È rimasta una selva intricata di avornielli, tinta di giallo in primavera, a riempire la conca dell’asino,
quasi in cima al Boglelio. Chi passa, adesso, da quelle parti procede su un viottolo che
piega, dopo la fontana, verso un ponticello di sasso e s’inerpica sul fianco della montagna fino
in alto, sfiorando appena i poveri resti di quello che una volta fu il rifugio Belvedere. Chi non conosce
la storia dell’inglese e dell’indio non dà peso a quel luogo e va oltre. Ignora mura sgretolate e rottami di
pietra, tegole infrante e travi annegate nel verde del sottobosco, soffocate da radici poderose, esaurite in
una lenta agonia che ha cancellato in tanti anni la memoria e nascosto spietatamente ogni traccia, ogni
segno, ogni piccolo cenno di cose e persone. Su questi monti ho conosciuto Marien.
La stalla del capraio, con il suo cagnaccio ringhioso e la concimaia intartarita, era l’ultima del
paese; al di sopra soltanto prati e castagni. I miei passi grevi sul sentiero erano stonature nel silenzio sottile
di foglie novelle pizzicate dal marino.
Ho incontrato una donna, un’anziana che scendeva a valle, ingobbita dal peso del fieno che teneva
sulla forca appoggiata ad una spalla, un fazzoletto in testa di un viola parrocchiale, l’apparenza di un
Cristo dolente che porta la croce con un volto scavato, grinzato in piegoline e solchi più marcati, i pomelli
rubizzi e gli occhi profondi asciugati dalle stagioni che fissava il cammino, guardando per terra, con
quella schietta ritrosia, propria delle genti di montagna, di quando incrociano uno sconosciuto sulla via.
Mi ha salutato, sussurrando un buongiorno in dialetto, soffiato tra strani dittonghi e l’ansimo della fatica.
Ci siamo fermati su un pianoro di ginepri e genziane. Ha posato il fastello e il taglietto da fieno e con
una mano si è aggiustata il foulard, scacciando noiosi mosconi e perle di sudore dalla fronte. Le ho chiesto
come si chiamasse e quanti anni avesse. Mi ha risposto Marien e di essere nata nel ventitrè, ottant’anni
suonati nelle ossa.
Mi ha indicato casa sua, giù in paese, quattro tetti a destra del campanile, vicino al tiglio più grande
e all’insegna vivace dell’osteria. Le ho offerto dell’acqua e ci siamo seduti sull’erba.
Amo queste montagne, ci venivo da piccolo in vacanza. Con mio padre, in autunno, cacciavamo
le rosse sui calanchi aspri del Prusè, m’insegnava il canto dei maschi, mi mostrava il loro curioso planare
e nelle faggete aranciate ci fermavamo per pranzo, un panino e una pera succosa. Ricordo, ancora, il
verso singolare della trombetta da minatore che usava per richiamare il nostro setter.
E su quelle piste, sulle stesse orme di allora sono tornato, ora che ho superato i cinquant’anni,
sacco in spalla e scarponi, negli scampoli di tempo che mi concede il lavoro. Marien ascolta le mie parole,
porta calze di lana pesanti rammendate al ginocchio, da una tasca cava due caramelle di menta, mi
dice che sono buone e tolgono la sete. L’ho seguita con lo sguardo fino in fondo, tre tornanti più in basso,
col suo fieno sulle spalle, che arrancava anche in discesa, è scomparsa dopo l’abbeveratoio e una fila
continua d’abeti argentati.
Ho rivisto Marien un mese dopo, in paese. Era nel cortile di casa, stendeva il bucato, aveva gerani
sui davanzali e legna accatastata con cura sotto un portico, su una panca c’erano un cartoccio di
pomodori verdi, qualche zucchina e un gatto coricato al sole. Mi ha riconosciuto, mi ha parlato del temporale
di stanotte, grandine e vento, tuoni e saette. Assicura che stanotte giravano solo diavoli ubriachi,
in baldoria con streghe malvagie coricate nei fienili e che la luce dei lampioni, tra le case, se n’era andata,
improvvisamente, per mano divina, perché il buio più profondo potesse nascondere alla
gente quello scempio. Ha un canale di gronda che penzola dal cornicione e coppi in bilico
come funamboli, oggi verrà suo figlio per sistemarli.
Sono andato all’osteria, due stanze e tovaglie a quadretti, a prendere un caffé.
Appese alle pareti, quadri naif e calendari datati.
In un angolo, un vecchio juke box, con i tasti anneriti, mostra pochi dischi sciupati con le etichette
indecifrabili. Mi ha servito un omone col grembiule, di corsa sono entrati dei bambini in maglietta a
righe e cappellino. Hanno chiesto gelati e patatine, con le biciclette sono andati via. L’oste sostiene che
c’è vita d’estate, quando arrivano i villeggianti a prendere il sopravvento, poi dopo ferragosto torna tutto
nella quiete più assoluta. Sono rimasti i vecchi, qualche giovane ritardato, c’è più gente al cimitero che
in paese.
