Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIV edizione - Arcade, 5 gennaio 2009

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

Quattro incontri sul carso

 

di Mario Schiavato

Rijeka - Croatia

Brgudaz, ai piedi del monte Braico, d’inverno è un paese tetro. Le casette così slavate da secoli di intemperie e di miserie, sembrano più piccole, più povere ancora. La piana che si stende innanzi, brulla, tragica con quei mucchi di pietre che i pastori hanno accumulato onde strappare al Carso manciate di terra, col freddo diventa così inospitale da non offrire ai pochi uccelli di passaggio neanche le bacche riarse di qualche ginepro. Alla svolta della stradicciola che arriva dalla valle c’è un cippo per ricordare che una volta le donne accompagnavano fin qui mariti e figli che andavano per il mondo in cerca di lavoro e di pane. Più avanti, altre lapidi ricordano devastazioni e lutti di guerra. Un popolo mai domo quello di Brgudaz, che ha saputo mettere sempre tetti nuovi a case distrutte. Una volta pensionati, parecchi dei suoi abitanti ritornano in paese per riprendere in mano le zappe, tirare su qualche campo di patate, far pascolare poche pecore, una vacca, e morire in pace nel letto dove sono nati. Negli occhi profondi questi uomini hanno una saggezza antica, sulle labbra una parlata fiorita, sulle guance il colore rubizzo di chi è stato sempre abituato ad affrontare di faccia e sole e pioggia e vento. Come quello che incontrai subito alle prime case: un vecchio dalla folta zazzera bianca che rimestava con una vanga entro una dolinetta, tanto piccola era quella dolina che due lenzuola distese avrebbero potuto coprirla. Ed aveva al fianco, a ridosso della siepe pelata dalla bora gelida, un cavallo - o era un mulo? - pezzato, rinsecchito, stranamente disteso di fianco, la grande pancia gonfia e due occhi, tra la criniera scomposta, grandi, inquieti, lucidi di febbre. - Sta morendo, - mormorò il vecchio appena mi vide arrivare arrancando sul sentiero. - Sta morendo. Mi fermai accanto alla muriccia che recingeva la dolina. Chiesi stupito: - Sta morendo? - Già. Sto scavandogli la fossa. - Ma… - protestai, - non è giusto. - Lo so che non è giusto scavare la fossa per qualcuno che non è ancora morto. Ma, caro mio, mi son vecio, vecio stravecio, e non so quanto tempo impiegherò per scavarne una tanto larga e tanto profonda da farlo star comodo. Possono criticare quanto vogliono i vicini… - Cosa dicono i vicini? - Venderlo devi, prima che muoia! Per ricavarci do palanche? Ma come si fa boiacan a vendere un mulo? - Un mulo è pur sempre una bestia! - azzardai. - Un mulo non è una bestia. Un mulo è un mulo, me lo lasci dire, perché io, sono stato un alpino. Con la Julia fino in Russia e gavevo ancora i mocoli soto el naso. Ad un mulo ci puoi parlare perché ti sta ad ascoltare e ti capisce. Un mulo quando soffri indovina le tue pene e ti sta vicino. Un mulo arranca con impegno anche quando sei triste e disperato perché non ce la fai proprio più. Un mulo ubbidisce sempre e non protesta mai. Questo è un mulo. Come potrei vendere Gildo? Xe un mucio de ani che vivemo insieme! E prima, per altri dieci, lo ho sognato. Quando lavoravo in fabbrica voglio dire. Ho risparmiato anche sulle sigarette per comperarmelo. Si può vendere una moglie? Macché moglie! Meglio era, Gildo, di una moglie!

Il vecchio abbandonò la vanga sul bordo della fossa. Aveva gli occhi lustri. Si inginocchiò accanto alla bestia che ansimava, la bocca aperta, i labbroni tirati sui denti gialli, consunti. Le alzò la testa, se la pose in grembo, cominciò ad accarezzarla, a pettinare la criniera con le dita aperte a rastrello. - Bisognerebbe ucciderlo, - dissi io. Il vecchio spalancò gli occhi allibito. - No, no! - gridò. - Mai! - Perché non soffra... - azzardai. - Si uccide forse un cristiano per non farlo soffrire? Per farlo morire prima? Socchiuse gli occhi, abbassò il capo, lo scrollò in lunghi cenni di diniego. Poi, delicatamente, riprese ad accarezzare la lunga testa grigia. Adesso che aveva un filo di bava sulla bocca, che aveva gli occhi vitrei sotto le ciglia tremanti, che dilatava le froge, che sbatteva in aria le lunghe zampe stecchite. Mi levai lo zaino dalle spalle, scavalcai la muriccia, agguantai la vanga e dissi: - La cima del Braico può aspettare. Le dò una mano… Il vecchio non rispose. Non sentiva. La sua zazzera bianca si confondeva con la criniera del mulo morto.

