Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XV^ edizione - Arcade, 5 gennaio 2010 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
La cattura
di Laura Vicenzi
Bassano Del Grappa ( VI ) |
“I gendarmi sono alle porte del bosco. Respiri d’ansia trattenuta a stento muovono l’aria buia. A ben guardare, dall’alto, i loro passi lasciano strane scie, orme di fosforo, luci blu. Il lampione lunare aiuta la loro ricerca, la caccia è aperta. La mia vita è ruzzolata dal crinale della retta via rotolando tra i rovi. Ho sulla pelle punti di tagli mal suturati, sbucciature recenti, vecchie cicatrici che rievocano le ferite inferte dal mondo. Ora, in balzi fuori controllo sto arrivando al greto del fiume. Vedo il mio corpo inerte andare verso la lama illuminata d’argento che scorre giù in basso, quella che ha tagliato in due la valle. Onde di paura salgono dal greto, condense nebbiose cancellano il paesaggio. L’acqua scura che attende il mio tuffo, un’onda imminente, pare attrarre come un magnete nero. Mi sento avvolto da coperte elettriche in corto circuito: scariche ad alto voltaggio violano una pelle sottile, indifesa e scuotono le reni con guizzi di pesce. La mente rievoca con immagini in stand-by il rito quotidiano che occupava i miei pensieri fino a poco fa al levare della notte: la sequenza di azioni mandata a memoria e ripetuta all’infinito per produrre la polvere clandestina. Ora vorticano riavvolti nel nastro pesi bilanciati, miscugli e tagli, attese d’essiccazione lenta ed immersioni veloci, baluginare di flash e lampi di pericolo. Non sono più solo. I passi furtivi si avvicinano, scivolano nel buio tra i cespugli, cani muti fiutano il nascere dei funghi del bosco, e cercano le mie tracce. Presto arriveranno fin qui. Non ho cercato una vita così. Mi ci sono trovato dentro, invitato a partire a pacche sulle spalle da amici di strada, trascinato fino alle porte dell’inferno da canti di sirena. Non amo i colori in bianco e nero della polvere clandestina. Mi sono sempre piaciute le tinte livide della notte e le ho cercate su antichi sentieri vestiti a nuovo, su strade illuminate dalle luci artificiali dei luna park. E’iniziato tutto da lì, con il biglietto omaggio per l’ultima attrazione, una giostra più bella, una diversa dalle altre. Conosco bene questa zona del bosco. Mio nonno era un contrabbandiere. Aveva lavorato in un polverificio autorizzato per anni prima che lo distruggessero i Tedeschi, poi si era fabbricato un pillo poco lontano da qui, lungo il torrente. La sua era stata una vita di sacrifici, un’esistenza presa a morsi. Che le guerre portino anche denaro e lavoro è una cosa risaputa. Di fronte allo spettro della fame, le prospettive della realtà si deformano, si dilatano in maschere ghignanti rendendo irriconoscibili le azioni del presente e le conseguenze del futuro. E’ lo stesso baraccone degli specchi che conosco bene anch’io, anche se per ben altri motivi. La produzione della polvere da sparo prevedeva delle fasi estremamente pericolose. Avevo immaginato spesso il nonno vestito di nero, in scenari cupi tra botti improvvisi a pestare misture illuminato da alte fiamme color inferno, tra i piedi i frizzi sguscianti di spiritelli bambini. La realtà del lavoro alla polveriera era senz’altro meno addolcita dallo zucchero dalla fantasia, più somigliante a brodaglia distribuita ad una mensa infernale. Mi sembrava di aver varcato da sempre quell’incrocio del tempo che aveva unito le nostre strade, e i nostri destini. Il faro di una pila sta tagliando in due gli arbusti qui davanti. Dietro mi è parso di intravedere due occhi blu, occhi buoni che certo amano di più il mare. Si sentono avanzare a passi serrati altri agnelli, un gregge che bracca il lupo. La donna che ho amato mi ha supplicato a lungo di smettere con i miei traffici. Mi pare di indovinare le