Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIV edizione - Arcade, 5 gennaio 2009

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

LE GIASS DU BERGER

 

di Adriana Robba

Cuneo

“Andiamo, bambini. Si fa tardi, dobbiamo raggiungere il rifugio per pranzo” “È vero che ci preparano la polenta?” “È vero che lassù vive un vecchio tutto solo?” “Una domanda per volta, bambini. Ci preparano la polenta e lassù vive un eremita, tutto solo in un giass.” “Maestra, cos’è un giass?” “Io lo so, il giass è un riparo” “Bravo, un riparo fatto di pietre, un giaciglio dove stavano i pastori quando portavano le bestie ai pascoli alti. Forse viene dal verbo latino giacere.” La serata trascorse allegramente attorno al fuoco, a cantare nel rifugio che profumava di resina. La notte non fu facile dormire, i bambini erano troppo eccitati da quella gita in valle Stura, che prevedeva tre giorni in montagna, lontano da casa, un rifugio per la notte e lunghe passeggiate di giorno, ma alla fine, uno dopo l’altro, cedettero al sonno. La mattina li aspettava una camminata verso il colle del Puriac e lungo il cammino avrebbero incontrato il vecchio. Ad un tratto ecco il giass, fatto di pietre annerite dal fumo e dal tempo, chiuso da una porta di legno scuro. L’uomo era seduto su un’asse sostenuto da grosse pietre, accanto alla porta del giass, intento a intagliare un bastone. Sdraiato davanti a lui dormiva un cane nero, un cane da pastore che si drizzò a quell’improvviso irrompere di vita e prese ad abbaiare. “Brau Buc. Ven ci.” disse l’uomo. Allora il cane si accucciò dimenando la coda e fissando i visi sorridenti e le giacche colorate. I bambini osservavano con curiosità il vecchio, che calzava scarponi consumati e indossava calzoni di velluto legati in vita da uno spago. Un cappello metteva in ombra il suo viso, ma non nascondeva una lunga barba bianca. Gli si fecero intorno, prima timidi, poi qualcuno osò fare la prima domanda. Avevano il taccuino e la matita tra le mani, pronti per fare la loro intervista. “Da quanto tempo vivi qui tutto solo?” “Cosa mangi?” “Quali animali incontri?” Domande facili, programmate in classe prima della partenza. Non era la prima volta che venivano a trovarlo, a volte gli studenti, a volte gruppi di turisti guidati da qualche accompagnatore. All’inizio lo avevano infastidito, ma ora non gli dispiacevano quelle interruzioni alla sua solitudine. Rispondeva, paziente, qualche parola in italiano, qualcuna in dialetto, si faceva capire. Aveva molte cose da raccontare. Una vita, quella dei montanari, dei pastori, che nessuno voleva più fare. Se ne erano andati tutti, abbandonate le case, i campi, la montagna si era svuotata. Lui aveva fatto il pastore fin da bambino, come suo padre. “Lou pastre se fài pus. Lou trabai ès dur… la puhia, lou vent, lou freit… la transumansa a pè..., ma le travai del pastre douna de bel moument.” 1 “Questo cane è il tuo unico amico?” chiese una bambina. “Lou chan per lou pastre ès couma lou bastoun per lou vièi. E la coumpania que fài!2 Ancora una domanda:“Sei vissuto sempre qui?”. “No, bambina, ho passato il confine e sono andato in Francia che avevo appena quindici anni. Quando sono tornato la guerra era finita.”