ODORE DI TEMPI ANTICHI

Continuava a nevicchiare mentre salivo adagio verso Scrapna. Chiuso nei miei pensieri, la salita mi parve ancora più ripida. Giù, il paesino sembrava un quadro di Brugel con quel suo campaniluccio grigio, le poche case con i tetti già bianchi, il grande lodogno nudo accanto alla scuoletta. Nell’aria immota, non c’era neanche un frullo. Dapprima mi vennero incontro i pagliai appena ammantati, buffi con quei copricapi fatti di vecchie pentole arrugginite. Scantonai. La Peppa doveva avermi scorto dalla finestrella appannata della stalla perché uscì, mi chiamò a gran voce e con ampi gesti mi invitò. Avrei voluto evitare la sua casa perché quel giorno dentro mi tenevo un gran vuoto, ottuso di malinconia. Avevo bisogno di silenzio. Ero partito apposta per cercarlo su, verso i roccioni del Monte Sega. - Vien drento, vien, che ci facciamo un buon caffè! Tentai di sgattaiolare: - No, no! Ho fretta! - Dove vuoi andare con questo tempo? Un caffè!… La Peppa mi guardò con quei suoi gialli occhi buoni. Mi sembrò avesse un dente di meno dall’ultima volta su quel sorriso implorante. A malavoglia spinsi l’uscio della stalla. Il tepore umido, l’odore del letame, la vaccherella che rimestava ingorda nella mangiatoia, il secchio di latte spumoso mi riportarono di colpo alla mia infanzia travagliata di contadino povero. Mi curvai. - Posso? – chiesi. Alzai e poi mi attaccai al secchio colmo di latte tiepido. La Peppa rise, chiamò cani e gatti dentro casa dove il focolare aveva crepitii di vampe allegre. - Vien drento, - insistette, - dai che ci facciamo un buon caffè! Parlava e parlava la Peppa in quel suo dialetto duro che capivo a stento. Raccontava dei figli, uno sposato a Laurana, l’altro chissà dove in Australia, poi del marito che l’aveva lasciata da poco per andare nel cimiterino dietro la chiesa, ancora del paesetto che si vuotava, delle case che andavano in malora, delle zornadele de tera che nessuno zappava, delle castagne che marcivano nei ricci… Sulla leggera coltre di neve che copriva l’ampio cortile affioravano macchie di sangue come petali di fiori enormi. La testa del maiale era ancora appesa sotto la tettoietta fuori tiro dei gatti che miagolavano invasati: la pelle così rigonfia, pulita e rosea, sembrava il sederino di un neonato. Fegato e cuore li abbiamo mangiati ieri sera. Fritti con molta cipolla. Erano tutti qui da me, ieri sera… Si stava bene dentro, al caldo. La Peppa mi mise davanti un bicchierino di grappa, poi su un piatto slabbrato i sanguinacci appena fatti con l’uva passa, il riso e la cannella, anche una tazza di caffè fumante che gorgogliava entro una coccuma di terracotta vecchia di secoli e legata con una trama di fildiferro per preservarla dai guasti. - Era di mia madre, - disse orgogliosa mostrandomi il cimelio. Parlava e parlava la Peppa. Dall’uscio della dispensa proveniva l’odore dei cappucci e delle rape messi ad inacidire sotto le vinacce. - Siamo rimasti quassù solo pochi vecchi. Temo che quest’anno non ci saranno gli scampanatori ad uscire per carnevale con i campanacci appesi ai fianchi per portare in giro allegria e buona stagione. Qualche anno fa, i miei figli, tutti e due eh, si prendevano le ferie e fino alle Ceneri, a casa non ci tornavano neanche per dormire! Zerte ciuche!… Ah, i bei tempi! Parlava e parlava la Peppa ed io la capivo a stento. Per quel suo dialetto infiorato di motti e di sentenze. Dopo, quando ripresi a salire verso il Monte Sega dove la neve era più alta, mi risuonarono ancora nelle orecchie le parole della vecchia e cara amica: macinavano e macinavano come la musica di un organetto. La giostra vorticò sempre più rapidamente forse per lo sfarfallare bianco: il ritmo diventò serrato tra scoppi allegri di risa dimenticati da troppo tempo. In quell’andare sereno covai con amore le due uova che la Peppa mi aveva infilato nella tasca del giaccone, due uova piccole piccole delle sue gallinelle: - Per i tui pici, ché le xe fresche de zornada!

