“…Lassù, dopo sessantatre anni,
anche l’erba stenta a crescere…”
Mario Rigoni Stern
Ora è tardi per scrivere, maledettamente.
È stato un lampo, un istante. Questo pensiero mi è corso davanti, subito soffocato dalla polvere e
dal vento tagliente che spira dalla valle, questa valle un tempo ricoperta d’erba e mughi, un tempo…
Di fronte, a poche decine di metri, la montagna è un muro di cui non si riesce a scorgere la cima.
Avvolta da un velo di fumo e nebbia, appare e scompare, come nelle giornate d’autunno, quando si sale
a caccia, avanti che cada la prima neve. Ma ora è tardi per pensare. È tempo di correre ora. Correre e
tener bassa la testa. Questo l’essenziale, il necessario per avere qualche soffio di vita ancora, per restare
un minuto in più aggrappati a queste rocce sventrate, dilaniate fin nelle viscere, divorate dalla fame insaziabile
delle artiglierie. Correre, ancora, attraversare con impeto il vallone, senza curarsi dei morti. I
morti! Fa sempre uno strano effetto vederli stesi sull’erba dove un tempo i fiori dipingevano i pascoli di
ampie chiazze lucenti di colore: ghignano al sole, mentre il verde sporco delle mantelle si mescola con
quanto è rimasto dell’erba, a formare un tappeto irregolare. Nella foga ne calpestiamo diversi. Conta
poco. Sono tasselli caduti di un domino infinito, come ciascuno di noi. Correre, correre, correre verso la
montagna. Gli occhi mi bruciano, eppure riesco a fissarla per un attimo. Sembra un animale ferito; si
contorce in un ammasso di fuoco e fumo, digrignando i denti contro gli uomini che a ondate le cadono
addosso. A migliaia.
Sento il sudore scendere a frotte attraverso le pieghe del corpo, impastarsi allo sporco che da settimane
ha formato una seconda pelle, ruvida, squamosa, che neppure il tempo riuscirà mai a lavar via,
proprio come nulla ha potuto la pioggia, fredda e tagliente, che i giorni scorsi ha costretto a rimandare
questo dannato attacco. Tre giorni di vita in più. Non male. Ma poi quanto vale la vita di un uomo? Ce
lo siamo chiesti spesso in trincea, gridandolo con gli occhi, immersi nel silenzio livido che scende sul
campo alla fine di ogni scontro. Quanto può valere un uomo? Certo non più del fucile, dell’equipaggiamento,
delle razioni di riserva che conserviamo gelosamente nel fondo dello zaino, meno della doppia
razione di grappa che ci hanno dato prima dell’attacco. Non so darmi risposte, non dovrei neppure pormele
certe domande. Io devo correre e tener bassa la testa, correre…
All’improvviso un lampo mi investe. Segue un calore che mi brucia i capelli; è un’esplosione, poco
più avanti: inghiotte nel fuoco terra e uomini. Solo ora mi accorgo di essere ormai giunto in fondo alla
valle. Conosco bene questo posto, l’ho guardato spesso dalla feritoia vicina alla mia tana. Da sopra lo
sperone di terra e sassi in cui è sepolto il comando di divisione ora pure ci staranno guardando, i generali:
rapporto, situazione, terreno guadagnato, obiettivi raggiunti. Solo alla fine, forse, le perdite.
Sopra di noi, il sibilare della bombarda va smorzandosi, coperto dal gracchiare delle Schwarzlose:
uno sputare di colpi continuo, fino all’esaurimento del nastro. Qualche istante, poi il concerto riprende,
più violento che mai.
Volto la testa, mi guardo intorno mentre brandelli di roccia sorvolano, distinguo dei
suoni, una voce.
- Al riparo! Al riparo! Voltate sulla destra! - grida un ufficiale; non lo riconosco,
forse si tratta del comandante della seconda compagnia. In una mano tiene la rivoltella
d’ordinanza, con l’altra fa dei segni. Si alza, ritto, fa un salto e finisce falciato da una raffica in petto. Cade
sopra una roccia, dondolando fino a fermarsi, mentre i nervi si tirano per l’ultima volta.