sue pupille che mi seguono tra le luci che storcono lo sguardo lassù. Era bella,coraggiosa e generosa. Quando si è accorta dei miei frequenti tuffi nel mare inquinato dall’illegalità ha cercato di lanciarmi delle cime, di avvisare gli addetti al salvataggio, si è anche tuffata per raggiungermi, ma nel tentativo ha rischiato davvero di annegare e così poi, quasi in silenzio è sparita. Non si può volgere troppo a lungo le vele controvento: tirano, urlano di dolore e infine si strappano. Ad un certo punto è meglio richiuderle a pacchetto, come si fa alle cerimonie per i marinai caduti. E così è stato. Non si aspettavano che uscissi dalla macchia a braccia alzate. Mi hanno immobilizzato con una foga dettata dalla tensione, dalla paura delle ombre del bosco più che da un vero timore di me. Sono finito a terra a pochi centimetri da un ranuncolo addormentato. Ho sperato che non lo pestassero. E’ stata una notte lunga. Sopra di noi, tra i profili neroblu dei colli, si stanno richiudendo in boccio le stelle. Negli occhi ho ancora il luccichio della mia polvere clandestina, o forse sono finalmente gemme di lacrime”. - Ma è una vera meraviglia Alessio, è davvero bellissimo! Il racconto migliore del corso! Quella descrizione così coinvolgente della fuga... pareva proprio di essere lì con te, di avere il fiatone in gola, e quel parallelo col nonno contrabbandiere, poi, che espediente originale! Ma come hai fatto a pensare una cosa del genere ed a scriverla in così poco tempo? - - Mi è venuto di getto, mi capita a volte, l’argomento mi piaceva, sono stato fortunato -. - Bravo allora, i miei complimenti! Farò leggere il tuo racconto ad alcuni miei amici alla casa editrice, chissà che non ne venga fuori qualcosa di buono, non si sa mai!- - Grazie, adesso devo proprio andare. A giovedì.- Potevo dirle che quella che avevo raccontato era una storia vera? Che il motivo per cui l’avevo scritta così bene era perché in realtà era la “mia” storia? No, non volevo essere catturato un’altra volta. Una per tutte era bastata. Di prigionie e di marchi impressi a fuoco nelle carni ne avevo abbastanza. Otto anni d’inferno: tre prima e cinque dopo. E’ stata la mia guerra personale, una sequenza infinita di battaglie combattute senz’armi, quasi sempre in fuga, il corpo celato dal fuoco di fila in trincee di rovi, la pelle del cuore graffiata a sangue dal dolore e dal rimorso. Mi aveva salvato il nonno Augusto, lui e la sua montagna. All’uscita dal carcere non mi aspettava nessuno, solo la vita assurda di prima che finissi dentro. La mia famiglia mi aveva mollato da un pezzo, una resa impotente, non era più tempo di negoziare ed erano tutti stanchi di finire in ragnatele di trattative. Avevo portato con me l’ultima lettera del nonno, un fogliettino ingiallito che doveva essere rimasto a lungo in qualche cassetto che conteneva anche del tabacco da pipa, sopra, vergate a lapis tra i ricami impressi dalla carta regalo che aveva foderato il legno c’era scritto “Ti aspetto a casa. Il nonno Augusto”. Il papà di mio padre abitava tra i monti, lo ricordavo molti anni prima già vecchio, il corpo curvo dalla vita in su, un tronco annodato su se stesso, rammentavo abbracci che sapevano di legno e verde. La vita che aveva condotto l’aveva allontanato dal paese e dalle persone, l’aveva reso sconosciuto anche ai suoi figli che non lo cercavano quasi più, inquietati dalla maschera d’indigeno d’alta montagna che aveva sistemato sul viso. Era migrato dalla Toscana fin su sulle Dolomiti in un’età in cui la gente s’appresta a sbirciare cosa avviene oltre i cancelli delle case di riposo. Era sempre stato un uomo lupo, anche quando lavorava alla polveriera. A tratti gli affiorava negli occhi un animo randagio, un po’ come accade a me a volte. Il bosco era il suo migliore amico: lì tra gli alberi, aveva trovato la quiete. Si