Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XIV edizione - Arcade, 5 gennaio 2009 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
IL MIO TENENTE
di Pierluigi Fappani Rezzato (BS) |
- Gino alzati, andiamo! - L’implorazione giunge soffusa e rallentata al mio cervello, involontario protagonista di una personalissima moviola. Ma un’altra implorazione si sovrappone alla prima: - Svegliati Gino, non puoi fermarti, alzati, andiamo! - La stessa voce, bene o male le stesse parole e lo stesso tono, ma è un’implorazione che viene da lontano, da una grande distanza di spazio e forse di tempo. Tutto sembra così strano, quasi fossi immerso in una enorme nuvola di bambagia; tutto è sempre più lento. Tutto sempre più evanescente… Mani robuste mi scuotono e per un attimo mi risveglio. Rivivo la scena vissuta da poco; sono seduto come passeggero sulla 128 guidata dal Rocco, “il mio tenente”, come ancora lo appello per dileggio. La vettura prende a tutta velocità l’ennesimo tornante della strada che deve riportarci a casa. Glielo avevo detto al Rocco che era pericoloso, che di sotto ci sono dirupi di 50 e anche 100 metri, di andare piano; ma l’euforia per le magiche giornate trascorse insieme, complici certamente i troppi bicchieri, ha il suo effetto e provoca la tragica conseguenza: sfondiamo la debole protezione, un ultimo pensiero ancora una volta per il Marzio, poi il buio, le voci rallentate… Cerco di aprire gli occhi, ma fitte atroci che mi percorrono tutto il corpo mi gettano in un nuovo stato di abbandono. Non sento dolore, non dormo, percepisco tutto quello che mi succede intorno, potrei dire addirittura di sentirmi bene. La voce disperata, ma sempre più debole, di Rocco, incessantemente mi implora di aprire gli occhi, di alzarmi, che dobbiamo andare. La sua voce si confonde con le sirene dell’ambulanza che si sta avvicinando, e ancora una volta si sovrappone, come prima, quell’altra implorazione che sembra provenire da un’altra dimensione. E’ il più doloroso episodio della mia vita che si presenta nuovamente, che torna a tormentarmi, come tutte le notti. È il 1940, tra pochi giorni sarà Natale, fa freddo sui monti albanesi. Sono inginocchiato accanto al corpo immobile di Marzio. Rigido, coperto da un sottile strato di neve ghiacciata. In affanno, con mosse sconnesse, cerco invano di ripulirgli il cappotto, le pezze da piedi sbrindellate, gli scarponi usurati. Gli ripulisco il viso, fatico a togliere il ghiaccio che ha formato cento piccolissime stalattiti sulla folta barba e tra i capelli. Mi tolgo i guanti e prendo le sue mani tra le mie, lo accarezzo, gli parlo, in un disperato tentativo di fargli fluire nuovamente il sangue che oramai da troppo tempo non circola. - Gino vieni via di lì, alzati, andiamo, non c’è più niente da fare. È morto, capisci? È morto! - È il mio tenente che urla, mentre mi solleva di peso, consapevole che rischio il congelamento; sa che in un attimo potrei abbandonarmi ed addormentarmi per sempre, proprio come il Marzio. Dicono che è così che succede a meno trenta; passi dal freddo, all’indifferenza, al sonno, alla morte. Ma in quel momento non capisco, mi alzo e con la forza della disperazione sferro un violento pugno in pieno viso al tenente. - Vigliacco -, gli urlo, prima di finire stremato a terra rannicchiato accanto al corpo senza vita del Marzio. Sono due giorni che non tocchiamo cibo, che non facciamo altro che camminare verso nord, sul terreno impervio e ghiacciato. Un continuo susseguirsi di brevi e nervose arrampicate, di insidiose e ripide discese, con il costante pericolo di trovarsi faccia a faccia con un plotone di militari greci. Proprio come Marzio, che era partito con una piccola avanguardia due giorni prima; non mi perdonerò mai di averlo lasciato partire senza di me. Ora io e il tenente siamo tutto quello che è rimasto del nostro plotone. - Gino alzati, dobbiamo andare! - mi urla nuovamente aiutandomi ad infilare alla meglio i guanti per proteggere le mani sul punto di congelarsi. Mi afferra sotto le ascelle e mi trascina faticosamente, fino a che il ritorno di un briciolo di forza di volontà, mi permette di riprendere a camminare autonomamente. Ci arrampichiamo per poco più di un’ora sul crinale del monte Greves e dalla cima distinguiamo il piccolo accampamento della trentunesima, verso il quale siamo diretti. Alla nostra destra sbucano silenziosi, improvvisamente, il