CATERINA

Quando smontai dal vecchio autobus a Bersezio, l’aria era piena di neve. Sfarfallavano i fiocchi bianchi, larghi, attorno alle vecchie case e già avevano imbiancato le verze ed i broccoli degli orti. Due gatti litigavano nel buio di un androne e tre uomini, fermi davanti l’osteria, mani in tasca, mi guardarono piuttosto stupiti. Le loro facce quasi piatte, dai lineamenti marcati e dai grandi nasi viola, avevano occhietti cisposi e canzonatori. - Indove el va quel là? - Inveze de star al caldo… - El gavarà la morosa sul Sissol! Rimasi interdetto. Visto il tempo, avevo quasi deciso di aspettare il prossimo autobus e tornarmene a casa. Ma con quei tre che sfottevano… - El sarà un turista… - Sicuro! Un turista, un gnoco… - Magari in zerca de ovi de aquila! Era tutto un ridere. Per salvare la faccia dovetti incamminarmi, sperando nell’aiuto di quella cara buona stella che non di rado m’accompagna. Mi resi subito conto che la faccenda si stava piuttosto complicando: non andavo su con il mio solito ritmo deciso. Tergiversavo, mi fermavo, scrutavo il cielo, sentivo dolorini vari, lo zaino m’infastidiva… Insomma cercavo proprio una scusa per fare dietrofront. Se non ci fossero stati quei tre davanti l’osteria! Grabova la solita accoglienza dei soliti cagnacci. Mi armai di un bastone per tenerli a debita distanza. La cagnara fece socchiudere un portoncino, quello dell’ultima casa. Ne spuntò fuori una vecchietta raggrinzita con chissà quante gonne addosso. Con quattro urlacci fece zittire le belve e se ne ristette sulla soglia a riassettarsi un fazzolettone nero che le incorniciava il volto. - Dove vai, fio caro, co’ sto tempo! Vieni, vieni dentro a scaldarti. Non me lo feci ripetere. Era proprio la soluzione che cercavo. - Entra cuor mio, entra. Si fece da parte per lasciarmi passare ed io dovetti curvarmi un po’ per entrare nella cucina con le travi affumicate. Il focolare, - proprio un focolare con la nappa piena di pentolini e scodelle!, - era pieno di fiamme quiete. - Se ci fosse Caterina, oh lei saprebbe prepararti un buon te per questo freddo. Vieni cuor mio, siediti accanto al fuoco. Caterina, raccoglieva erbe. Venivano da Arsia, da Fianona, oltre il Sissol anche da Pisino. Ha curato gente importante. Avvocati e professori, signore in capelin e veleta. Lei le conosceva tutte, le erbe. Ha raccolto, ultima, quella che avrebbe potuto guarirla, povera Caterina mia sorella. La lasciai dire. Tirai giù lo zaino, lo posai accanto alla porta, mi andai a mettere sulla panchetta accanto al fuoco, porsi alle fiamme le palme intirizzite. La vecchietta si sedette accanto a me, sparì quasi tra le sue gonne. Cominciò ad attizzare le braci con delle molle lunghe, sollevando scariche di scintille. - Mia sorella era istruita. Mica come me! Aveva fatto le scuole cittadine. Faceva la serva, serva e coga, ma andava a scuola, la serale. Povera Caterina, con tutte le erbe che conosceva… Si è messa a letto di punto in bianco. Pareva una cosa da niente. Ed io le dicevo: vado a chiamare il dottore. E lei a ripetermi: macché dottore! Dovrei andare su a Pluzine. So ben io quale piante miracolose mi metterebbero in piedi! Ed io: Caterina mia, sei matta? Non ti reggi! Andrò io. E ci andai per la verità, parecchie volte. Ma le piante che le portavo non erano mai quelle che voleva. Mi ripeteva: le foglie devono essere così, i fiori colì… Caterina, le dicevo, io faccio quel che posso. Mica conosco le erbe io! Sono un’ignorante che quando arriva el poscier a portarmi quella miseria di pensione per tutti gli anni che ho lavorato negli alberghi di Abbazia metto una croce che anche mi vergogno. E così lei si alzò. Si mise lo scialle perché si vede che pativa il freddo anche se era estate. Andò a Pluzine dove c’è la piccola palude, un laco, diciamo noi. Ed io non me ne sono neanche accorta che era partita. Dormivo, povera me, perché avevo passato la notte in bianco per via della civetta, el ciuk, che sul tetto chiamava la morte. Trovarono Caterina, lassù poverina, con un mazzo di erbe in mano. Sarebbe bastato un niente per farla arrivare fino a casa. Un decotto l’avrebbe rimessa in sesto. Eh, tutto inutile. Quando la morte decide, arriva. Oh Dio! Non ti ho offerto proprio niente! Un nocino? Ti andrebbe bene un nocino? L’ha fatto Caterina, con le noci che aveva raccolto il giorno di San Giovanni. Trotterellò via la vecchietta trascinandosi dietro il suo bel mucchio di gonne. Si stava bene accanto al fuoco. Il nocino che mi portò, dolce come il nettare, aveva riflessi d’oro. E quei tre davanti l’osteria? Se non avevano altro da fare in quella giornata nevosa, sfottessero pure!