“Allora tu non hai combattuto” chiese un maschietto staccandosi dal gruppo. “Andiamo Federico, è tardi” intervenne una maestra. Quelle non erano domande programmate, avevano ancora un bel po’ di strada da fare prima del rifugio e il cielo si stava chiudendo. Il vecchio chinò il capo e riprese a intagliare il suo bastone. Era rimasto di nuovo solo con i suoi fantasmi. Sapeva che quando la luce del giorno avrebbe ceduto il passo alle ombre, sarebbero arrivati, come ogni sera, come accadde dalla prima notte di quel giorno in cui tutto il monte aveva sussultato sotto gli spari. Fin dal mattino le raffiche di mitra avevano echeggiato nel vallone, mentre saliva con una lettera nascosta sotto la maglia di lana ruvida. Stava per sbucare dal bosco di lanci quando percepì un tramestio di passi. Poco lontano si muovevano degli uomini, nella divisa dai colori inconfondibili: erano soldati tedeschi. Sorpresi da un’imboscata i giovani partigiani erano stati fatti uscire allo scoperto e ora, immobile dal suo nascondiglio tra i lanci, trattenendo il respiro, il ragazzo li vedeva allineati davanti al roccione. Vedeva il viso largo di Toiu, incredulo. Poi i colpi secchi delle fucilate, fissati per sempre nella sua memoria, fino a quando tutto era tornato silenzioso. Si era allontanato di corsa tra un intrico di piante, su, su, verso le cime, con le ultime chiazze di neve nei canaloni e il cuore che martellava impazzito. Passando vicino a un pilone votivo aveva alzato lo sguardo. Gli occhi della Madonna lo guardavano con tristezza. La sua corsa era terminata oltre confine, in Francia. Attraverso l’alta Provenza era sceso al mare, dove era rimasto sulla costa a mendicare, intagliando bastoni, fino alla fine della guerra.. Quando vedeva le signore eleganti che non avevano perso l’abitudine di qualche passeggiata sul lungomare, nonostante i difficili momenti, pensava a Irene. Sentiva ancora il suo odore, un odore di erbe aromatiche e di sapone. Il pensiero di lei non l’aveva lasciato mai, da quella volta che si erano incontrati vicino alla fontana del paese. Una donna che vendeva gli oggetti più assortiti, sulla costa, una volta gli diede una conchiglia in cambio di uno dei suoi bastoni intagliati. Gliela aveva appoggiata a un orecchio, per fargli sentire il rumore del mare. Un giorno tornerò e la porterò a Irene, se mi vorrà perdonare, pensava. Irene era la fidanzata di Vittorio, Toiu, per tutti. Irene aveva diciottanni quando Toiu era partito da casa con il cappello da alpino e con la promessa di sposarla appena finita quella maledetta guerra. Dopo il gennaio del’45, di lui non si erano più avute notizie, ma le voci correvano e dicevano che Toiu era salito sulle montagne a combattere un’altra guerra. Che non era lontano. Qualcuno sapeva, Toiu aveva fatto in modo che Irene lo pensasse vivo, ma a lei non erano bastate le scarse notizie che lui era riuscito a farle arrivare, voleva certezze. Doveva trovare qualcuno che conoscesse la montagna, qualcuno fidato a cui consegnare una lettera per il suo promesso. Così, quando arrivò nella borgata quel cugino alla lontana che faceva il pastore e viveva lassù molti mesi l’anno, quell’adolescente rozzo e un po’ timido che stava seduto sui gradini della fontana a intagliare bastoni, mentre tutto intorno regnava una confusione di carri e uomini che andavano e venivano, Irene lo avvicinò e capì che poteva fidarsi di lui. Allora gli mostrò la foto del fidanzato e gli affidò la preziosa lettera da consegnare solo a lui, se l’avesse incontrato. Il ragazzo arrossendo le disse in dialetto che doveva salire al pascolo, anche se di bestie ne erano rimaste poche, e l’avrebbe cercato, il suo Toiu e in qualche modo le avrebbe fatto sapere, senza mai osare guardarla. Al giovane pastore non c’era voluto molto per scoprire il rifugio della brigata partigiana, una gorgia incassata tra alte pareti di roccia, che dall’esterno non si lasciava indovinare, mascherata com’era dalla vegetazione. A guerra finita tornò al paese e seppe che suo padre era rimasto vittima di una sparatoria mentre lavorava il suo campo, Irene era andata sposa al padrone del mulino e si sentì escluso dai festeggiamenti che c’erano un po’ ovunque. Tra i patrioti vide un ragazzo quindicenne, con i vestiti fatti di tele da tenda, un ragazzo che aveva saputo scegliere la sua strada. Prese del pane, un po’ di companatico, qualche pacchetto di sigarette e si avviò al giass. Non fece più ritorno.

Il vento soffiava contro la porta del giass e portava al vecchio sempre lo stesso messaggio: sei stato tu, vigliacco, a farli scoprire. Ti sei fatto seguire mentre salivi al rifugio, oppure hai lasciato i segni del tuo passaggio? Cosa ti avevano promesso? L’hai fatto per prenderti Irene? Poi, di fronte a quei corpi caduti, non hai avuto il coraggio di avvicinarti, di tornare da Irene per portarle la tremenda notizia, di salutare tuo padre. Quella sera il vecchio era molto stanco, sentiva i brividi della febbre che saliva, gli sembrava di ripercorrere la strada in salita verso il confine, ma quando arrivava ecco un altro monte, poi una pianura, poi ancora un monte, la strada non finiva mai. Una ventata spalancò la porta del giass e una folata gelida investì l’interno. Il vecchio si sentì afferrare per il braccio e vide Toiu che veniva a prenderlo, sussurrando: “Non è stata tutta colpa tua, vecchio, sono stato io che ho sparato i tre colpi di moschetto per dare l’allarme troppo in ritardo. Avevo smontato il mio Sten per pulirlo e non mi sono accorto subito dei tedeschi.” Ma forse quel sussurro era stato portato dal vento. Lo trovarono sulla porta del giass, a faccia in giù nella neve che l’inverno era quasi finito. Tra le poche cose che gli appartenevano c’era una lettera che non portava scritto il nome del destinatario, solo la firma di Irene. Vicino alla lettera, una conchiglia. 1) Il pastore non lo si fa più. Il lavoro è duro... la pioggia, il vento, il freddo... la transumanza a piedi ma il lavoro del pastore dona dei momenti belli... 2) Il cane per il pastore è come il bastone per il vecchio. Senza contare la compagnia che fa!