Uno sciame di pallottole impazzite mi passa accanto. Un improvviso dolore alla gamba mi fa
inciampare. Cado in una buca aperta da una delle ultime esplosioni. La polvere e l’odore che vi ristagnano
sembrano soffocarmi. È la montagna dilaniata. Ci si attacca alla pelle con le schegge, la terra e i
resti dei nostri compagni.
Ora sono gli altri a tirare su di noi, coi pezzi postati sul rovescio. Gli altri. Il nemico. L’invasore che
odiamo con tutte le nostre forze. Ci hanno insegnato a farlo…
I proiettili superano il vallone e si schiantano contro la montagna. Ormai l’abbiamo scavata, svuotata.
E la roccia è divenuta il rifugio e la tomba in cui i vivi e i morti riposano accanto. Un gelido abbraccio
che non bada ai colori della divisa.
Non capisco perché mi sono fermato a pensare; giaccio in questa buca per fasciare la gamba: una
ferita non molto profonda, appena sopra il ginocchio, ma brucia dannatamente, come mi avessero cucito
insieme, sotto la pelle, una brace ardente. Il sangue mi macchia i pantaloni di lana grezza, e un rivolo
corre ora ad impregnare le fasce mollettiere, allentatesi per la corsa. L’intera gamba prende a pulsare
a ritmo del cuore mentre premo con forza una garza e vi passo un giro con una benda. Quanto tempo
passa? Ore? Minuti? Non riesco a contarlo…
Ho imparato a fasciarmi in combattimento. Aspettare è la cosa peggiore, possono arrivare altre ferite,
più gravi. Ma anche farsi vedere al coperto è pericoloso. Per questo mi volto di continuo, con ansia.
Un lieve sollievo mi coglie: le sagome dei carabinieri, dietro la seconda ondata, sono ancora lontane,
indistinte. Sparano a vista su chi non avanza, o si ferma più del dovuto. Solo in una direzione è concesso
correre. Ma da qui io ho ancora qualche secondo prima di tornare allo scoperto.
Ormai l’assalto si è spento sotto i bastioni delle posizioni nemiche. Scorgo i nostri correre e cadere
tra il fumo delle esplosioni che prende a stagnare fetido nel vallone, nel frammischiarsi di polvere,
schegge di acciaio, roccia, corpi. Alle mie spalle arriva trafelato un caporale della terza compagnia. Non
fa in tempo a gettarsi nella buca che una di quelle schegge lo trapassa all’addome. Mi cade addosso di
peso, lo afferro e lo distendo. Rantola. Con le mani intrise di sangue mi stringe le maniche. Guarda verso
la montagna, la vetta. Cerco di divincolarmi, di liberarmi e afferrare quanto mi resta del pacchetto da
medicazione. È inutile. Conosco quel singulto, la vita strappata via. Lui, stringendo convulsamente le mia
maniche, sembra voglia trattenerla, qualche istante ancora. Una bava rossastra gli scende dalla guancia,
forse vuole dirmi qualcosa, ma non fa in tempo. Mi spira tra le braccia, guardandomi con gli occhi lucidi,
gli ultimi a morire. Resto a fissarli, ormai vuoti anche di pianto, mentre si spengono. Sono rivolti alla
vetta. Lo lascio lì, e sussurro con un filo di voce le poche parole del Requiem aeternam. Poi raccolgo il
fucile; ora devo tornare fuori. Do un’ultima occhiata. Anche la seconda ondata finirà certo col restare
impantanata in queste maledette buche, ad aspettare il tiro preciso dei cecchini o i granuli di schrapnels
trasportati dal vento come i pollini dei fiori in primavera. Una colonna di mantelle verdi si scorge a
destra, verso il ciglio della valle, sotto le rocce a strapiombo. Avanzano presi d’infilata dalle mitragliatrici
in caverna, quelle che non dovevano più esistere, quelle che la nostra artiglieria doveva aver ridotto
al silenzio una volta per tutte. Questo ci avevano detto prima di uscire dalle trincee. Seguo le mantelline
finché scompaiono tra le rocce e i mughi. Mi piacevano i mughi un tempo. Con mio padre salivo, in
primavera, a raccoglierne le pigne ancora verdi, buone per preparare gli sciroppi contro i malanni dell’inverno.