Rossigni e il Pezzi che erano di guardia su quel versante. Non fanno domande e ci trasportano in tutta fretta fin dentro l’infermeria allestita nella tenda grande, sul lato nord, mimetizzata tra il bosco e la neve. Un ultimo pensiero al Marzio, morto a poche centinaia di metri dalla salvezza, e perdo i sensi. La sirena dell’ambulanza si fa sempre più vicina. Rocco nel frattempo ha rinunciato a cercare di svegliarmi, o forse non ne ha più la forza. Mi abbraccia stretto e piange disperato. Le sue lacrime mi bagnano il viso; sono “calde e salate”. Ne avessi la forza scoppierei in una allegra risata, ma devo accontentarmi di sorridere dentro di me, ricordando che quelle furono proprio le parole usate dal Marzio il giorno del “grande castigo”, come scherzosamente continuammo a definirlo nei lunghi turni di guardia, che spesso dedicavamo ai ricordi giovanili. Frequentavamo la quinta elementare a Pezzaze, in Val Trompia, dove eravamo nati dieci anni prima, nello stesso giorno, a pochi metri di distanza, e dove eravamo cresciuti sempre inseparabili. Nei momenti dei giochi, tanti; nei momenti dello studio, rarissimi; nei duri lavori estivi tipici della valle: le bestie al pascolo, il fieno, il taglio della legna… Quel giorno, dissero poi in paese, l’avevamo combinata davvero grossa, io e il Marzio. Era primavera inoltrata e il Morina a fondo valle in quel periodo scorreva impetuoso, colmo d’acqua e ricco di trote. Ci eravamo dati appuntamento per le otto in punto dove iniziava allora la mulattiera per Pezzoro, io con un fiasco di vino nascosto a malapena nella cartella di tela; il Marzio con un grosso salame. Ci sentiamo adulti. Mettiamo in pratica con maestria la tecnica di pesca della trota con le mani, appresa la domenica precedente osservando i nostri fratelli più grandi. Alle dieci, più di trenta grossi pesci giacciono sulla roccia piatta accanto alla prima ansa, che copre parzialmente l’ingresso al nostro rifugio tra i faggi. Alle undici del salame era rimasto il budello, mentre il fiasco ce l’eravamo bevuto fino all’ultima goccia. Ci addormentiamo pesantemente, soddisfatti, sazi ed ubriachi fradici. Alla una i genitori, non vedendoci rientrare dalla scuola, preoccupati si rivolgono alla maestra Carolina ed angosciati dalla notizia che non ci eravamo presentati in classe quella mattina, iniziano le ricerche coinvolgendo i parenti e gli amici, ovverosia quasi l’intera popolazione della frazione. Ad avvistarci, grazie all’indizio delle trote in bella mostra, è proprio la maestra, che ancora oggi si diverte ad evocare l’episodio. L’angoscia dei genitori lascia il posto all’ira e al “grande castigo”. Riusciamo a contare settanta colpi di “stroppa”, mentre i parenti e gli amici tutti restano a guardare sadicamente soddisfatti per la punizione esemplare. Quindi ci lasciano a lenire il dolore nell’acqua fredda del fiume. Sia io che il Marzio vomitiamo per il dolore e per il vino bevuto; quindi le lacrime, trattenute fino a quel momento per orgoglio e fierezza da uomini veri, iniziano a sgorgare senza ritegno dagli occhi pesti. È in quel momento che l’inseparabile amico sentenzia: - Sai Gino, che le lacrime sono salate e anche calde? - Tanto basta perché il pianto si trasformi in riso incontrollato. E ora che sento le lacrime “calde e salate” del “mio tenente”, vorrei tanto poter ridere come allora. Ma Rocco si allontana, mentre qualcuno tenta di aprire l’auto con la fiamma ossidrica. Qualcun altro mi tocca con mano esperta. - È ancora vivo - esulta una voce femminile. Non c’è giorno in cui non chieda perdono a Marzio. A volte la sera, solo in casa, bevo anche quello che non dovrei bere, divento ancor più malinconico e rivivo per la centesima volta il tempo della mia giovinezza e quei maledetti giorni sulle pendici del Greves col mio inseparabile amico. Inseparabili dalla nascita; i giochi, la scuola, il lavoro nei campi… Insieme ai “tre giorni” della visita militare a Brescia - era la prima volta che vedevamo la città. Insieme a festeggiare il ‘18, conoscendo per la prima volta i piaceri della carne dalla Lorena, in vicolo Sguizzette. Ci arruoliamo nello stesso giorno. Insieme partiamo con la Julia per l’Albania. Lì ci troviamo col “mio tenente”, il Rocco, anche lui di Pezzaze, cinque anni più vecchio di noi; aveva studiato a Gardone e poi a Brescia. Il tenente, che di fatto quel giorno mi salvò la vita, nel prosieguo della guerra fu