo aveva giurato “ Se torno ti sposo” e lo aveva fatto davvero: l’aveva sposata e ci aveva passato assieme cinquant’anni, fino a quando poi una malattia se l’era portata via. Il Signore non aveva dato loro la gioia di essere genitori, ma erano stati ugualmente felici, si erano voluti bene. Era stato il viso di lei che si sforzava di immaginare in mezzo alla steppa, quando non voleva vedere l’orrore troppo grande intorno a lui, quando cercava un motivo per fare ancora un passo. “Il mio bell’alpino”- lo chiamava lei. Anche in punto di morte lo aveva salutato così: “Ciao, mio bell’alpino…” “…bell’alpino, che sono , vero?” Si era di nuovo perso nei ricordi e non si era nemmeno reso conto che gli avevano tolto il cappello dalle mani. Con orrore vide un ragazzo esibirsi in pose da modello col suo amato copricapo in testa. “Ti prego, restituiscimelo” - disse timidamente -” Non vorrei che si rovinasse…” Quello, per tutta risposta, gli rise in faccia e, tolta la piuma con uno strattone, se la mise in bocca a mo’ di sigaretta tra l’ilarità generale. Il vecchio alpino sentì lo stomaco serrarsi. Si guardò intorno smarrito, ma trovò solo visi ghignanti e teste fisse in avanti, indifferenti. “ Per favore, devo scendere tra poco, ridatemi il mio berretto…” Alberto sentiva la sua voce tremare, la gola arsa. Era come se quei bulli tenessero in mano il suo cuore e non solo un semplice copricapo. Dov’era finito il rispetto per i più anziani? Improvvisamente si sentì come non si era mai sentito prima, nemmeno sotto le bombe nemiche:vulnerabile! In balia di un gruppo di ragazzotti viziati e ignoranti. Li avrebbe presi volentieri a schiaffi, se avesse avuto la forza di farlo! Invece li supplicò di nuovo: “E’ un caro ricordo, non me lo rovinate…” Quello che gli aveva preso il cappello sembrava il più spaccone: “Ah, si? E cosa ti ricorda? A me mi un vaso da notte!” - e così dicendo si appoggiò il cappello davanti all’inguine fingendo di pisciarci dentro. Alberto si sentì mancare. Si chiese se anche il bambino di poco prima sarebbe diventato così, se nell’attraversare quell’età di mezzo, dove l’innocenza è oramai scomparsa e la saggezza è una terra ancora tutta da conquistare, si sarebbe lasciato prendere dal coraggio del branco e trascinare da uno più carismatico degli altri. Un incantatore di serpenti che gli avrebbe fatto fare qualsiasi cosa, un novello Hitler, un piccolo Mussolini… “Mussolini è morto! Sta appeso giù in piazzale Loreto, fuori c’è un sacco di gente che sta andando là! Vieni?”. Alberto aveva alzato la testa dal pezzo di legno che stava pazientemente intagliando con un coltellino e aveva fissato suo nipote Diego, il figlio di sua sorella. “Davvero zio, è morto stecchito, gli hanno sparato! Saverio dice che la gente gli sputa addosso! Dai andiamo!” “Non ti permettere!”- lo sgridò Alberto -“Ai morti si deve portare rispetto sempre! Non sta a noi giudicarli. Se vuoi andare vai pure, io resto qui, non mi va di camminare, mi fa male il piede!”E così dicendo tornò al suo lavoro. Non appena sentì la porta di ingresso chiudersi alle spalle del ragazzo, alzò lo sguardo in alto: “E’ finita davvero?”- chiese. Poi si prese il viso tra le mani e pianse a lungo per le sofferenze patite egli amici che aveva perso. Aveva perso di vista la piuma, la sua bella penna nera che era stata l’invidia dei suoi commilitoni. La rivide con la coda dell’occhio, per terra, infangata ma per fortuna ancora intera. Si alzò e con fatica allungò un braccio per raccoglierla, ma quando ci era quasi riuscito uno scarpone nero vi si appoggiò sopra spezzandola. Ad Alberto mancò il fiato. Proprio in quel momento le porte dell’autobus si spalancarono e tra i corpi sudati intravide l’edificio squadrato della stazione. Afferrò il bastone e scese. Uno dei ragazzi lanciò il cappello che cadde ai suoi piedi. La piuma malamente piagata, stava stretta nella sua mano. Il mezzo ripartì schizzandolo un poco. La gente frettolosa non degnò di uno sguardo il povero vecchio dal viso rigato dalle lacrime. “Scusa signore, questo tuo?” La mano che gli porgeva il cappello impolverato era scura. Alberto alzò la testa e incontrò lo sguardo di un ragazzino africano che doveva avere pressappoco l’età di quelli che lo avevano schernito sull’autobus. I grandi occhi si rabbuiarono alla vista dell’espressione dolente dell’anziano:”Signore tu sta male?” “No non è niente”- lo rassicurò Alberto. Prese il cappello e tentò di rimettere al suo posto quel che restava della piuma. Il ragazzino esplose in un grido:”Alpino!Tu alpino!In mio paese alpini aiutato tanto me e mia famiglia! Vieni, vieni!” Lo prese per la mano e anche se riluttante, Alberto lo seguì con passo malfermo fino ad una panchina sulla quale altri tre ragazzi dalla pelle scura stavano fumando una sigaretta. “Alpino!”. Lo presentò il suo giovane amico e quella parola bastò a suscitare un applauso spontaneo e strette di mano. “ Loro no parla bene italiano, ma io dico anche per essi, anche se non so tuo nome, grazie alpino!” Alberto si sentiva frastornato: “Nemo propheta in patria”- bisbigliò a bassa voce. Il ragazzino fraintese: “Grazie, alpino Nemo!” Il vecchio sorrise e si frugò in tasca in cerca di qualche moneta, Trovò solo pochi spiccioli.”Mi dispiace…”-mormorò dandoli al ragazzino-“ Ho solo questi”. Ne ricevette in cambio un bacio sulla mano e un largo sorriso che gli scaldò il cuore. Avrebbe voluto chiedere quale fosse il paese natale del suo giovane interlocutore, ma una donna di mezza età si arrogò il diritto di prenderlo sotto braccio e trascinarlo verso la biglietteria. “Caro mio, deve stare attento a quella gentaglia”- lo ammonì -” Non hanno rispetto per niente e nessuno, mi creda! Con tutti questi immigrati senza dio, arroganti e ignoranti chissà dove andremo a finire…Una bella pulizia ci vorrebbe, non è d’accordo?”. “No, per niente!” –le rispose Alberto serafico ridendo in cuor suo della faccia allibita della donna E levando il cappello con la piuma mozzata rispose al saluto dei ragazzini dalla pelle scura.
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