- Torno tra
questi monti dopo tanto. I miei monti. Amati monti, un tempo. Poi
odiati, per anni. Ed ora, quasi dimenticati. Non del tutto,
purtroppo. La strada dell’oblio non ha funzionato. Per questo sono
di nuovo qui, ho deciso di affrontare i miei fantasmi ancora una
volta. Sono stanco di fuggire.
- Cammino a passo
regolare su questo sentiero che mi era una volta ben noto, in
silenzio attraverso il bosco, poi incontrerò i prati, e poi le
rocce. Sale dal terreno umido un odore misto di corteccia bagnata,
di muschio e di funghi. Mi ci inebriavo, da bambino. E adesso, mio
malgrado, l’aria fresca del mattino mi fa nuovamente stare bene.
- Sorrido, se
penso che portavo qui i bambini dell’oratorio ed organizzavo per
loro le più belle cacce al tesoro di cui fossi capace. Un sorriso
amaro.
- Verretto, la
mia prima parrocchia. Non ero parroco, ancora, solo un giovane
curato da poco uscito dal seminario. Ricolmo di vita, di poesia, e
grandi ideali. E, ovviamente, delle parole della Bibbia.
- Nemmeno il
vecchio Fotini riusciva a smorzare il mio entusiasmo. Ero convinto
che, in fondo, e malgrado le apparenze, anche lui condividesse il
mio ottimismo. Ovviamente, ho avuto modo di ricredermi. Fotini
parlava seriamente, ed io non l’ho mai saputo capire. Se ne è
andato prima che potessi dargli ragione. D’altra parte, non credo
gli importasse poi tanto che la gente gli desse ragione. Lui se ne
stava là, alla terrazza della sua baita, a guardare i monti col
suo vecchio cappello di alpino tra le mani. E quando lo andavo a
trovare, per scambiare due parole, mi guardava con tenerezza, e un
pizzico di compassione, forse. Come se fossi un lattante ancora
ignaro delle cose della vita. Mi piaceva parlare con lui. Avevamo
pensieri opposti, ma non mi sentivo mai giudicato.
- Amava la
montagna, Fotini, come me, ma in modo diverso. Io vi andavo
cercando la presenza di Dio, e in ogni sussulto della natura
trovavo segni del Suo amore per noi. Fotini vi andava cercando una
sua pace laica, e francamente non so se l’abbia mai trovata.
- Quando lo
conobbi era già anziano, e già aveva gli occhi di chi troppo aveva
vissuto, di chi troppo aveva visto. Doveva essere stato un tipo in
gamba, a suo tempo. Di quelli che il Monte Pietra lo scalavano in
poco più di due ore, quando a gente ben allenata ce ne vogliono
almeno quattro. Ma non mi ha mai parlato delle sue scalate, né
delle sue vicende in guerra. Potevo solo intuire dai suoi occhi,
quello che aveva vissuto. Ed ora so che intuivo troppo poco.
- La mia pelle si
sta piano scaldando al sole che ancora debole filtra tra i rami
degli alberi. Il bosco si va diradando. Il sentiero raggiunge i
prati, e lì, bruscamente, si aprono i monti alla visuale. Un
cerchio di monti che conosco per nome. La Cima Battisti, il Monte
Pietra, la Punta Corona, il Gruppo del Sasso Nero. E infine, di
fronte a me, alto e tozzo e possente come un gigante addormentato,
si staglia il mio monte, il Monte Cheto.
- Su questi prati
ci portavo i miei ragazzi a giocare a pallone. Le loro grida e le
loro risate non sapevano scalfire il silenzio della montagna,
anzi, erano tutt’uno con esso, erano semplici esplosioni di gioia,
che salivano al cielo come una preghiera. La preghiera fresca e
spontanea di una quindicina di adolescenti.