promosso capitano e poi maggiore. Per uno strano caso del destino restai con lui fino al momento del congedo. In quella maledetta guerra dovevo vederne ancora tante, di tragedie! Mentre la fiamma ossidrica apre la 128 come una scatola di sardine, rivivo rapidamente in successione le terribili scene di guerra di Sviniuka, di Kopanki, i terribili giorni della ritirata, Nikolajevka… Non ho più perso i contatti col maggiore, l’amico Rocco, il “mio tenente”, anche se da tempo si è trasferito a Milano per lavoro. Con lui mi ritrovo spesso e sempre, nonostante ben altri propositi, finiamo per passare lunghe serate di ricordi e malinconia. Mentre mi caricano sull’ambulanza che riparte a tutta velocità a sirene spiegate, rivivo la sua telefonata del giovedì: - Domenica è il ventesimo anniversario del Perati. Che ne dici di festeggiare degnamente? - E così ci ritroviamo al mattino del sabato, destinazione rifugio Bedole ed escursione sul ghiacciaio fino alla Lobbia Alta. Abbiamo entrambi una grande passione per la montagna. L’escursione è entusiasmante. Dormiamo al rifugio, la domenica è dedicata alla festa. Scendiamo in paese per la Messa delle undici e poi a pranzo dalla Rosina, come previsto. Riviviamo per ore gli episodi belli e drammatici, come sempre, come previsto. Mentre il vino scorre a fiumi, come previsto. Prima di alzarci barcollando sulle gambe malferme, una preghiera per ogni amico perso in guerra. Una preghiera per il Santini e il Rossi, colpiti dai cecchini la notte di Natale sul monte Topojanit; per il Cazzaniga, i fratelli Molteni, il Panza, il Bondi e tutti gli altri morti man mano assiderati e abbandonati nella ritirata; ed anche per il Guerino, che sopravvissuto alla campagna di Russia, morì per una caduta in montagna lo scorso anno mentre andava per funghi. Per il Filippini che si sparò un colpo alla tempia a Kopanki. Per Pavan e Zanni, falciati dalla katuscia a Sviniuka. E per tanti altri ancora, soprattutto per il Marzio, chissà se mi potrà mai perdonare. - Se ne è andato, non ci resta che pregare per la sua anima - sussurra la voce triste dell’infermiera, mentre il Rocco riprende cantilenando senza convinzione: - Gino alzati, andiamo…- Improvvisamente il mio corpo sembra rispondere al richiamo del mio tenente. Muovo le mani, i piedi, mi sfrego gli occhi che cercano di abituarsi alla luce e pian piano mi rimetto in piedi. - Ehi, sempre a battere la fiacca, tu. Alzati che è ora - esclama in tono scherzoso una voce familiare. Nello stesso tempo due forti braccia mi aiutano a rimettermi in piedi. Mi abituo alla luce e fisso incredulo e sgomento il militare che mi ha rivolto la parola e che ora mi avvolge in un abbraccio possente e delicato nello stesso tempo. - Marzio, ma sei proprio tu, come è possibile, ma cosa sta succedendo? - - Non fare tante domande e preparati. A proposito, ci sono alcuni amici che vorrebbero salutarti.- E così uno alla volta vengono ad abbracciarmi con affetto il Santini, il Rossi, il Cazzaniga, i fratelli Molteni, il Panza , il Bondi, il Pavan, Zanni e tanti altri dei quali non ricordo il nome; ed anche il Guerino, quello morto lo scorso anno scivolando in un dirupo cercando i funghi. Scarponi vibram nuovi e calzettoni di lana come avevo sempre sognato; divisa linda e ben stirata. Non è certo retorica se piango come un bambino nel vedere che tutti indossano il cappello con penne d’aquila come non ne avevo mai viste! - Tieni, dovrebbe essere la tua misura, con quel testone che ti ritrovi - mi dice Giuseppe, magazziniere al CAR di Bolzano, che vidi morire a Rossosc letteralmente maciullato da una granata. Mi consegna un cappello con lo stemma della Julia, con tanto di orgogliosa penna infilata nella nappina azzurra. - Ecco che arriva l’ultimo - sento esclamare, mentre il Rocco, anche lui, il “mio tenente”, si avvicina barcollando, incredulo. Anche a lui, in elegante divisa da ufficiale, viene consegnato un cappello identico al mio. Per un attimo mi perdo nell’osservare l’incredibile panorama che si apre davanti a noi. Vette innevate e ghiacciai candidi avvolti da una luce che profuma d’eternità. - In marcia! - si leva da più parti l’ordine. Una moltitudine di alpini si avvia, cantando note fin troppo conosciute: “… Su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne…”. Sono stordito, non capisco nulla di quello che sta succedendo, ma sono felice, canto e parto assieme agli altri. |