era avvolto in un panno verde muschio e circondato di una solitudine tenera, germogliata e resa nuova in un processo al contrario dal passare degli anni, un piccolo miracolo. Può capitare: entri tra gli alberi, penetri quasi tentoni quell’oscurità antica e per la strada accogli l’abbraccio buono della natura. Diventa difficile desiderare d’essere altrove, è lei a fornirti lesta il suo sostegno, a regalarti subito un bastone dritto e forte, di nocciolo o di castagno, pronto a sorreggerti, a difenderti, a lavorare per te. Quando vai per funghi quel remo instancabile, con un ritmo sapiente, efficace, sposta a ondate le foglie secche per far affiorare scrigni di tesori preziosi; quando vaghi tra i rovi perso nei ricordi nelle tue paure, lei ti rimprovera, ti graffia la pelle e ti rispedisce indietro, a tornare sui tuoi sentieri; quando cerchi riparo dalla pioggia il fitto ti accoglie sui suoi cuscini di muschio a colori, ti riserva un tronco cavo, circondato da sguardi di volpe ti fa sentire a casa. Il nonno aveva vissuto la guerra, ne era rimasta traccia nei suoi silenzi, il dolore aveva gli inferto colpi d’accetta ancora visibili nel tronco forte e asciutto. Nelle sue lettere mi raccontava che amava scendere in trincea, percorrere piano i camminamenti infestati da rami spinosi, sostare nelle fosse scavate tra le rocce, fermo, in ascolto del vento. Ora che sono qui gliel’ho visto fare per davvero. A volte stava via per ore, fino a notte inoltrata, passeggiava nei campi di battaglia travestiti a pascolo. Quando tornava a baita aveva lo sguardo di chi è andato lontano, di chi è appena rientrato da un lungo viaggio. La mattina che sono arrivato qui il sole era già alto, i miei scarponi bagnati dall’erba nuova si erano asciugati già da tempo, come le scie delle lacrime che avevo versato giù al torrente. Erano anni che non piangevo, quell’acqua canterina così allegra e pura mi aveva commosso, aveva fatto sgorgare un dolore che era annidato chissà dove, impigliato sottopelle nel reticolo spinato di nervi sempre tesi come corde di violino. Mi ha accolto Buck, il vecchio lupo del nonno, lui è rimasto sulla soglia, con la pipa in mano. Festeggiamenti sinceri, baci di cane, e un abbraccio senza sorriso, di quelli veri, mi hanno condotto a casa. Dentro sono stato avvolto subito da odori forti, buoni: legno e vecchia caligine, erbe appese a disseccare, il profumo caldo della polenta sul fuoco, un sole che viveva lì dentro. I vetri come occhiali appannati non lasciavano più vedere fuori: lo splendido panorama dei pascoli, le vette stagliate nell’azzurro erano diventati quadri inaccessibili, celati, se ne sentiva subito nostalgia. In città non è così. Acquari senza confini, le metropoli dilatano gli sguardi, accolgono i flussi delle maree, illuminano con un freddo neon i movimenti sul fondo. C’è sempre intorno un viavai da corrente alternata, un ronzio da radiolina impazzita che è impossibile fermare e che inquina i pensieri. Tra i monti invece regnano sovrane la solitudine e il silenzio. Il nonno ha ricondotto i miei passi su rette vie. Ora abito qui. Scendo spesso giù a valle, lo faccio per far provviste, e ogni tanto per spedire i miei racconti alla casa editrice. Laura, l’unica l’impiegata del piccolo ufficio postale del paese, mi ha chiesto se un giorno può venirci a trovare su in baita. Ho domandato il permesso al nonno Augusto e lui ha storto i baffi in un sorriso simpatico e gentile, di quelli che di solito riserva a Buck quando ne combina una delle sue. La montagna cattura, ti consegna le chiavi d’oro dei suoi tramonti senza obblighi né pretese. Sui monti gli animi feriti da battaglie perdute, mondati, disgelano l’inverno del cuore, tornano sereni e si lasciano catturare volentieri in prigioni liete di vento e nuvole.
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