LA SALAMANDRA E LA MORTE

Il corno roccioso del Klek così isolato, svetta inconfondibile dalla piana di Grobnico nella cavalcata di groppe che la chiudono verso est. È questo il monte delle genziane: in primavera s’aprono i tromboni di quella alpina, in estate si allungano i cauli di quella lutea, in autunno s’aprono le stelle di quella cigliata… Veramente quel giorno non è che andassi a godermi questi fiori. Arrancavo in silenzio nell’aria gonfia di umidità per uno dei tanti itinerari solitari. Le gocce stillavano dai rami dei faggi vestiti ormai della livrea autunnale e la nebbia, con i suoi sudari fumiganti, era una quinta su quel palcoscenico immenso… Non ci venivo da molto tempo da queste parti. Oltre Nebesa voglio dire, lungo quella stradicciola che s’incunea nelle fitte abetaie corrose dalle piogge acide. Ad essere sinceri di qua non ci passa più nessuno. Solo qualche mattoide come me, per godersi una giornata di pace e di silenzio, in alto a tu per tu con paretine che di problemi non ne hanno offerti mai. Per questo non credetti ai miei occhi quando ad una svolta vidi una figuretta smilza con in testa un cappello dalla tesa larga che rimestava con un bastone tra l’erba e le foglie. S’era infilato un sacco di plastica nero, uno di quelli per le immondizie, una specie di tunica che gli dava un aspetto lugubre, spiritato, come di pipistrello. Ad un tratto rotolò fuori dalla caligine. Tossicchiò un po’ e poi da sotto quel sacco di plastica che lo impaludava tirò fuori una gabbietta proprio minuscola, delicatamente la depose sull’erba. Dentro s’intravedeva un qualcosa di lustro e di nero. - È una salamandra, - spiegò con un sorriso assestandosi il cappellaccio. – Sì, una salamandra atra. Che poi sarebbe nera. Perché, quando posso, studio gli anfibi urodeli. Rimasi a bocca aperta. Borbottai incredulo: - Che cosa studia? - Gli anfibi urodeli. Conosce questi animali? - Veramente di salamandre ne ho viste parecchie, ma… - Sono interessantissime. Scusi eh, vedo che ha fretta. Non voglio trattenerla, non voglio impartirle una lezione! Ci mancherebbe!… Senza rispondergli mi curvai. Nella gabbietta l’animale se ne stava immobile, gli occhietti fissi. - Dunque lei studia questi anfibi. Sarà un professore, immagino. Un biologo? - Io un professore? Scherza? Certo, mi sarebbe piaciuto. In famiglia eravamo poveri. Sono solo un ferroviere in pensione per giunta. Mi porterò a casa la salamandra per studiarla e, a primavera, la riporterò nel bosco. Vede? È interessante perché a differenza delle altre, questa è vivipara. Capisce? In effetti ogni ovaia produce da venti a trenta uova che vengono fecondate dal maschio. Ma solo le prime due si sviluppano, assorbendo man mano tutte le altre. Devo dire che non capii gran che e forse l’ometto lo intuì perché tracciò un segno nell’aria, come di stizza, ma aggiunse subito: - La gestazione è ancora più interessante. Va da uno a tre anni. Più in alto si trova l’habitat, più tarda la nascita. Per quelle che vivono a tremila e più metri, – e ce ne sono, davvero, – ci vogliono anche quattro anni perché i piccoli possano vedere la luce. Si levò il cappellaccio, si sventagliò il viso accaldato, un rivolo di sudore gli calò giù per la barba ispida. Tirò su col naso un paio di volte, raccattò la gabbietta, la sollevò contro la luce lattea delle nubi. - È proprio un bell’esemplare. Assomiglia alla morte, non trova? Esterrefatto esclamai: - La morte?! - Certo. La guardi bene. La morte è bella. Per chi come me ha un qualcosa che lo rode dentro, ogni giorno lo rode, la morte è proprio una bella cosa come questa rara bestiola. Chissà se a primavera potrò riportarla nel bosco… Se spirerò prima, come credo, ci penserà mio figlio. Sorrise l’ometto. Si strinse al petto la gabbietta e cominciò a scendere pian piano, tossendo, verso le praterie arate dai cinghiali dove veleggiavano, sinistri, i sudari fumiganti dello scirocco.