- Taglio dritto
tra i prati verso il primo ghiaione del Monte Cheto. A metà
strada, ritrovo il grosso sasso rettangolare che adibivo ad
altare, per dire messa coi miei ragazzi. E’ qui che ho insegnato
loro per la prima volta ad ascoltare la voce di Dio che si rivela
in un soffio di brezza leggera. Qui li ho invitati ad alzare lo
sguardo, rassicurandoli che Dio sarebbe sempre stato con loro. Il
Salmo 121 recita: “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà
l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, egli ha fatto cielo e
terra”.
- Purtroppo, a me
nessun aiuto è venuto. Nessun aiuto dai monti, nessun aiuto dal
Signore.
- Non avrei dovuto illudere quei ragazzi.
Forse avrei dovuto insegnare loro ciò che Fotini ripeteva. Ma
d’altronde, ero io il primo ad illudermi. Ho capito troppo tardi,
e a mie spese, il senso delle sue parole.
- Non mi guardava, Fotini, parlava come a se
stesso. Era quasi un sussurro, che veniva da molto lontano. <<La
montagna è come la guerra. E’ una realtà dove Dio non
interviene>>.
- Io seguivo il suo sguardo percorrere le
pareti del Monte Pietra, del Sasso Nero. Pareti bucherellate di
trincee. Ed immaginavo cosa vi potesse vedere il vecchio Fotini.
Sotto i suoi occhi, le trincee tornavano ad essere abitate da
soldati, e contro le pareti nude dei monti riecheggiavano nelle
sue orecchie gli spari, e i fischi delle bombe a mano. Seguivo il
suo sguardo e prendevano forma dentro di me i colori, le voci, gli
odori della guerra. Mi era facile capire il pensiero del vecchio
alpino. Come poteva anche solo intuire la presenza di Dio, tra
quegli orrori?
- Ma la montagna
era tutt’altra cosa. In montagna, mi bastava restare in silenzio
per sentire il respiro di Dio avvolgere ogni cosa. La Sua pace si
stendeva sui prati e tra i boschi, la Sua potenza abitava la
roccia, e la Sua gloria risplendeva nel cielo.
- Non trovo più
pace, adesso, né potenza, né gloria. Il cielo è distante, e la
roccia, che ho infine raggiunto, è fredda e asciutta. Tremano le
mie mani mentre mi aiuto a salire. Il sentiero lo conosco ancora.
Se chiudo gli occhi, posso procedere quasi senza esitazione. Ci si
inerpica per il ghiaione, dapprima, poi si costeggia la parete
tagliandola in orizzontale, e si riprende l’ascesa tra facili
roccette.
- Cento e cento
volte sono salito sul Monte Cheto. L’ultima volta, il 10 settembre
di trentacinque anni fa.
- Strano, come
qui il tempo sembra non essere passato. La montagna è rimasta la
stessa, immobile, uguale. Il sole è caldo come lo era allora, alto
nel cielo senza nubi, quasi rassicurante.
- Mi sento
destabilizzato. Non avrei pensato di ritrovare tutto così. In
realtà, non so che cosa mi aspettassi di trovare. Forse, di vedere
la roccia macchiata di rosso. O il sole oscurato. O che dalla
vallata riecheggiasse incessante un grido di sgomento.
- Avevo
dimenticato quanto questo luogo fosse così spietatamente bello.
-
- Fabio Mirani,
caduto.
-
- Questo il punto. Non scivoloso, non
difficile, a due passi dalla cima. Quel che è successo, non lo
ricordo esattamente. Inciampato, mi hanno detto. Dove, come, non
l’ho visto. Ho avuto solo il tempo di voltarmi per vedere i suoi
16 anni spezzati sparpagliarsi al vento. E poi, gli sguardi
atterriti degli altri ragazzi, e dopo quel grido, un silenzio
assordante.
