Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XIV edizione - Arcade, 5 gennaio 2009 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
Un tempo per nascere, un tempo per morire di Livio Olivotto Padola (BL) |
Gennaio 1993. Non so per quale motivo, all’età di ottant’anni compiuti, ho deciso di fissare per iscritto i miei ricordi. Forse per un sentimento di riconoscenza nei confronti delle persone più care che mi hanno accompagnato nei momenti importanti della vita. O forse perché anche i più giovani possano conoscere vicende drammatiche dalle quali però è nata una nuova speranza di pace e amicizia. Comunque sia, dopo cinquant’anni è giusto che quegli avvenimenti di cui non ho mai parlato, tornino alla luce. “Dottor Umberto Arcari le conferisco la laurea in Medicina e Chirurgia, magna cum laude. Complimenti vivissimi”. Era il mese di luglio del 1936. Il rettore dell’Università di Padova, soddisfatto per l’esposizione della tesi, mi diede anche il tradizionale bacio accademico. Avevo ventiquattro anni ed un curriculum scolastico davvero ottimo. L’anno seguente sostenni l’esame di stato per l’abilitazione alla professione e poi nel maggio del 1937 andai a Londra dove lo zio Luigi risiedeva da molti anni. Grazie alla sua amicizia con il rettore di Scienze Mediche all’Università di Oxford, sostenni un esame di ingresso che mi consentì di frequentare un importante corso di specializzazione durato due anni. Nel 1939 tornai in Italia e mi trasferii a Firenze per seguire il Corso Allievi Ufficiali Medici al quale ero stato assegnato su mia richiesta. Purtroppo in quel periodo aleggiavano molti presagi di guerra e assieme ai colleghi ci interrogavamo preoccupati sul nostro futuro. Quando nel giugno del 1940 l’Italia entrò nel conflitto, non mi sorprese l’assegnazione come tenente medico alla Divisione Julia delle Truppe alpine. Dopo qualche discussione Maria ed io decidemmo di attendere il mio ritorno per il matrimonio. L’idea di lasciare a casa una potenziale giovane vedova proprio non mi andava. Con la “Julia” partimmo per l’Albania dove iniziammo a conoscere gli orrori della guerra. Poi, verso la fine dell’estate del 1942, fummo inviati in Russia, con destinazione Caucaso. Il viaggio in treno fu estenuante: Monaco, Lipsia, Varsavia, Minsk, Charkow. Quando arrivammo alla meta vi fu un contrordine del Comando: a marce forzate coprimmo a piedi 300 chilometri per posizionarci sul fronte del Don. Non sapevamo che quella esperienza ci avrebbe segnato per tutta la vita. Almeno quelli di noi che avrebbero avuto la fortuna di sopravvivere. Ai primi di settembre eravamo sul Don, a circa 50 chilometri da Rossosch ove aveva sede il comando del Corpo d’Armata Alpino. Il primo periodo fu piuttosto tranquillo. Il nostro battaglione si adoperò per preparare ricoveri e postazioni in vista dell’inverno. Dovevamo mettere a riparo mezzi e derrate, scavare fossi anticarro, minare vaste aree avanzate, costruire fasce di reticolati, organizzare postazioni di tiro protette. Tuttavia l’insufficienza delle nostre dotazioni militari e logistiche era evidente. Tutto lo schieramento era assai debole: in caso di attacco nemico le nostre linee erano troppo allungate e prive di riserve. E l’attacco arrivò puntualmente. Il 12 dicembre 1942 le truppe russe sfondarono il fronte all’altezza di Nowo Kalitwa. Dopo una resistenza disperata e impossibile durata oltre un mese e nella quale perirono 5000 alpini della nostra “Julia”, l’ordine di ripiegamento giunse finalmente il 17 gennaio 1943. Iniziò per tutti noi una tragica ritirata verso ovest, con la necessità di rompere la morsa che ci accerchiava da ogni lato in una vera e propria sacca. Camminammo continuamente nella neve e nel gelo, combattendo tenacemente ogni giorno per superare lo sbarramento delle truppe russe. Moltissimi caddero sotto il fuoco nemico, moltissimi, stremati, si lasciarono morire nella neve. Io non potevo fare molto per i feriti. Ormai non avevo quasi più nulla per fornire cure e medicinali. Una sera, in uno di quei tragici giorni, giungemmo in un piccolo villaggio ucraino formato da poche isbe. Su una slitta che mi precedeva avevo fatto adagiare tre alpini che ormai non potevano più camminare visto che i piedi erano quasi congelati. Era già tardi e decidemmo di chiedere aiuto e dei viveri bussando alla porta di un’isba isolata. Era molto pericoloso perché i russi potevano raggiungerci da un momento all’altro, ma eravamo davvero allo stremo delle forze. Aprì la porta una contadina dalla corporatura massiccia che avrà avuto più o meno la mia età. Il mio volto, una maschera di sporco, fatica e sudore incrostati dalla neve e dal ghiaccio, rese superflua ogni parola. La donna mi fece segno di entrare. Assieme ad un altro alpino portammo dentro anche i tre che giacevano sulla