L’inverno! L’ultimo è scorso quassù, in prima linea. E ne abbiamo patito di freddo! Chiudo gli occhi
e i ricordi mi assalgono violenti. Ecco i compagni, il Moro, il Baffo e tutti gli altri, i vecchi della compagnia,
dei tempi del quindici: bestemmiavano contro il freddo ed era un gusto starli a sentire, mentre il
fiato usciva a granuli da sotto i mustacchi incrostati di gelo. E mentre quel fumo usciva e la sigaretta gelava
tra le dita ci lasciavamo ridere dolcemente.È un ricordo che mi torna spesso alla mente; e non riesco a liberarmene. Alla fine
sono caduti tutti: il Moro durante la controffensiva d’autunno, il baffo una mattina di
Marzo, all’improvviso, mentre rientrava col caffè; il riverbero della neve, il riflesso del
thermos, una fucilata.
Ora è tardi per ricordare.
Ascolto. Per l’ultima volta. D’un tratto ogni rumore sembra quietarsi e tacere: i colpi, il fragore, le
grida dei feriti che giacciono a pochi metri da me. Solo rimane il ricordo dell’inverno, della montagna
innevata, del sole sulla neve, del silenzio. Era la guerra a fare silenzio.
Ma ora è tardi, anche per pensare. Ciò mi scuote e brucia più della ferita, che non cessa di sanguinare,
ma che non sento già più. È troppo tardi. La lettera da spedire a casa è rimasta nel sacco, in trincea,
assieme al pacco di quelle ricevute e alle cartoline in franchigia. È rimasta bianca. Non ho mai scritto
molto della vita quassù, non possiamo. Scrivere poco, pensare poco. Il ricordo logora l’animo del combattente!
Casa, famiglia, vita d’un tempo, un mondo che ha perso il proprio significato, poco più di
un’ombra, sbiadita, lontana, dalla quale siamo stati strappati con forza, alla quale sappiamo di non ritornare.
Nondimeno mi spiace di non aver potuto scrivere a casa. Vorrei aver salutato un’ultima volta i miei
cari. Vorrei, ma non l’ho fatto, non ce l’ho fatta. Questo pensiero mi colpisce con la forza di un pugno
allo stomaco. E mi stordisce più d’ogni altra ferita.
La seconda ondata sta arrivando, ora dovrò anch’io gettarmi, tornare allo scoperto. Volgo lo sguardo
alla montagna, che a tratti appare tra il fumo e la nebbia. La guardo. In lei vive una bellezza arcana,
preziosa, che la pervade tutta nonostante la guerra. Un ultimo pensiero mi sfiora prima di spiccare il
salto. Chissà…chissà se lassù, dove stanno gli altri, sarà rimasto qualche ciuffo di stelle alpine…
Quante ne ho colte un tempo, salendo sulle crode, bambino, assieme a mio padre, prima della
guerra! Salire quelle pareti svettanti, rivolte al cielo, era allungare il braccio nella speranza di arrivare a
sfiorarlo.
Le rocce che invece si stagliano di fronte a me ora brillano al sole, lucide, trasparenti quasi, come
uno sputo al sole. Si avverte che l’estate sta ormai per metter piede anche quassù. Bello sarebbe sedersi
ad aspettarla, seduti all’ombra di un larice. Aspettare, per giorni e giorni, tutta una vita, senza più la
guerra, senza il puzzo dei corpi trasportato dal vento; e poi, verso sera, alzarsi, puntare verso la vetta,
giungervi sul far del tramonto mentre il cielo tutt’intorno si tinge dell’ultimo sole. Là potrò finalmente fermarmi,
e aspettare che gli ultimi raggi corrano a nascondersi dietro il profilo di altre montagne. Aspettare,
quassù, nel silenzio. E sapere che non è ancora troppo tardi…
Un istante, nulla di più. Mentre un velo nero gli cadeva sugli occhi e le gambe cedevano ad un peso
misterioso, guardò ancora una volta la montagna. Accennò ad un sorriso. Ma era tardi, anche per vivere.
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