Una volta non era così. C’era anche un negozio, la scuola, il vivaio della forestale e su in alto il
rifugio Belvedere. Mi confida, a voce bassa, che fu Miciassa, il padre di Marien, a tirarlo su dal nulla,
nella primavera del ventinove. A dorso di mulo aveva portato mattoni e legname, travicelli e tavelle;
creato quattro camere da letto, la cucina, una sala da pranzo con due camini. L’acqua incanalata dalla
sorgente e per luce lanterne a petrolio. L’oste racconta che il rifugio ebbe vita breve. Accenna, appena,
la storia dell’inglese e dell’indio, poi, improvvisamente, tace, si passa una mano sulla bocca come se non
potesse dire di più, mi chiede uno spicciolo di conto e sparisce dietro il bancone come un fantasma.
Incrocio, in paese, giovani mamme in vacanza che spingono carrozzine colorate e pensionati con
la paglietta in testa e il bastoncino di nocciolo intagliato. Si affannano attorno al furgone dell’ambulante,
fermo sulla piazza della chiesa. Ho attraversato cortili di sasso, fiutato l’acre fumoso dei camini, calpestato
ritagli di prato tra le case. Hanno coperte e lenzuola stese al sole, appoggiate ai balconi o alle staccionate,
finestre spalancate, si sente l’aroma pungente del soffritto sfrigolare sul fuoco e la musica lontana
di una radiolina. Con il piglio di un investigatore, sono salito alle macerie informi del rifugio Belvedere.
Dovrò chiedere a Marien, lei saprà certamente qualcosa. Se vorrà, tra le pagine sbiadite della memoria,
troverà un indizio, una confidenza e soddisferà le mie curiosità.
Andrò da lei tra una settimana. Per convincerla, le porterò biscotti e cioccolata.
Marien è seduta, di prima mattina, su una panchina addossata al recinto di pietra del cimitero.
Con un’altra donna - entrambe portano scuri vestiti a piccoli disegni e pianelle corvine - recitano, sommessamente,
una litania di storpiature, sgranando, armoniche come ballerine, un rosario d’opale e raccomandandosi
alla Beata Vergine. Entro con loro tra le lapidi e le croci. Marien tiene in mano ginevrine
e bocche di leone, dice che qui riposa suo marito Josè e nell’ossario i suoi vecchi. Poi alza lo sguardo
alla montagna e indica la vetta, confusa tra le nuvole vaporose d’estate. Lascia uno dei due mazzetti al
marito, l’altro in un vasetto di bronzo appeso ad una lastra funeraria, che porta incisa nel marmo i nomi
di dodici caduti. Undici sono soldati della prima guerra, mentre uno soltanto, un certo Bosser, ha finito
la sua vita nel quarantaquattro, onorato come partigiano. Marien m’invita a casa sua, credo abbia gradito
i dolci che le ho portato.
La cucina ha il soffitto basso e il pavimento rosso di mattoni. Una pentola di brodo sobbolle sulla
stufa e in un piatto, sul tavolo, ci sono uova e patate lesse. Quando arriverà l’inverno andrà, malvolentieri,
da suo figlio in città. Passerà mesi al quinto piano di un condominio di periferia, la televisione accesa
e, dalle finestre, vedrà solo nebbia e grigiore, treni sui binari e traffico sulla statale. Chiedo a Marien
notizie del rifugio, ma non risponde. Torna dal tinello - si scorge, appena, nella penombra di persiane
accostate, la sagoma di un cassettone e il riflesso di una specchiera - con una scatola di cartone, di quelle
che si usano per le scarpe, chiusa con un nastro marrone di raso. Mi mostra una ventina di ingiallite
fotografie, con i bordi seghettati, del rifugio alpino monte Boglelio, millecinquecento metri sul livello del
mare.
C’è anche lei, in posa, con suo padre e Giustina, sua madre, davanti al portone d’assi, e sul muro,
ruvido di calce bianca, sono disegnati due tricolori e la scritta ristoro Belvedere.
È una bambina, avrà sei, sette anni, ha lunghe trecce sulle spalle e tiene, goffamente, le gambotte
incrociate abbracciando una bambola di pezza. Marien racconta di mercanti in carovana, nomadi
sulla via del sale, che lì trovavano riparo, acqua e biada per i cavalli; ricorda il peregrinare
sofferto di viandanti sorpresi dalla tramontana, il ciclico andirivieni delle greggi e del
bestiame sul valico, certe feste con i pifferi e le fisarmoniche nelle sere stellate d’agosto.
Con la prima neve il Belvedere chiudeva, nell’attesa della primavera.
Marien dice di aver consumato gli anni migliori al rifugio e furono belle stagioni. Poi, troppo presto,
improvvisa come una bufera, era arrivata quella maledetta guerra e qualcuno, in paese, aveva indossato
la camicia nera per convenienza e la scuola era diventata la casa dei balilla. Quando i tedeschi
vennero da padroni a prendersi la terra, trovarono sui monti, nei boschi fitti di larici e di abeti di questo
Appennino di confine, il valore di schiere di giovani con le armi in pugno e il fazzoletto rosso al collo.