slitta. L’ambiente era caldo e accogliente. Una stufa ardeva in un angolo dell’ampia stanza di forma quadrata. I muri di rami intrecciati, ricoperti di gesso, consentivano di mantenere un bel tepore, nonostante il gelo dell’inverno russo. Gli alpini furono adagiati per terra, vicino alla parete. La donna ci portò subito dei bicchieri con dell’acqua, poi dal tavolo al centro della stanza, prese una pentola ed un cucchiaio. Si avvicinò agli alpini distesi. Io cercai di rialzarli e insieme alla donna li imboccammo lentamente con quella minestra calda che per noi fu come un nettare divino. Seduto accanto ai miei compagni ne bevvi anch’io qualche cucchiaio. Poi controllai gli arti degli alpini sofferenti. Mi accorsi solo dopo che nel lato opposto della stanza un angolo era chiuso con una piccola tenda. Nel silenzio dell’isba da quella zona proveniva un flebile lamento. La donna mi aveva osservato mentre cercavo di curare i miei alpini, anche se la borsa medica era praticamente vuota. Si fece coraggio e si avvicinò. Mi prese per mano e mi accompagnò vicino alla tenda che scostò lentamente. Su un giaciglio c’era un corpicino scosso da violenti brividi di febbre. La donna mi rivolse le prime parole da quando eravamo entrati: “Irina, dva roke, dva roke, doktor”. La voce era rotta per l’emozione. Accompagnò quelle parole in ucraino mostrando il pollice e l’indice della mano destra. Non fu difficile comprendere che la piccola Irina aveva solo due anni e stava davvero male. La visitai subito e compresi che una forte polmonite se la stava portando via. Allora mi venne in mente che nella borsa, nascosta in un taschino interno, avevo ancora una dose di un nuovo farmaco. Era stata una felice ispirazione quella che, dopo la sperimentazione ad Oxford, mi aveva portato negli anni seguenti a fare una piccola scorta del farmaco. I sulfamidici contro le infezioni erano stati da poco scoperti in Germania, ma varie nazioni ne avevano compresa l’importanza in vista della guerra. Era l’ultima dose di cui disponevo. Avrebbe potuto servirmi per qualcuno dei miei alpini, ma gli occhi della mamma di Irina mi avevano tolto ogni dubbio. Mi feci portare un bicchiere con dell’acqua. Non fu facile far prendere la pastiglia alla bambina che sopraffatta dalla febbre, non rispondeva alle richieste della madre. Con molta pazienza riuscimmo a farle ingurgitare la medicina. Poi mi distesi sfinito accanto al giaciglio e caddi in un sonno profondo. Ricordo ancora come fosse ieri l’immagine che mi apparve davanti agli occhi quando mi svegliai. La donna in piedi e accanto a lei, attaccata alla gonna, una bimba bionda, pallida ma serena. Non feci in tempo ad alzarmi che la donna mi abbracciò piangendo e mormorando “spasiba doktor, spasiba”. Non sapevo cosa dire. Mi ritrovai in braccio la bambina. La fronte era fresca. Aveva dei meravigliosi occhi azzurri ed un sorriso dolcissimo. Mi guardava con tenerezza e senza alcuna paura, nonostante il mio aspetto trasandato. Sembrava un piccolo angelo biondo. Era giunto il momento di partire. La slitta fuori dall’isba era pronta per trasportare i miei alpini. Ma prima vi caricammo tutte le provviste che la donna volle donarci, nonostante le difficoltà: patate, rape, un po’ di carne secca, viveri che sarebbero risultati preziosi nei giorni successivi di marcia estenuante. Ci congedammo da Irina e da sua madre e riprendemmo il cammino. Dicono le Scritture che c’è un tempo per nascere e un tempo per morire. Evidentemente non era ancora giunto il nostro tempo di morire. Così è stato per Irina, così è stato per me che ebbi la fortuna di poter tornare a casa, mentre moltissimi miei compagni sono rimasti in Russia, sepolti sotto la neve. La tristezza della tragedia passata non ha mai abbandonato il mio cuore. È rimasta lì in un angolo per tutti questi anni, nonostante i momenti belli vissuti dal mio ritorno a casa fino ad oggi. La vita trascorsa assieme a Maria è stata meravigliosa, come la gioia che ci hanno dato i nostri due figli entrambi medici, che ora però vivono all’estero. L’anno scorso Maria ci ha lasciato. Appunto: c’è un tempo per la guerra e un tempo per la pace, c’è un tempo per nascere e un tempo per morire. Io lo attendo serenamente”. La donna terminò la lettura e richiuse il diario. Guardò verso la sedia a rotelle dove Umberto stava riposando. D’improvviso il vecchio aprì gli occhi. Il volto affilato e lo sguardo profondo, mostravano una volontà ed una fierezza non fiaccate dall’età e dalla malattia. Lei pensò a quell’ultimo anno, a quando si erano ritrovati casualmente e aveva deciso di stargli vicino per aiutarlo, visto che ormai era vedovo e solo. I loro sguardi si incrociarono per un attimo. Irina sorrise dolcemente e Umberto, tranquillizzato dagli occhi azzurri del suo piccolo angelo, si riassopì. |