- Non ho
celebrato io il funerale. Non avrei saputo cosa dire ai genitori,
ai famigliari, agli amici, e alla gente tutta della parrocchia di
Verretto. Non avrei potuto raccontare la storia di un progetto di
Dio che non capivo più io stesso, e in cui da allora ho smesso di
credere. Forse, avrei dovuto riconoscere di fronte a loro tutta la
mia colpevolezza, la mia imprudenza, la mia smisurata fiducia che
nulla avrebbe potuto succederci, perché il Signore vegliava su di
noi. Invece è successo. Forse avrei dovuto dire loro
semplicemente: “la montagna, come la guerra, è una realtà in cui
Dio non interviene”.
- Fotini avrebbe
dovuto dirmelo. Certo lo sapevo, che “in montagna la gente muore”.
Ma “la gente” non è un ragazzo di 16 anni che si chiama Fabio
Mirani, frequenta la terza superiore istituto tecnico, gioca a
pallone, suona la batteria e sogna un giorno di potersi lanciare
con il paracadute.
- Ora lo so, cosa vedeva Fotini quando
guardava la montagna. Ho scoperto che in paese non era un segreto.
Chissà perché, io non avevo mai chiesto. Ho saputo troppo tardi,
di lui, della valanga, del suo amico travolto.
- Fotini avrebbe
dovuto dirmelo, che la gente che muore in montagna ha un nome e un
volto. Non ci avevo mai davvero pensato, e alla luce di questa
seppure elementare rivelazione, non riesco a capacitarmi di come
queste morti possano in qualche modo avere un senso.
- Ora, qui dove
il sentiero si allarga di poco, hanno messo una croce di legno
scuro. Mi fa male rivedere la foto, di Fabio com’era allora,
capelli scuri e ricci, sorridente, scanzonato. La mia coscienza è
macchiata della sua scomparsa. E mi fa rabbia, che dopo una tale
tragedia il Monte Cheto abbia avuto il coraggio di restare un
luogo poetico e meraviglioso, all’apparenza incontaminato. La
roccia, grigia e chiara come allora, ha il sapore
dell’indifferenza.
- Dietro la
croce, decine di dediche tappezzano la cappelletta, e tra esse,
una cattura il mio sguardo. Mi basta vedere poche firme per capire
chi abbia inciso quelle parole. Non vorrei leggere, ma non posso
farne a meno. Leggo prima di potermi difendere. Le parole entrano
nella mia mente prima che io le possa fermare.
- “Signore
delle Cime, eravamo con Fabio quando l’hai chiamato a Te. Non ci
hai lasciato il tempo per dirgli addio. Le Tue vie non sono le
nostre vie. I Tuoi pensieri sovrastano i nostri così tanto, che le
Tue ragioni ci sfuggono. Ma alzando gli occhi verso i monti,
Signore, troviamo in Te conforto. Tra queste meraviglie del
creato, opera delle Tue dita, il nostro amico riposa. Dal cuore Ti
chiediamo: donagli la pace eterna, nel Tuo amore infinito. Gli
amici di Fabio.”
- Il mio respiro
d’un tratto si è fermato. Nessuna firma manca all’appello. Mentre
la mia fede vacillava, i miei ragazzi non hanno dubitato, Signore,
della saggezza del Tuo operato. Ed “alzano gli occhi ai monti, per
trovare in Te conforto”.
- Mi chiedo se, forse, il segreto non stia
proprio qui…
- Anche Isaia scriveva nel suo libro:
“Gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il Suo
popolo”.
- A me non riesce di gridare di gioia. Sono
così triste, da tanti anni ormai.
- Ma è così bella la vallata vista da quassù.
La montagna mi circonda di silenzio e di pace. Avevo dimenticato
quanto potesse innalzare lo spirito, ritrovarsi così,
semplicemente vicini al cielo.
-
- Nuovamente osservo la preghiera dei miei
ragazzi. Rimane uno spazio vuoto tra i loro nomi. Con mano
tremante, in quello spazio incido la mia firma.
-
- Sulla pelle, solo un soffio di vento.
-
- Signore, se puoi, consolami.
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