Così, racconta Marien, andavamo di notte per sentieri, incontro a quei ragazzi, portando pane nero,
gnusso e maglie di lana. C’erano anche vagabondi e sbandati su queste montagne. Si diceva di prigionieri
inglesi in fuga e di uno, con la pelle scura e una cicatrice sul viso, guardingo e randagio come un
indiano, che si nascondeva nei casoni dei pascoli e nei romitori abbandonati. Le brigate nere colsero gli
inglesi all’imbrunire, nel giorno di Natale del quarantatrè, sul vallone ghiacciato della Seppa e li trascinarono
in paese, incatenati come belve. Li lasciarono due giorni a gelare in un’aula della scuola. Ma uno
degli inglesi se la svignò, volando, come un angelo, da una finestra del secondo piano, e bussò per caso,
nel buio della notte, alla porta di casa di Marien.
Gli offrirono polenta e baccalà, avanzati dalla cena, il calore della stufa e un cappotto rivoltato da
spaventapasseri.
Marien indica una scala di legno consumata che da un angolo della cucina porta al piano di sopra
attraverso una botola chiusa da una ribalta. I fascisti vennero a cercarlo anche lì. Salirono, cocciuti, nel
sottotetto, ma non lo trovarono. Non si accorsero di uno sportello camuffato nel pavimento, che chiudeva
un altro passaggio ai piedi della scala e che scendeva in uno stretto scantinato. Rimase in quel buco
fino a Capodanno.
Il suo nome era Robert e aveva ventidue anni. Un biondino con un curioso accento, alto e magro,
bello da svenire. Ci parlavamo a gesti, alla flebile luce di una candela. Miciassa lo portò al rifugio
Belvedere, lontano da occhi indiscreti. Marien rivela di aver amato quell’ inglese da subito. Una passione
clandestina, fugace e travolgente, maturata lassù, nel silenzio complice di vette innevate e solitarie,
più vicine al respiro del Signore che alle miserie degli uomini.
In paese credevano che l’indio rubasse di notte galline e conigli. Qualcuno diceva di averlo sorpreso
nei boschi, una faccia da galeotto, un selvaggio; frugava, come un animale, tra le foglie rinsecchite
e si metteva in tasca castagne, indurite dal gelo, buone solo per i maiali. Marien racconta di aver
conosciuto anche l’indiano. Perché lui e l’inglese avevano qualcosa in comune, erano entrambi disertori.
Robert era, in realtà, un francese d’Alsazia, costretto ad indossare la divisa della Wehrmacht, quando
la sua terra era stata occupata e spedito in Russia. L’indio era un sudafricano di trent’anni, arruolato dagli
inglesi, caduto col suo aereo su queste montagne, durante una missione, e che aveva deciso di darsi per
morto. Marien, Robert e l’indio si ritrovarono al rifugio Belvedere, il giorno della Befana del ‘44. Si capirono
a fatica, mescolando sguardi e promesse. Avevano sogni da realizzare. Uno sarebbe rimasto, per
sempre, insieme a Marien e avrebbe messo su famiglia, l’altro avrebbe cambiato vita.
Ogni anno, quando arriva Sant’Antonio il parroco benedice le stalle e le processioni scivolano tra
le case. La gente buona del paese si fa il segno della croce e si ferma guardando la conca dell’asino, lassù,
quasi in cima al Boglelio. Le brigate nere tornarono il 17 gennaio del ‘44 e sorpresero, nel sonno, Robert
Bosser. Senza dire nulla, lo spinsero fuori e gli spararono un colpo alla nuca. Josè vide, da lontano, la
scena. L’inglese cadde in avanti, rimase qualche secondo in ginocchio, poi si afflosciò sulle pietre umide
della veranda, nello spasmo atroce della morte. Josè vide anche chi condusse i sicari sulle tracce dell’inglese.
Quelle carogne uccisero anche il rifugio Belvedere. Ne fecero un gran falò, bruciò per una giornata
intera. L’indio salvò dal rogo il corpo senza vita di Robert e lo portò, a spalla, in paese. Marien ha
avuto un figlio dall’inglese e Josè, l’indio, è diventato suo marito. Quando la guerra finì scapparono i
fascisti e sparì anche il maestro elementare.
Marien dice che del Belvedere rimasero solo fumo e rovine incenerite.
Josè fu un bravo papà, amò quel figlio, che non gli assomigliava per nulla, come se
l’avesse fatto lui; amò, senza pentimento, quel figlio biondo con gli occhi chiari che
aveva, nella pronuncia, una singolare erre da francese. Josè fu anche coraggioso, molto
coraggioso. Strangolò quel bastardo del maestro, in una notte di pioggia. Marien sa bene come andò a
finire. Quando sale in montagna a raccogliere patate quarantine e falciare fieno passa davanti la stalla
del capraio, con il suo cagnaccio ringhioso. È l’ultima del paese. E tutte le volte, davanti alla concimaia,
si ferma e ci sputa sopra. Quel che resta di quell’immonda spia macera, da quasi sessant’anni, nel letame.
In paese, quelli che sono al cimitero, si sono portati dietro almeno un segreto e quei pochi che
sono rimasti tacciono o parlano d’altro. Più in alto, soltanto prati e castagni.
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